Il nostro Vietnam, il mio Vietnam

di Federico Lucio Paganini


A cavallo degli anni ’60 e ’70 studiavo e la mattina, alle otto, sentivo regolarmente il giornale radio che immancabilmente annunciava: “…aerei americani hanno bombardato… “ questo o quell’obiettivo vietnamita. Quell’annuncio, altrettanto immancabilmente, prima del disgusto mi provocava una contrazione di qualche muscolo del ventre, forse una stretta delle coronarie, poi subentrava la rabbia che prendeva i muscoli delle braccia: era come se volessero muoversi, ma per l’impossibilità di dare uno sfogo fisico alla rabbia e all’odio subivano per qualche istante una specie di tremito. Aveva ragione Omero quando situava la sede delle funzioni intellettuali nei Φρήνεσ, i precordi, e non nel cervello. Queste erano le mie emozioni di fronte alle infamie dell’imperialismo americano. Naturalmente posso parlare solo per me per quanto riguarda le sensazioni e i sentimenti più profondi. Quello che ho descritto è il “mio Vietnam”, il Vietnam come l’ho vissuto io. Non so come reagivano nel loro intimo i tanti giovani che come me odiavano quella guerra, però li avevo attorno a me a centinaia in questa città e li vedevo in tv a decine di migliaia quando le manifestazioni antimperialiste si svolgevano nelle grandi città d’Italia e del resto del mondo. Vedevo Sartre in Francia, Joan Baez e Jane Fonda e Cassius Clay e Angela Davis negli USA, vedevo Che Guevara in Bolivia, Lelio Basso e il suo tribunale in Italia, battersi contro l’imperialismo e quelli erano i miei eroi. Fossero loro toccati emotivamente come me o la loro indignazione fosse soltanto razionale, li sentivo comunque vicini. Mai più dopo di allora ho sentito per una massa indistinta di persone, in manifestazioni di partito o di sindacato, lo stesso sentimento di amore e comunanza. Durante le manifestazioni antimperialiste e antiamericane noi (io facevo parte prima di un gruppo informale di comunisti che aveva lasciato il P.C.I. nel ’68, poi di una formazione politica che si chiamava Lega dei Comunisti) seguivamo il corteo organizzato dal Partito Comunista insieme ad altri gruppi (per esempio Lotta Comunista). Questi gruppi erano più o meno numerosi a seconda che aderissero anche gli studenti medi e facessero sciopero. Ognuno aveva i suoi striscioni e le sue parole d’ordine. C’era però una parola che unificava tutti e veniva urlata a squarciagola da tutti: HO CHI MINH! C’era un giovane compagno del P.C.I. dalla voce particolarmente tonante: lui dava il là col primo urlo, poi seguiva il coro di centinaia di voci che rimbombava nelle strade piuttosto strette della città. Ricordo che una volta ci staccammo dal corteo non per infrangere vetrine e fracassare automobili come fanno ora i casseurs, ma per fare semplicemente un sit-in come avevamo imparato dai metodi del movimento studentesco americano. Io portavo un cartello con un grande ritratto di Ho Chi Minh. Un giovanotto tra di noi fece delle fotografie. Un poliziotto si diresse verso di lui per prendergli il rullino e avere così le foto delle nostre facce. Noi ci mettemmo a gridare e quando lui capì quello che stava succedendo aprì la macchina fotografica, estrasse il rullino e lo espose alla luce. Ci fu un tripudio di applausi. Mi dissero poi che era un turista canadese. Quella sera stessa venne nella nostra “sede” (un fondo con un ciclostile e due panche fatte con tavole rubate da un vicino cantiere in Viale Aldo Ferrari), in un momento in cui eravamo particolarmente euforici per la buona riuscita della nostra prima manifestazione pubblica (prima di allora avevamo distribuito solo volantini agli studenti e uno ai marinai americani con cui li s’invitava a disertare). Si vantò di sapere dove si nascondevano le armi dei partigiani e ci propose di andare con lui a prenderle. Fu applaudito e potemmo sognare per qualche giorno la lotta armata. D’altra parte il nostro Paese passava da un allarme all’altro di un colpo di stato e armarsi non era poi del tutto irrealistico. Dopo qualche giorno qualcuno si rese conto che si trattava di un provocatore e la cosa finì lì. Non si presentarono più provocazioni. In seguito fui portato qualche volta in questura per identificazione e accertamenti, una volta per aver affisso un foglio ciclostilato con l’immagine di Ho Chi Minh. Vent’anni dopo, avendo occasione di fare una domanda in questura, scorsi quel ciclostilato, ora divenuto innocente, in una cartella a mio nome. Io e il poliziotto ne sorridemmo entrambi.

