Infanzia, vocazione e prime esperienze di Carlo Roda, uomo-cinema spezzino
Ph. Riccardo Pioli © 2020
Infanzia, vocazione e prime esperienze di
Carlo Roda, uomo-cinema spezzino
Dieci anni sono
trascorsi da quel 18 giugno del 2010 in cui si inaugurava alla Palazzina delle
Arti della Spezia una mostra proveniente da Genova dal titolo “Assalto al
cinema - Storia dei cineclub in Liguria”, un evento che non aveva mancato di
suscitare accese polemiche per lo spazio esiguo concesso alle esperienze
spezzine e soprattutto per l’omissione di Carlo Roda e del suo Collettivo
dell’Immagine sia dal percorso espositivo sia dal catalogo della mostra.
Il rapporto di Roda con
le istituzioni che si sono succedute alla guida di questa città non è mai stato
particolarmente sereno – per usare un eufemismo – e quella ne era l’ennesima
dimostrazione. Con l’aggravante che in quel caso specifico, a fronte
dell'ambizione di completezza dichiarata fin dal titolo, un’omissione del
genere si sarebbe potuta configurare come una sorta di damnatio memoriae
ai danni non solo dell’interessato ma anche delle future generazioni.
All’epoca dei fatti chi
scrive, insieme ad altri, aveva dato vita a un blog la cui lettura potrebbe
ancora rivelarsi di un qualche interesse, tenuto conto del fatto che si tratta
a tutt’oggi – nonostante nel frattempo sia stata inaugurata la Mediateca
Regionale – dell’ultimo dibattito pubblico sulla cultura cinematografica in
questa città: https://assaltoallamemoria.wordpress.com/
«Autentico appassionato
e testardo sognatore – scrivevamo allora –, dal 1974 e per oltre trent’anni
Roda, attraverso il Collettivo dell’Immagine, ha promosso e diffuso la cultura
cinematografica alla Spezia come nessun altro, sia quando è stato costretto ad
effettuare le sue proiezioni in luoghi non canonici sia quando ha avuto la
possibilità di gestire delle piccole sale di periferia». Il 1974 annus
mirabilis, dunque, soprattutto per chi c’era e aveva diciotto, vent’anni o
poco più. Ma anche gli anni precedenti, quelli della formazione da spettatore e
della vocazione cinefila. E quelli immediatamente successivi, i più
avventurosi, del passaggio all’azione: il proiezionista itinerante, l’esercente
atipico, il collezionista, l’archivista, il filmmaker. Abbiamo incontrato Carlo
ancora una volta, nel settembre 2019, in un cortile del Quartiere Operaio, per
sentirceli raccontare dalla sua viva voce.
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Le mie prime esperienze
di spettatore sono legate al cinema Arsenale, quello del Circolo dei dipendenti
della Marina, negli anni cinquanta. Da Pegazzano, dove abitavo allora, andavo
con altri ragazzi al cinema attraversando le macerie della guerra, l’area bombardata
verso via XV Giugno, passavamo in mezzo alle macerie per abbreviare la strada.
Qui c’era un pezzo della ferrovia dell’Arsenale, ci sono ancora le tracce dei
binari a Pegazzano, vicino all’Arcimboldo. Poi nella zona hanno costruito le
palazzine dei sottufficiali, verso la fine degli anni sessanta. Vedevamo un po’
quello che c’era, ovviamente c’interessavano di più film come i peplum – Ulisse,
Sansone e Dalila –, i film d’avventura che attiravano i ragazzi. Qualche
anno dopo abbiamo cominciato ad andare al Marconi, in via di Monale, che faceva
due film, in genere uno a colori e uno in bianco e nero, e lì si vedevano i
classici americani, anche i film più vecchi, pellicole di magazzino… faceva un
po’ da cineteca. Il Marconi aveva una fama non troppo buona, come ambiente, ed
era anche l’unico cinema che faceva le proiezioni al mattino, frequentate da
studenti che non andavano a scuola e da gente che non lavorava. Lì ho
cominciato a vedere un sacco di film. Bisogna tener conto che a Genova c’era
una casa di distribuzione, la Venere Film, che aveva un po’ tutti i film usciti
dal dopoguerra in poi. Erano copie spesso malconce – ricordo certe copie de Il
fiume rosso, Il grande cielo… Notorious dove mancava un pezzo
alla fine – però ce le aveva… All’epoca c’era ancora l’interesse a mantenere
dei magazzini del genere, e poi c’erano i distributori che ogni tanto facevano
delle riedizioni. Bisogna considerare che a Genova venivano distribuite anche
copie in16mm per le navi mercantili, che poi ritornavano quando la nave
rientrava in porto. Forse è anche per questo che Genova ha una storia
importante per quanto riguarda i cineclub, in quegli anni. Penso al Filmstory,
che aveva addirittura due sale, sala De Mille e sala Ford, di 50 e 30 posti
l’una, con una programmazione da fare invidia, perché a Genova, con il fatto
delle navi, avevano dei magazzini che non finivano più… Erano appassionati
soprattutto di cinema americano classico, hanno valorizzato anche autori meno
noti.
