Ricordi aguzzi come cocci



Roberto Bugliani

Gli anni del Sessantotto.

Il 1968, o meglio, d'ora in avanti, il Sessantotto, è stato un anno plurale la cui cronologia abbraccia una stagione politica che, a mio modo di vedere, arriva fino al 1977, ossia al bolognese “Convegno internazionale contro la repressione” (23-26 settembre) e alla manifestazione multitudinaria che lo terminò e che rappresentò il possente canto del cigno di una fase storica e di un progetto politico durati un decennio. Ma, se il Sessantotto non ha termine alla fine del 1968, nemmeno inizia nel 1968, perché il sostrato politico da cui ricavò linfa vitale era composto, sul piano internazionale, da eventi quali la guerra in Vietnam; il movimento delle Pantere Nere negli Usa; gli episodi di guerriglia in America Latina (notoriamente la guerriglia del Che in Bolivia); la rottura tra Urss e Cina e la rivoluzione culturale maoista iniziata nel 1966. Mentre sul piano nazionale a formare la coscienza critica della generazione del Sessantotto contribuirono riviste come Quaderni Rossi e Classe Operaia; la lezione d'intellettuali influenzati dal marxismo critico di quegli anni come Franco Fortini; la cosiddetta Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer); Herbert Marcuse; l'"eretico" Walter Benjamin, e in questo elenco sommario ognuno può aggiungervi i propri nomi di riferimento.

 

Ho vissuto il periodo lungo del Sessantotto militando nel gruppo politico organizzato la Lega dei comunisti (1969-77), dapprima nella sezione della Spezia (pressappoco nel periodo '69-'70), poi in quella di Pisa, la casa madre del gruppo, dove mi ero trasferito per frequentare l'Università. Dirigenti dell'organizzazione pisana e responsabili dei singoli nuclei politici erano Romano Luperini, Remo Ceserani, Lucio Lugnani, Lina Scarano, Paolo e Lucia Tongiorgi, e a ridosso della sua fondazione alle riunioni partecipavano anche Luciano della Mea e Carlo Alberto Madrignani. In altri termini, la Lega radunava buona parte di ciò che di lì a poco diverrà il Gotha intellettuale e accademico pisano. Si può ben capire, pertanto, perché gli altri gruppi extraparlamentari, Lotta Continua in primis, ci apostrofavano “i professorini”. E noi si ricambiava la cortesia chiamando quelli di L.C. “gli spontaneisti”. Ora, detta in questo modo, la cosa oggi potrebbe far pensare ai nomi di due squadre antagoniste partecipanti a un format televisivo. Ma in quegli anni si trattava di due posizioni teoriche e due prassi politiche in forte contrasto tra di loro. Professorini perché avevamo la tendenza a spaccare il capello in quattro sul piano dell'analisi politica. Quando, per fare un esempio, ci si doveva confrontare con un altro gruppo extraparlamentare per un'eventuale fusione, l'effettiva compatibilità politica tra i due gruppi veniva verificata nelle sue più piccole sfumature da una commissione congiunta, e puntualmente avevano luogo estenuanti sessioni d'analisi incentrate sui grandi temi storico-politici del marxismo-leninismo, quali Stalin e lo stalinismo; il trotskismo; Lenin; la Nep; la Terza Internazionale, ecc. ecc. Al contrario di noi, i cosiddetti spontaneisti avevano la propensione a tagliare il nodo gordiano della teoria con l'accetta del movimentismo e affidare alla prassi, in sé conciliante perché vitalista, le istanze politiche e le dinamiche della lotta sociale.

 

A ri-unirci era la piazza. Manifestazioni comuni contro la repressione, la scuola di classe, la guerra del Vietnam, la strage di Stato, per l'ottenimento del pre-salario studentesco, in solidarietà di scioperi e lotte operaie, ecc. Manifestazioni comuni, sì, ma non già unitarie, perché il Sessantotto non è stato unitario, bensì divisivo, e la militanza politica nelle organizzazioni di sinistra estrema divideva assai più di quanto unisse. Le differenze erano talmente forti, e venivano per di più acuite da certo rigore dogmatico d'allora, che spesso i confronti dialettici tra i gruppi nei cortei si risolvevano a sprangate. Né mai quelle differenze d'analisi e linee politiche furono ricomposte.