 

Le immagini che seguono pubblicate sui giornali e viste in TV soprattutto dal pubblico americano contribuirono certamente, insieme alle 58.000 bare di soldati americani sbarcati dagli aerei, alle manifestazioni giovanili per la pace nello stesso centro dell’impero e infine allo scandalo Watergate, a por fine all’aggressione americana. Per aver posto fine all’aggressione dopo quindici anni, al Segretario di Stato americano Kissinger, le cui mani si macchiarono poi anche del sangue dei cileni e degli argentini, fu conferito nel 1973 il premio Nobel per la pace. 


Questa foto fu scattata l’8 giugno 1972 dal fotografo vietnamita Nick Ut, sotto contratto con l’Associated Press. La piccola Kim Phuc, 9 anni, fugge nuda, preceduta dal fratello, dal villaggio di Trang Bang, vicino a Saigon, bombardato dall’aviazione sudvietnamita con bombe al napalm, la pelle bruciata, in preda a un folle dolore. Ut scattò due foto, poi prese in braccio la piccola e la portò in un piccolo ospedale. I medici la diedero per spacciata ma Ut insistette per farla curare, facendo valere il suo status di giornalista internazionale. Nick Ut temette che la foto non potesse essere pubblicata perché c’erano rigide regole all’Associated Press per quanto riguardava la nudità. Fu Horst Faas, il photo editor dell’agenzia, che ne impose la pubblicazione, sostenendo che il valore di quell’immagine sovrastava ogni altro ragionamento. La foto fu pubblicata tagliandone una parte per mettere in evidenza la bambina: la foto fu pubblicata e per tutti i lettori nel mondo fu un profondo shock.




A Ut fu riconosciuto il premio Pulitzer. La piccola Kim fu chiamata Napalm Girl e la fotografia di Ut è considerata una delle più celebri e sconvolgenti del XX secolo, un’icona del conflitto vietnamita. Kim fu accolta poi in Canada, sottoposta a numerose operazioni. Studiò a Cuba poi si trasferì in Canada divenendone cittadina. Nel 1997 fu nominata Ambasciatrice dell’UNESCO e nel 2004 insignita della laurea ah honorem in Legge dalla Queen’s University di Kingston per la sua attività in difesa dell’infanzia tramite la Kim Phùc Foundation International. È curioso che ci sia stata recentemente una nuova censura, questa volta da parte di Facebook per quanto riguarda la Norvegia, che ha rimosso la fotografia più volte e ha anche sospeso gli utenti che l’avevano caricata. Il più grande quotidiano norvegese, Haftenposten, ha pubblicato una lettera aperta a Zuckerberg: "I media hanno la responsabilità di considerare la pubblicazione in ogni singolo caso. Questa può essere una pesante responsabilità... Questo diritto e dovere, che tutti gli editori del mondo hanno, non dovrebbero essere indeboliti dagli algoritmi codificati nel tuo ufficio in California". Il primo ministro norvegese, Erna Solberg, il 9 settembre 2018 ha pubblicato questa foto iconica sulla sua pagina Facebook per protestare contro la censura da parte del social network. "Dico sì a un dibattito sano, aperto e libero su Internet. Ma io dico di no a questa forma di censura.". La sua foto è stata in seguito parzialmente rimossa da Facebook, che ne ha pubblicato una versione con la nudità oscurata.