Ho cominciato a leggere
qualcosa di cinema comprando nelle edicole. In alcune arrivavano “Cinema Nuovo”
e “Bianco & Nero”, e ricordo anche che trovai un’edizione economica del
manuale di Georges Sadoul, in tre volumetti. Poi, in piazza Beverini, c’era una
bancarella che vendeva libri usati, e lì avevo trovato alcuni libri sul cinema
italiano del dopoguerra e un vecchio manuale di cinema, ma erano libri che
copiavano da altri libri e riviste, di solito francesi. Più tardi ho scoperto
le librerie antiquarie nelle altre città: ne avevo trovato una a Firenze che
aveva un sacco di roba, dei libri di cinema degli anni ’30, ’40, ’50… O
librerie specializzate come Il Sileno a Genova. E poi a Roma… c’era tanta di
quella roba!
Le prime visioni non le
seguivo molto, anche perché generalmente c’erano i titoli più commerciali,
andavo piuttosto al cinema Odeon, verso la metà degli anni sessanta, che faceva
delle seconde visioni di qualità. Il passaggio a un cinema diverso da quello
che potevo vedere all’Arsenale o al Marconi, ci fu quando scoprii altri autori
attraverso i libri, attraverso certe rassegne che davano in televisione, e
soprattutto grazie al Cineclub “Charlie Chaplin”, alla fine degli anni
sessanta, che era legato all’Arci ed era animato da persone che qualche anno
dopo lasciarono Spezia per lavorare a diverso titolo nel mondo del cinema, come
Fabio Carlini, Franco Ferrini, Enzo Ungari. Prima del “Chaplin” non avevo
sentito parlare di nessuna esperienza del genere. Vidi una locandina in piazza
del mercato… e la domenica mattina del 7 febbraio 1968, alle ore 10, al cinema
Diana, vidi il primo film della rassegna, Los olvidados - I figli della
violenza, di Luis Buñuel, che mi colpì perché rappresentava un mondo
particolare, il mondo dei ragazzi emarginati in Messico, con un modo di fare
cinema originale, diverso anche da quello del neorealismo italiano. Prima di
allora di cineclub a Spezia non ne avevo sentito parlare. Un circolo come il
“Flaherty” non lo conoscevo, perché risale alla fine degli anni cinquanta,
inizio sessanta. Anche l’Odeon aveva iniziato un’esperienza del genere, il
mercoledì, mi sembra. Il “Chaplin” fece la sua prima rassegna al Diana, la
seconda e la terza allo Smeraldo, e poi la quarta al Garibaldi. Aveva
pubblicato anche alcuni numeri di una rivista ciclostilata, “Giovane cinema”.
A un certo punto, con
l’esaurirsi dell’attività del “Chaplin”, anche perché i suoi principali
animatori se n’erano andati da Spezia, decidemmo di dar vita a una nostra
attività. L’inizio ufficiale risale al settembre del 1974, con la costituzione
del Circolo del Cinema “Buster Keaton”, con Sergio Fregoso presidente, Sauro
Venturini amministratore e Carlo Roda segretario. Poi c’erano Ornella Orsucci,
Teresa Ciavolino, Renzo Dadà e altri. Il circolo si era costituito un po’ in
antagonismo con l’Arci, perché per l’Arci il cinema era un settore fra i tanti
delle sue attività, mentre a noi interessava più puntualizzare: che cos’è il
cinema, qual è la storia del cinema, ecc. Ci interessava fare qualcosa che
durasse nel tempo, non le solite rassegne di sette-otto film… e arrivederci
all’anno dopo. C’era stato un po’ di attrito perché loro vedevano il nostro
circolo in opposizione al “Charlie Chaplin”, anche se all’inizio abbiamo fatto
qualche iniziativa insieme.