 

Dal Potere Operaio alla Lega dei Comunisti

Nel 1968 alla Spezia esisteva una sezione de “Il Potere Operaio” pisano (l'articolo “il” lo distingueva dal Potere Operaio attivo a Porto Marghera e nel nord-est), gruppo politico dotato di una struttura organizzativa, radicato a Pisa, dove veniva anche stampato il giornale omonimo fondato da Adriano Sofri, e che si estendeva in Toscana fino a Piombino e Firenze.

La sede spezzina del P.O. era un fondo situato in viale Aldo Ferrari, a ridosso del ponte della stazione ferroviaria. Da lì partivamo inalberando cartelli di protesta e bandiere rosse e intonando gli slogan del caso (se si trattava di una manifestazione contro la guerra in Vietnam, lo slogan più sgolato era “Vietnam rosso”, che dava sui nervi a quelli del PCI, i quali a “rosso” preferivano “libero”), per unirci poi con altri manifestanti, di solito studenti, e dare vita a cortei “non autorizzati” con incluso sit-in, cortei che regolarmente assicuravano a una parte dei partecipanti l'avviso di comparizione in questura (mi è sempre rimasta oscura la “metodologia” con cui la questura selezionava i manifestanti cui inviare tale avviso, ma forse non era un caso che si trattasse di solito di studenti molto giovani, alla loro prima manifestazione politica, perciò più influenzabili d'altri). Al termine del corteo si ritornava in sede e ci si riuniva in assemblea per fare un bilancio politico della manifestazione e per discutere nuove proposte di lotta.

 

Il leader indiscusso della sezione cittadina del P.O. era Franco Pisano. Franco possedeva un'intelligenza politica e una capacità d'analisi superiori a quelle di noialtri militanti, sì che fin dall'inizio dell'attività politica nessuno di noi manifestò la pur minima perplessità nel riconoscergli l'autorevolezza che meritava. Iscritto alla Facoltà di scienze matematiche di Pisa, la militanza politica a tempo pieno lo aveva costretto ad abbandonare gli studi universitari, e nei primi anni della sua attività di leader politico fece fronte alle necessità economiche impartendo lezioni private di matematica e fisica agli studenti delle superiori. Quando scoppiò il maggio francese Franco decise di recarsi a Parigi. Voleva capire, vedere sul campo cosa stava succedendo, instaurare rapporti politici con i compagni d'oltralpe, perché lo scenario delle lotte anticapitalistiche era divenuto globale. E a Parigi, al termine di una manifestazione studentesca dalle parti di Boulevard Saint-Michel, si erano avuti degli scontri con la polizia, gli idranti avevano disperso i manifestanti e il corteo si era scisso in vari spezzoni. Fu in quell'occasione che Franco venne arrestato dai flic, portato alla gendarmeria di zona e trasferito in una cella del carcere della Santé, dove rimase in isolamento per un paio di settimane.

Quando la notizia arrivò in Italia, gli amici di Franco si mobilitarono, diedero vita a un Comitato per la sua liberazione e organizzarono proteste e sit-in davanti ai consolati francesi e all'ambasciata francese di Roma. Ci volle l'intercessione dell'ambasciatore italiano a Parigi, a sua volta sollecitato da un deputato cittadino del Pci, perché Franco fosse liberato, espulso dalla Francia ed estradato in Italia. Da quel momento gli agenti della polizia politica, la Digos, presero a interessarsi a Franco.

 

In qualità d'appartenenti alla sede spezzina del P.O. ci si recava a Pisa per partecipare alle manifestazioni e ai cortei di protesta indetti dal nostro o da altri gruppi politici. Ci andammo anche quel 15 marzo 1968 a manifestare contro l'arresto di due compagni, Guelfi e Moraccini, avvenuto due giorni prima a seguito dell'occupazione dell'Ateneo pisano. Dapprima il corteo sfilò davanti al carcere di don Bosco a testimoniare la solidarietà del Movimento con i compagni carcerati, quindi si diresse alla stazione ferroviaria, dove un gruppo di manifestanti occupò i binari e avvennero cariche con la polizia, la quale compì altri arresti, tra cui Romano Luperini, il (mio) futuro leader politico della Lega dei comunisti.