"Quello che fa Facebook rimuovendo immagini di questo tipo, per quanto buone possano essere le intenzioni, è quello di modificare la nostra storia comune", ha commentato la Solberg. In seguito alla protesta, Facebook ha ripristinato la foto. In una dichiarazione, la società di social media ha dichiarato: "Dopo aver ascoltato dalla nostra comunità, abbiamo esaminato nuovamente come sono stati applicati i nostri standard comunitari in questo caso”. La società ha affermato di aver riconosciuto "la storia e l'importanza globale di questa immagine nel documentare un particolare momento nel tempo". Quanto accaduto deve farci riflettere sul potere dei social media sulla conoscenza della storia e nell’influenzare l’opinione pubblica, poiché oggi il 47% degli Italiani s’informa sui social (il 20 % sui quotidiani).




Didascalia originale: (General Nguyn Ngc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon)

 

Questa foto fu scattata l’8 febbraio 1968 durante l’offensiva del Thet a Saigon dal fotografo americano Edward Thomas "Eddie" Adams, il quale stava puntando la macchina fotografica sul prigioniero vietcong quando improvvisamente il generale sudvietnamita Nguyn Ngc Loan estrasse la pistola e gli sparò alla tempia. Anche in quest’occasione fu Faast a decidere la pubblicazione di questa foto scioccante. Essa suscitò reazioni negative verso la guerra nell’opinione pubblica americana. L’atteggiamento del fotografo fu opposto a quello di Ut: lui considerava giusta l’esecuzione senza processo del prigioniero di guerra e come il generale riteneva che l’assassinio sul campo di un guerrigliero senza divisa fatto prigioniero fosse giustificato. Il generale alla fine della guerra si rifugiò negli USA e fu spesso oggetto di minacce per il suo crimine. Adams ricevette il premio Pulitzer e rimase amico del generale. Una fotografia, soprattutto se è di guerra, è ambigua per sua stessa natura, anche se impone a chi la osserva una condivisione o un rifiuto: gli americani schierati col governo per la guerra non ne furono per niente dispiaciuti, anzi approvarono il fatto, mentre i pacifisti ne furono sconvolti. Tale dicotomia d’interpretazione verso questa foto perdura ancora negli USA. Nell’anno in corso, 2018, questa foto fu pubblicata su Youtube con questa didascalia: “Execution of Viet Cong prisoner - Eddie Adams/AP Photo - The graphic image stunned the public and politicians alike, quickly adding to the mounting opposition to the war in Vietnam. Some historians say it may have changed the course of the war itself”. I commenti degli utenti furono molto diversi: SliceofHorse (Luglio 2018) sostiene che “The man being executed in this picture was a war criminal. The man doing the shooting was a war hero that eventually moved to United States and opened up a restaurant.” Ruud Kruyswijk si spinge ancora più in là: "The executed man was just caught. He was executed by the chief of the Saigon police. The man had entered the private house of the same chief commissioner and stabbed both his little children (between 4 and 6) with a bayonet in the underbelly. A method of killing in which the victim dies a rather slow and cruel dead under excruciating pains. There exist filmed documents of this, showing the children in pain. I've seen the film images". Per il primo l’assassinato è un criminale di guerra, il secondo precisa che avrebbe ucciso a colpi di baionetta i due figli del generale. Le fonti al riguardo sono ambigue: su Wikipedia l’ufficiale Viet Cong avrebbe ucciso alcuni familiari del generale, in un altro passo dello stesso documento si dice che avrebbe ucciso un ufficiale sudvietnamita che si rifiutò di spiegargli il funzionamento dei carri armati americani di cui i Vietcong si erano impadroniti. Il franco tiratore che opera senza divisa e commette crimini e non atti di guerra, secondo il diritto internazionale, può essere condannato a morte, ma sempre dopo processo da parte degli organi competenti. Il generale, a sua volta senza divisa, durante il rastrellamento si macchiò dell’assassinio di centinaia di civili e guerriglieri. Ai feriti non fu somministrata alcuna cura. La fotografia ebbe ed ha ancora dunque in USA diverse interpretazioni a seconda dell’ideologia del fruitore, mentre probabilmente nel resto del mondo, non coinvolto nel conflitto, fu interpretata solo come dimostrazione degli orrori della guerra.