Sergio Fregoso,
fotografo e riferimento per tutti quelli più giovani che s’interessavano di
fotografia, l’avevo conosciuto attraverso Maurizio Maggiani. Era un gruppo che
girava da queste parti, intorno a piazza Brin, mentre io abitavo ancora a
Pegazzano: c’erano Maggiani, Renzo Dadà e altri… e c’era appunto Sergio, che
amava farsi trascinare in certe avventure. Sauro Venturini l’ho conosciuto
all’Arci, insieme ad altri che s’interessavano più di cinema e che avevano
conosciuto Fabio Carlini. Con loro siamo andati a Pesaro insieme, al Festival
del Nuovo Cinema, anche perché l’Arci allora aveva diritto a due o tre inviti.
Una volta siamo andati con Sauro, Carlini e sua moglie, su una Fiat 500…
Allora, e anche in seguito, quello di Pesaro era un festival notevole. Più che
per prendere contatti, andavamo lì per vedere i film, per cercare della
documentazione. Lì incontravi Glauber Rocha, Jean-Luc Godard, Jean-Marie
Straub… ormai eravamo di casa. A Straub avevo fatto una fotografia, poi l’anno
dopo gliel’ho portata: era tutto contento! L’ho rincontrato anni dopo all’isola
Tiberina dove Angelo Humouda faceva una rassegna. Straub era lì da spettatore,
perché c’erano film che non aveva mai visto, come i primi di Griffith. Anche
quella volta gli ricordai della fotografia… Un’altra volta, a Roma, quando
facevo la sonorizzazione di quel mio film Al Cinema Garibaldi, lo
incontrai diverse sere in un bar vicino allo stabilimento della Fono Rete e mi
chiedevo cosa ci facesse. Poi Paolo Benvenuti, che era un suo assistente, mi
spiegò che secondo una sua teoria, se in uno studio ci sono diverse moviole al
lavoro, questo influisce sulla resa del sonoro per il continuo avanti e
indietro che produce scrosci, così lui aspettava che gli altri avessero finito
per ottenere la massima pulizia del sonoro.
Nel 1971 era uscito un
libro di Adelio Ferrero e Corrado Morgia, Guida alla formazione di una
cineteca, edito dai Circoli del Cinema dell’Arci, dove c’erano le linee
guida, gli elenchi dei film, i contatti. Valeva quello che valeva, perché dopo
un po’ i film sparivano dalla circolazione, però era quello il modo di operare,
era un po’ il punto di riferimento per il nostro lavoro. In quegli anni erano
venute fuori delle distribuzioni indipendenti che prendevano i film dei
festival, di Pesaro ad esempio, certi film che venivano rieditati. C’era un
certo movimento in questo senso.
La prima proiezione come
“Buster Keaton” avvenne al Cinema Garibaldi, al Canaletto, il 27 ottobre 1974,
e fu Il leone a sette teste di Glauber Rocha. Il Garibaldi era di
proprietà dell’Unione Fraterna ed è rimasto aperto fino all’82. La domenica
mattina e alcune sere in settimana, come il martedì e il mercoledì, la sala non
era utilizzata, per cui ce l’affittavano, solo che poi era più la spesa che
l’impresa, perché tra il film, la spedizione, la sala, l’elettricità, il
proiezionista… Potevano venire anche un centinaio di persone, ma erano così
bassi i prezzi… Avevamo fatto Bertolucci, Bellocchio, Pasolini, Visconti,
Buñuel, Jancsó… saremo andati avanti tre anni, un po’ da soli, un po’ con
l’Arci, un po’ con le Acli, poi siamo arrivati alla conclusione che l’unico
modo per sopravvivere era comprarsi un proiettore 16mm e andare in giro.
In un certo senso è da
quel momento che è nato il Collettivo dell’Immagine, intorno al ’77, che
conservava lo statuto del “Buster Keaton”. La scelta era quella: i film in 16mm
della San Paolo costavano relativamente poco, c’era un catalogo consistente, ma
questo voleva dire diventare itineranti. A quel punto eravamo io con Ornella
Orsucci e qualche altro. I luoghi in cui abbiamo proiettato sono stati il
comitato di quartiere di Fossitermi, quello di piazza Brin, lo Studio 74 di
Giuliano Sturli… C’erano state rassegne sull’espressionismo tedesco, sul cinema
sovietico degli anni venti, su Pasolini.