 

La libreria di Aldo.

Luogo imprescindibile del Sessantotto spezzino era la libreria di Aldo Rescio in via Galilei. Ufficialmente era una Feltrinelli, ma in realtà nell'”agenzia”, come la chiamava Aldo, si trovavano le pubblicazioni di tutte le case editrici, e in special modo i libri che erano alla base del dibattito teorico-culturale, politico, filosofico in corso, o le tendenze poetiche e letterarie più importanti come i testi sperimentali delle avanguardie storiche o di quelle contemporanee come il Gruppo 63.

Era uno spazio d'incontro, di confronto e non di rado di scontro (scazzi compresi) culturale e politico che se la giocava in importanza e frequentazione con la vicina libreria-galleria Adel di Attilio Del Santo. Ma l'attività di Aldo Rescio non si esauriva con la gestione della libreria. Aldo era un poeta che proprio in quegli anni pubblicherà la sua raccolta nella prestigiosa collana rossa dell'Einaudi col titolo "kantiano" di Critica della ragion poetica (1970), ed era anche il direttore della rivista Delta (1965-1969), molto vicina agli ambienti della neoavanguardia (“simpatica rivistina di clan che si stampa ogni morte di vescovo in 300 copie numerate”, così la definì l'ilare tragico Giorgio Manganelli), nata dopo che la rivista bimestrale Nuove Dimensioni aveva cessato le pubblicazioni nel 1964. Imbevuti di controcultura, alle prese con le intriganti novità di pensiero critico che si affermavano allora, andavamo in “agenzia” per il piacere d'ascoltare il suo titolare parlare, poniamo, dell'ultimo libro di Foucault o di Derrida, della filosofia hegeliana o dei Gründrisse di Marx con la competenza dello studioso e il fervore dell'appassionato.

 

Fu in “agenzia” che conobbi Franco Ferrini. Era il più giovane dei redattori della rivista Delta, e di lui avevo avuto già modo d'apprezzare gli articoli approfonditi che andava scrivendo sulla letteratura di fantascienza come "Lo spossessamento della storia", pubblicato sul n. 8 di Delta del gennaio 1968, che gli aprirà le porte della collaborazione con la prestigiosa rivista romana Ideologie diretta dallo scienziato marxista Ferruccio Rossi-Landi. In quel tempo tumultuoso ho condiviso con compagni come Franco Ferrini la speranza di cambiare il mondo dando l'assalto al cielo e scontrandoci con lo "stato borghese" in terra. E quando nel Golfo gettava l'ancora una nave da guerra americana che immaginavamo reduce dal Vietnam o là diretta, al grido di Yankees go home! ci esercitavamo nel lancio degli aranci amari di via Chiodo contro i gruppetti di marine sbarcati a terra. Difficilmente, per quanto ricordi, riuscivamo a colpire il bersaglio, ma, indipendentemente dal risultato, la fuga trafelata per via del Prione concludeva il nostro azzardo.

 

Nei primi anni Settanta il cinéphile e critico cinematografico tosto come un katanga Franco Ferrini non riuscì a resistere ulteriormente al richiamo esercitato dalla città italiana del cinema per antonomasia, e pressoché a ruota seguì Enzo Ungari che si era trasferito a Roma nel 1970. A entrambi questi "mangiatori di film", per dire col titolo di un libro di Ungari, non ci volle molto per affermarsi come sceneggiatori e iniziare una carriera di successo che nel caso di Enzo fu stroncata dalla sua prematura scomparsa nel 1985, quando stava collaborando con Bernardo Bertolucci alla sceneggiatura del film L'ultimo imperatore.

 

Il 31 dicembre tutti alla Bussola. Questa scritta tracciata su un lato del muro della scuola materna comunale di via Napoli è rimasta a lungo a testimoniare uno dei momenti cruciali del Sessantotto.