    

Getty Images



Getty Images




Le due fotografie qui sopra furono prese durante l’offensiva nordvietnamita sulla città di Quang Tri (Marzo 1972) da Ennio Jacobucci, free lance che collaborava con Associated Press, United Press e il settimanale Time. In seguito alla pubblicazione di queste foto Jacobucci dovette nascondersi in casa di amici a Saigon (fonte: sito Abruzzolink, articolo “Il Vietnam di Ennio Jacobucci”, Paola Smaglica, 14 ottobre 2015.)

Didascalia: Photo taken by United States Army photographer Ronald L. Haeberle on March 16, 1968 in the aftermath of the My Lai massacre showing mostly women and children dead on a road. Fonte Wikipedia).

Il massacro di My Lai, 16 marzo 1968: 584 civili sudvietnamiti, vecchi, donne e bambini, molte donne torturate e stuprate infine uccise. I due soldati (Lawrence Colburn e Glenn Andreotta) che fermarono il massacro puntando le mitragliatrici contro i commilitoni di una compagnia della 23esima Divisione di fanteria, furono decorati con la Soldier Medal, la massima onorificenza per atti di coraggio che non coinvolgono il nemico. Un giornalista investigativo indipendente, Seymour Hersh, scoprì la storia di My Lai il 12 novembre 1969. Importanti testate come Life e Look rifiutarono però di pubblicare i risultati della sua inchiesta, che divennero di pubblico dominio solo quando Hersh riuscì a scrivere un articolo per la Associated Press, col quale metteva in dubbio il numero reale dei morti e svelava l'accusa mossa dal tribunale militare nei confronti del sottotenente Calley di avere ucciso più di cento vietnamiti. Il 20 novembre il quotidiano di Cleveland The Plain Dealer pubblicò fotografie esplicite dei cadaveri delle persone uccise a My Lai e la storia fu ripubblicata su diverse testate come Time, Life e Newsweek. Il massacro di My Lai sarebbe passato sottaciuto se non fosse stato per un altro soldato che, indipendentemente da Glen, inviò una lettera al suo rappresentante al Congresso.

 

Seguivo giornalmente la guerra, così impari da essere un massacro, e vedevo queste fotografie. Allora i giornalisti erano ben accetti dal governo americano perché documentavano quello che per i capi militari era una passeggiata militare contro un popolo indifeso di contadini, ma questo libero accesso sul campo delle operazioni militari si ritorse contro di loro: fotografie e filmati cominciarono a mostrare, insieme alla sfilata di corpi di contadini massacrati, anche i loro soldati feriti, spaventati, impauriti, esanimi. Dopo di allora nessun giornalista fu più ammesso sul campo durante le guerre dell’imperialismo statunitense. Ora giornalisti e fotografi sono “embedded”: dal 2003 sono letteralmente “arruolati” nell’esercito e le loro informazioni sottoposte a censura. Non arrivano più a noi le immagini delle stragi commesse dagli sgherri dell’imperialismo americano, che ora sono tutti mercenari, anche se non tutti americani. Ora ci sono vari tipi di soldati: di mestiere, specializzati e con ferma lunga, nelle varie armi. Soldati decisamente mercenari chiamati contractors, dipendenti da società come la Blackwater, e persone di nazionalità diversa (centramericani per gli Usa, indiani per la Gran Bretagna) che ottengono la cittadinanza dopo un periodo di ferma lunga e comportamento con onore. Gli eserciti imperiali dei nostri giorni, quindi, non fanno che copiare quello che faceva l'impero che li ha preceduti, l'impero romano. Dobbiamo considerare mercenari solo gli ultimi due gruppi? O solo i contractors? O tutti e tre? Non saprei. Tutti effettivamente ricevono uno stipendio. Si può chiamarli tutti mercenari se diamo una valutazione negativa (non sono giovani di leva chiamati a difendere la nazione ma specialisti della guerra ben pagati). Da un punto di vista tecnico mi sembrano mercenari più gli altri due; il primo perché non è sottoposto alla disciplina militare e ai suoi tribunali e quindi in territorio di guerra è più libero di uccidere, e poi gli stipendi molto più consistenti; il secondo perché ha abbandonato la patria e combatte solo per soldi e benefici. Certo questa tipologia militare tende ad aumentare. Quanto sarà grande l'offerta per gli USA: un esercito di stranieri con ufficiali USA! Poi un esercito di stranieri con ufficiali stranieri. Poi, chissá! Comunque tra non molto una nuova schiera di soldati si aggiungerà alle altre: robot e automi.