Quando abbiamo
cominciato a fare le proiezioni come Collettivo dell’Immagine, i luoghi erano
quelli che erano, quelli che si potevano trovare. In piazza Brin, nella sede
del comitato di quartiere, c’era la stufa accesa, perché d’inverno faceva
freddo, e c’era una scaletta sulla sinistra che portava giù ai bagni, e
bisognava stare attenti a non caderci… e qualcuno c’era anche caduto! Lì ci
saranno stati una cinquantina di posti a sedere, non era grande. Avevamo fatto
un ciclo di film di Pasolini, era sempre pieno di gente, e poi Chaplin, Keaton,
la Nouvelle Vague, prima e seconda parte.
In piazza Brin c’era un
presidente del comitato di quartiere, Franco Dell’Omodarme, che era una persona
disponibile e ci ha sempre appoggiato. Se trovavi la persona disponibile… La
prassi era sempre quella: individuavi i luoghi in cui era possibile fare
qualcosa, che poi in quegli anni erano essenzialmente il comitato di quartiere
di Fossitermi e quello di piazza Brin, e presentavi una domanda al presidente.
All’epoca c’erano altre
attività in città, come un cineforum organizzato a Pegazzano da un gruppo di
giovani nell’ambito di un doposcuola. Dei cicli di film, di cui uno sul
western, erano stati fatti in una sala attigua alla chiesa di Fossitermi. C’era
anche un cineforum a Migliarina, in una sala parrocchiale sotto la chiesa.Tutti
questi gruppi proiettavano in 16mm e attingevano al catalogo della San Paolo,
che all’epoca era enorme. Quanto ai cinema veri e propri, era iniziata anche
l’attività del Cineclub “Controluce”, che proiettava al cinema Don Bosco, e
quella del Cineclub “Unione Fraterna”, dove ora c’è il cinema Nuovo.
Nel 1977 presi il
patentino da proiezionista, necessario per il 35mm. Avevo fatto l’esame al
Teatro Civico, con una commissione della Prefettura. Prima ero andato “a
scuola” da Dino Maggiani, mitico operatore del Cozzani e dello Smeraldo e padre
di Maurizio Maggiani. Poi abbiamo comprato un proiettore 35mm portatile, e una
cinepresa Arriflex 16mm che avevamo preso a Genova da una cooperativa dove
c’erano Gianni Ianelli, Giorgio Bergami… Diciamo che volevamo provare, almeno
provare, a fare cinema. Allora comprammo anche una moviola. Grazie a Humouda,
che è stata una grande scoperta, che ha segnato una grande svolta, eravamo
venuti a sapere che in Rai stavano dismettendo il materiale in pellicola perché
stavano uscendo i videoregistratori, e allora abbiamo partecipato a una specie
d’asta e abbiamo preso una moviola, che abbiamo sistemato in una cantina di
Pegazzano, che non esiste più perché la casa è stata venduta. La moviola poi
era stata rivenduta a dei ragazzi di Torino.
Qui c’è da aprire una
parentesi su Angelo Humouda, che è stato quello che ha rivoluzionato in Italia
e in Europa l’idea, la visione di come costruire le cineteche. Allora, mi
ricordo, andavo a Roma alla Cineteca Nazionale, e c’erano, che so, cento film:
uno di David W. Griffith, uno di Sergej Ejzenštejn, e così via. Invece lui ha
detto: no, la cineteca deve essere orizzontale; prendi un autore e tutto quello
che c’è lo devi avere. Lui era partito da questo concetto e da lì aveva cominciato
a comprare i film, aveva scelto Griffith e poi il muto, specialmente i
pionieri. Lui è quello che ha portato in Italia Georges Méliès: prima in Italia
c’era solo Il viaggio nella Luna, La conquista del Polo… A parte
Griffith, di cui tutto quello che ha trovato ha comprato, ha portato Erich von
Stroheim, Buster Keaton, i primi cartoni animati, mai visti qui da noi. Mi
ricordo che era venuto al Centro Allende, a una festa dell’Avanti!, e aveva
portato certe pellicole rarissime! Io l’avevo incontrato a Genova, nel suo
grande appartamento di via Luccoli, in occasione della presentazione del suo
libro Ragioni di una proposta, in cui ci sono le linee guida del suo
lavoro a partire da un cortometraggio di Griffith, The Adventures of Dolly.
Allora era conosciuto, perché quando a Venezia nel 1975 avevano fatto quella
grande rassegna su industria culturale e cinema in Usa negli anni dieci e
venti, curata da Alberto Abruzzese e Beniamino Placido, tantissimi film erano i
suoi. Quando è morto, hanno fatto un libro in omaggio a lui, perché tanti
genovesi sono passati da lì. Ho lavorato in quegli anni con lui, in giro sul
pulmino verde della “cineteca ambulante”. Mi pagava con copie di film della sua
cineteca!