La Bussola era il locale chic dove la borghesia benestante si ritrovava a divertirsi e festeggiare l'ultimo dell'anno. E quella notte io, assieme ad altri tre-quattro compagni, ero alla ricerca di un'auto che ci portasse in Versilia. Nei giorni precedenti il Movimento aveva chiamato i militanti a manifestare davanti alla Bussola, dove il costo del cenone equivaleva al salario di un operaio, un po' sulla scia di quanto era successo a Milano il 7 dicembre con la contestazione a suon di lanci d'uova alla prima della Scala.

 

Non riuscimmo a trovare l'auto, così fummo costretti a restare in città, gironzolando in attesa del ritorno dei compagni. Verso l'una, le due della notte, i primi compagni fecero ritorno dall'incursione versiliese: il loro racconto dei fatti fu agghiacciante. A presidiare la Bussola erano stati mandati i carabinieri, e venimmo a conoscenza delle cariche, dei tafferugli, degli scontri, delle barricate, dei fuggi-fuggi, delle nuove cariche, dei nuovi scontri e di quello sparo d'arma da fuoco come risposta al lancio d'uova e sassi, che aveva raggiunto un giovane manifestante. Il suo nome ancora non si conosceva e la stessa dinamica dell'evento era confusa, chi diceva che era stato ucciso, chi ferito. Soltanto dopo ore si seppe di Soriano Ceccanti, il ragazzo pisano di sedici anni colpito alla schiena da un colpo di pistola di un carabiniere che lo paralizzò riducendolo in una sedia a rotelle. Quella fu la prima volta che i carabinieri spararono nel corso di una manifestazione di protesta del movimento.

 

Rispetto al '68, il '69 si radicalizzò e fu l'anno delle scissioni politiche che coinvolsero la maggior parte dei gruppi extraparlamentari di sinistra estrema. Insomma, dal punto di vista della militanza politica, il '69 rappresentò l'anno di strutturazione del '68, e il movimento conseguì una coscienza teorico-politica maggiormente definita.

La sezione della Spezia del P.O. condivise il destino generale del raggruppamento toscano cui apparteneva, che in seguito alle dissidenze interne sempre più accentuate tra i dirigenti si era scisso in tre gruppi politici strutturati. Nacquero così Lotta Continua, il gruppo più numeroso e con più marcata fisionomia nazionale, la Lega dei comunisti cui appartenevo, e il Centro Karl Marx, attivo soprattutto a Pisa.

Il fondo di viale Ferrari venne chiuso e aperta la sede della Lega dei comunisti in via del Prione. In quei due piccoli vani senza servizi igienici (ma ancora non si conosceva quanto impellenti fossero le esigenze prostatiche) svolgevamo le assemblee di sezione, ciclostilavamo volantini, elaboravamo documenti politici, ci incontravamo con i simpatizzanti, e i componenti dei singoli nuclei si riunivano tra loro. Quindi la sera, se in sede non erano previste riunioni, ci si ritrovava al vicino Bar Roma di Piazza del Mercato, soprannominato, non ricordo più da chi, forse da Fabio Ricco, il Bar Coma. E ritrovarsi al Bar Coma divenne un rituale imprescindibile, quasi un dovere da decalogo del militante.

 

1977

In quell'anno insegnavo alle cosiddette “150 ore”, i corsi per il recupero della scuola dell'obbligo istituiti nel 1973 a seguito del rinnovo del contratto collettivo di lavoro dei metalmeccanici, e in seguito estesi ad altre categorie lavoratrici. Ora, a pensarci bene, questi corsi scolastici nati dalle rivendicazioni operaie di un periodo in cui le lotte dei lavoratori riuscivano a ottenere conquiste sindacali non solo in ambito strettamente salariale, ma che si proiettavano sul piano sociale e culturale, cosa che oggi, col lavoro costretto in un angolo dallo strapotere del capitale e con i sindacati da tempo latitanti, hanno dell'incredibile. Perché la lotta di classe esiste, come ha dichiarato il miliardario statunitense Warren Buffett, e la mia classe l'ha vinta.