Questa fotografia è presente nell’archivio “Getty Images” didascalia: Settembre 1967. Una ragazza nordvietnamita punta il fucile contro il pilota dell’Aviazione USA Gerald Santo Venanzi mentre cammina tra la vegetazione davanti a lei. Venanzi era il copilota di un aereo che fu abbattuto nel Settembre 1967. Porta la divisa da volo e l’elmetto. (foto dell’Hulton Archive/Getty Images)

 

L’immagine di questa minuta giovane nordvietnamita che tiene a bada con un fucilino il gigantesco sgherro dell’Impero, che era fino a poco prima alla guida di una macchina di morte dal costo di molti milioni di dollari, mi riempì di gioia.



Fonte: Storiadigitale Zanichelli linker. Fotografia di Marc Riboud del 1967

 

come pure la foto di questa giovane americana che fronteggiava le baionette. Anche questa foto è un’icona dell’opposizione giovanile alla guerra vietnamita.

Così pure la notizia della presenza di Joan Baez ad Hanoi durante i bombardamenti dei B52 del 1972.

 

E infine una grande gioia: vedere gli ultimi americani presenti in Saigon il 30 aprile 1975 scappare come ladri sui loro elicotteri e aeroplani.



Il fotografo olandese Hugh Van Es riprese il 29 Aprile 1975 la fuga degli ultimi americani da Saigon. ll tetto immortalato non era quello dell’ambasciata americana ma di un edificio al numero 22 di Gia Long street usato da quartiere generale dalla Cia e le decine di persone che si accalcavano sulla scaletta erano il personale dell'agenzia che veniva evacuato.

 

E gli americani buttare in mare i loro stessi elicotteri dalle portaerei per far posto ai nuovi arrivi.



Fonte: sito USNI News, articolo: Riflessioni di un marine sulla fine della guerra del Vietnam del Gen. Joseph P. Hoar, USMC (Ret.) 30 aprile 2015 10:53