Fra i collezionisti
c’era anche l’ingegner Piero Tortolina, di Padova, che aveva messo insieme una
grande cineteca privata… Allora nelle grandi città, come Genova, Torino,
Padova, c’erano le grandi case di distribuzione che periodicamente liberavano i
magazzini. La San Paolo Film, che a Genova dava alle navi i film in 16mm, prima
delle cassette, aveva un magazzino dove raccoglieva, editava tutti i film,
tutti i titoli, almeno delle agenzie del nord Italia. La San Paolo era una
potenza: fate conto che dopo la guerra in Italia c’erano 5.000-6.000 sale, e la
metà erano parrocchiali. Mi ricordo che in quel magazzino c’era praticamente
tutto il cinema. La San Paolo comprava i diritti dei film e faceva il
riversamento, l’edizione in 16mm, e lavoravano anche bene… Ne facevano diverse
copie, perché ogni capoluogo di regione aveva la sua agenzia. Hanno chiuso
negli anni ottanta, con l’avvento delle cassette. Qui da noi c’era la libreria
delle Paoline che faceva da recapito. Per il 35mm c’era un servizio con i
corrieri o anche con le ferrovie, specialmente con la Cineteca Nazionale,
allora c’era la carrozza bagagli.
Intanto dal ’77,
sull’onda di Humouda, avevo cominciato a comprare film in 16mm, compravo in
America i film della Blackhawk, e anche da un personaggio di Milano, che ho
conosciuto solo telefonicamente, che stampava delle copie in 16mm di vecchi
film in bianco e nero… la qualità non era alta. Anche Humouda se ne serviva per
fare dei duplicati dei suoi film, che poi mandava in giro per non rovinare le
sue copie. Poi però anche questo di Milano mandava in giro duplicati fatti da
lui… Quando chiuse la San Paolo di Genova comprai 200-300 film, e alcuni li
recuperai direttamente dalla spazzatura… li buttavano via!
Già negli anni settanta
mi ero scontrato con le istituzioni, come il Teatro Civico e l’Assessorato alla
Cultura: se c’era un interesse da parte loro a farti fare qualcosa, te lo
facevano fare, altrimenti, niente. Il Civico faceva la sua stagione teatrale,
ma per il cinema non programmava niente, era legato alla distribuzione
dell’Italnoleggio. C’erano dei cicli di film, a volte, d’estate, che erano dei
pacchetti già pronti, che arrivavano da fuori.
Con partiti e gruppi non
c’è mai stato veramente un rapporto. Nel caso delle feste dell’Unità e cose
simili era una prestazione d’opera, e sono stato sempre pagato solo per la
prestazione: il costo del film e la proiezione. Non c’è mai stata un’idea, un
progetto, al di là di vaghe promesse: non c’è mai stata una sala dedicata a
queste cose, solo iniziative di privati, finché ci sono state. Al di là dei
partiti, nemmeno i gruppi, i movimenti hanno fatto granché. C’era una presenza
di quelli impegnati politicamente, ma a titolo personale, non c’era un
interesse da parte dei gruppi. La Fgci qualcosa faceva, legata alle feste de
l’Unità e ai circoli, portavo il proiettore là dove c’erano degli spazi che lo
consentivano.
Fra la fine degli anni
settanta e l’inizio degli ottanta ci siamo “trasferiti” in un altro locale del
Comune, un po’ più grande degli altri, il Centro del Tempo Libero, nell’ex
orfanotrofio Garibaldi. Abbiamo fatto “La macchina cinema” e “Percorsi della
macchina cinema”, che erano state delle rassegne più ambiziose, volevamo
provare a fare un discorso più generale sul cinema, con parecchi film di genere
diverso: si andava dal muto all’avanguardia, dai classici a film più recenti…
ma qui siamo ormai negli anni ottanta. Di tutto questo resta un grande archivio
di film e libri raccolti durante gli anni della nostra attività.
La Spezia, 18 settembre 2019
Un caro saluto a Carlo. Ho letto con molto interesse , percorrendo con l'immaginazione quanto hai dato per la tua passione.
RispondiEliminaI viaggi, le ricerche raffinate, gli incontri, le lotte, le soddisfazioni per obiettivi raggiunti e le delusioni per quelle volte che non sei stato compreso.
Comunque un percorso di vita molto interessante e vitale.