 

Era, come ho detto, il Settantasette, e a settembre decisi d'andare a Bologna. Il 23 settembre era stato indetto a Bologna il "Convegno internazionale contro la repressione" che durò tre giorni e terminò con una manifestazione di massa (centomila persone all'incirca) per le vie di Bologna. A Bologna mi ospitò Roberto Di Marco, scrittore d'avanguardia e redattore, assieme a Leonetti, della "rivista marxista-leninista" Che fare, strumento teorico-politico vicino ai maoisti di "Servire il popolo", il quale mi prese in consegna e mi pilotò tra le assemblee e le riunioni che si svolgevano in quei giorni frenetici.

 

Mesi prima, l'11 marzo 1977, a Bologna il militante di LC Francesco Lorusso era stato ucciso da un colpo di pistola alle spalle, sparato, si disse, dalla polizia durante una manifestazione. E il 5 luglio il quotidiano Lotta continua pubblicò l'appello contro la repressione in Italia firmato da Sartre, Foucault, Deleuze, Guattari, Barthes e Sollers che fu alla base dell'idea d'organizzare il Convegno a Bologna. Il dibattito di quei mesi all'interno di Avanguardia Operaia, in cui era confluita la Lega dei comunisti per dar successivamente vita al raggruppamento di Democrazia Proletaria, verteva sul dilemma se si dovesse aderire o no al Convegno. Io scrissi un articolo per il Quotidiano dei lavoratori sostenendo che i termini giusti della questione fossero invece quelli del come partecipare al Convegno, ossia quali contenuti politici, quale visione strategica, quale analisi di classe portarvi. Le linee politiche dei singoli gruppi erano fortemente in contrasto tra loro e all'interno del Palazzo dello Sport, dove si svolgeva il Convegno, fu subito scontro politico sulla capacità di creare prospettive politiche per il movimento, mentre fuori i gruppi degli indiani metropolitani si sbizzarrirono in slogan creativi del tipo “Zangherì, Zangherà, zangheriamo la città” (Renato Zangheri del Pci era l'allora sindaco di Bologna); “Covo qui, covo là, cova tutta la città”. Ma, in mancanza di un’analisi politica condivisa e di un accordo tra le varie organizzazioni politiche, la tre giorni di settembre ha segnato la fine politica del movimento.

 

Nell'inevitabile uscita da quel tempo della storia-mondo e da quelle contingenze universali, negli anni successivi alcuni gettarono alle ortiche la divisa del militante e, annusata l'aria, si riposizionarono intraprendendo brillanti carriere universitarie, giornalistiche, aziendali, politiche. Sempre avendo cura d'esibire appuntata sulla giacca l'edulcorata medaglietta del "reduce sessantottino". Ravveduto, naturalmente.

Per altri, e non furono pochi, il passare della moda stagionale fu tutt'uno col riporre nell'armadio i vecchi panni, di cui mai avevano compreso la qualità del taglio, né scelti in piena consapevolezza i tipi di stoffa. Rimettendosi alle volubilità dello Zeitgeist (come sempre del resto avevano fatto), si arruolarono nella moltitudine del numero passivo, ammettendo in sedi opportune e per il tempo breve dell'eroica rimembranza: "C'ero anch'io". Oppure censurarono sprezzantemente quell'intermezzo tra gioventù e vita adulta in cui il numero attivo aveva sferrato l'assalto al cielo, rubricandolo alla voce: utopie giovanili.

In altri ancora il rifiuto corale dell'esistente si ridusse a ribellione individuale corroborata dall'acido, e la via d'uscita che essi trovarono nella confusione della ritirata si rivelò una via d'uscita definitiva dalle loro vite.

Altri, e non numerosi, risposero allo scacco politico rilanciando l'opzione militare. Confidarono in una maturità politica del tempo e in una progressione vittoriosa della fase che restò circoscritta alle loro analisi. Provvidero quindi le aule dei tribunali a riscrivere la storia di quegli anni.

Altri infine, e furono i più, seguitarono la loro vita lontani da passerelle e riflettori (ma già da militanti di base erano soliti condurre il lavoro politico senza contare su ricadute gratificanti). Assunti, per necessità o casualità dell'esistenza, nuovi ruoli e figure sociali, la coerenza con ciò che erano stati si manifestò in inosservate condotte e minimali posture quotidiane, in qualche modo debitrici di una progettualità politica sconfitta ma mai abiurata.

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