L’atteggiamento aggressivo dell’imperialismo americano, e ora arriviamo ad oggi perché il passato si giudica col metro dell’oggi, non mutò neppure dopo l’attacco suicida alle torri gemelle. E quest’operazione bellica fu per niente “vile”, come disse il Presidente Bush: è necessario molto coraggio e molto odio invece per andare a schiantarsi e morire. Mai nessuno era arrivato, prima di Atta e i suoi compagni, a bombardare il centro stesso dell’imperialismo americano, abbattendone quello che era il loro simbolo. È molto probabile, però, che il governo americano fosse informato dell’attacco e volesse lasciarlo eseguire (quel giorno le forze aeree erano state tutte impegnate, tranne solo quattro caccia in esercitazioni in zone lontane da New York) per avere un motivo per occupare l’Afghanistan, zona da sempre strategica, contesa prima tra l’Impero Russo e l’Impero Britannico, poi tra Impero Sovietico e Impero Usa che agiva per interposta persona attraverso la creazione dello jihadismo. D’altra parte i governi USA sono adusi a creare casus belli, come aver permesso ai giapponesi l’attacco a Pearl Harbour, lasciando in porto le vecchie corazzate varate nel 1916 e allontanando però le nuove portaerei, per portare l’opinione pubblica isolazionista a chiedere la guerra. Altrettanto avvenne col sabotaggio e l’esplosione della vecchia e obsoleta corazzata Maine nel porto dell’Avana per attaccare la Spagna e impadronirsi di Cuba, con il finto “incidente del Tonchino” per cominciare a bombardare il Nord Vietnam, con la colossale balla delle “armi di distruzione dei massa” nelle mani di Saddam per mettere le mani sul petrolio irakeno, e con la balla dell’emergenza umanitaria in Kossovo per stabilire una enorme base militare, Camp Bondsteel, descritto come una piccola Guantanamo dall'inviato per i diritti umani del Consiglio d'Europa Alvaro Gil-Robles, nel bel mezzo dei Balcani. E ora veniamo al momento in cui il “nostro Vietnam” diventa “il mio personale Vietnam”. Sono ben lontani i tempi in cui mi sentivo parte di un movimento mondiale pacifista: ora semmai la sensazione è di essere solo, e quello che provo guardando i filmati su Youtube che mostrano i soldati americani che eliminano, seduti in poltrona adoperando lo stesso joystick che si usa per i giochi, i “terroristi” con la stessa fatica e minuziosità con cui si schiaccerebbero delle formiche inopportune, è solo stanchezza, scoraggiamento, rassegnazione al nuovo ordine mondiale.

Gli Stati Uniti, che erano stati capaci di assassinare in quattro soli bombardamenti (Dresda, Tokio, Hiroshima e Nagasaki) un milione di esseri umani, non hanno ben imparato dalla lezione impartitagli dal popolo del Vietnam: hanno acquisito una superiorità militare tale da poter continuare a spargere dappertutto morte e distruzione, lanciati verso il controllo e il dominio sul mondo intero grazie alle spese militari spropositate, con migliaia di basi militari strategiche sparse su tutta la terra e responsabili, con il consumo di combustibili fossili e di qualsiasi altro genere di risorsa, altrettanto sproporzionato, dei cambiamenti climatici che determineranno tra non molti decenni la fine del mondo così come ora lo conosciamo. L’antimperialismo moderno deve avere l’obiettivo di salvare il pianeta e i popoli dalle guerre e l’estinzione, stabilendo un equilibrio tra le genti su basi di equità e libertà di scelta, con un nuovo regime di decrescita armoniosa. Ricordiamo, però, che quello americano è un governo, liberamente eletto da una minoranza del suo popolo, che ha commesso e commette pure crimini come questi che pochi hanno visto e che non sono andati sui quotidiani e in TV: eccone gli effetti sui bambini e i neonati dovuti all’agente Orange sparso in abbondanza sul Vietnam per distruggerne le foreste. Bilancio: 4.800.000 persone esposte, 800.000 morti, 500.000 bambini vietnamiti nati con deformità (dati forniti dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica del Vietnam).



Fonte: articolo pubblicato da: Enzo Sciarra a Milano sabato, febbraio 28, 2015










Fonte delle sei fotografie qui sopra: volume “Agent Orange: 'Collateral Damage'” in VIETNAM pubblicato nel 2003 dal fotografo gallese Philip Jones Griffiths. In questo libro l’autore ha riunito tutto il suo materiale inedito che documenta gli effetti dell’Agente Arancio, un erbicida utilizzato dall’esercito americano durante la guerra. Il lavoro di Griffiths ci mostra come tutto ciò che temiamo — cose noiose come la bancarotta, le malattie sessualmente trasmissibili e la tristezza — non siano che una minuscola puntura di spillo, in confronto al finimondo in cui si sono ritrovati i vietnamiti. (da sito non meglio identificato “VICE CHANNELS”).

 

Non diverso tutto ciò rispetto ai nati dopo il bombardamento americano di Falluja del 2004.



Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito “comedonchisciotte”)



Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito “comedonchisciotte”)



Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito “comedonchisciotte”)



Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito “comedonchisciotte”)


Nella battaglia di Falluja, combattuta tra l’8 Novembre e il 25 dicembre 2004, le truppe USA bombardarono la città con napalm, fosforo bianco e bombe MK-77 contenenti 340 kg di una miscela di kerosene e benzene, tutte armi proibite dalle convenzioni internazionali. Gran parte della popolazione, 300.000 persone, fu evacuata prima dei combattimenti, ma subì in seguito le conseguenze dello spargimento delle sostanze chimiche teratogene. Secondo un testimone, l'ex soldato statunitense Garret Reppenhagen, la maggior parte delle uccisioni di civili, circa 800, avvenne intenzionalmente e non come conseguenza dei combattimenti con gli insorti. La mortalità infantile a Falluja ancora oggi è dell’80/1000 (quella italiana è 2,9/1000).

 

Anche queste foto sono state viste da pochi, anche se tutti potevano e possono vederle, basta volerlo.

Al termine di questa discussione sui temi politici degli anni ’70 vorrei fare un’osservazione su un problema che ha le radici in un periodo ben precedente quegli anni: l’occupazione israeliana della Palestina e l’attuale piaga purulenta di Gaza che ne è seguita, senza la cui soluzione positiva per il popolo palestinese non ci sarà mai pace tra mondo musulmano e Occidente. Come rimanere indifferenti di fronte a questo enorme lager, un ghetto di due milioni di persone che non ha nulla da invidiare a quello di Varsavia prima della soluzione finale? Un piccolo pezzo di terra dove si accalcano due milioni di palestinesi, poverissimi, circondati da muraglie alte 4 metri sormontate da filo spinato, continuamente sottoposti a bombardamenti e assassinii mirati, sorvolati da aerei dello Stato Ebraico che superano il muro del suono per terrorizzarli col loro Bang, in cui è vietato introdurre marmellata e cioccolata e cemento per ricostruire quello che l’esercito dello Stato Ebraico continua a distruggere, scuole e ospedali compresi. 1.740 palestinesi assassinati nel 2008 durante l’operazione Piombo Fuso, 2.300 assassinati nel 21014 nell’operazione Margine di Protezione, 203 di cui molti bambini dal Marzo 2018 a oggi durante le manifestazioni pacifiche contro l’occupante. Mentre queste cose accadono, noi occidentali, veri sepolcri imbiancati, volgiamo gli occhi da un’altra parte, non vogliamo vedere. Andiamo a vedere i film americani sullo sterminio degli ebrei e magari ci commuoviamo anche, ricordiamo lo sterminio con la Giornata della Memoria, e non muoviamo un muscolo per il lento sterminio che avviene a Gaza e nei Territori Occupati. Ci meravigliamo allora se un musulmano per ritorsione e rabbia investe con l’auto qualcuno di noi occidentali? Non siamo noi corresponsabili dei crimini commessi dall’imperialismo americano in Iraq, Afghanistan, Siria (dove sono state rase al suolo due città per distruggere lo Stato Islamico che esso stesso aveva contribuito a creare armandolo di armi modernissime, per poi schiacciarlo quando era divenuto ingombrante?). Non ci sono forse anche i nostri soldati in Iraq e Afghanistan? E quelli francesi, tedeschi, inglesi, eccetera? Siamo davvero vittime innocenti, quando uno di noi muore nel momento stesso in cui in Medio Oriente muoiono a centinaia?

 

Il mio Vietnam non è finito nel 1975.

Ora e sempre lotta antimperialista!

 

Federico Luciano Paganini,

Lucio

per i compagni e gli amici.


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