Ricordi aguzzi come cocci
Gli anni del Sessantotto.
Il 1968, o meglio, d'ora in avanti, il Sessantotto, è
stato un anno plurale la cui cronologia abbraccia una stagione politica che, a
mio modo di vedere, arriva fino al 1977, ossia al bolognese “Convegno
internazionale contro la repressione” (23-26 settembre) e alla manifestazione
multitudinaria che lo terminò e che rappresentò il possente canto del cigno di
una fase storica e di un progetto politico durati un decennio. Ma, se il
Sessantotto non ha termine alla fine del 1968, nemmeno inizia nel 1968, perché
il sostrato politico da cui ricavò linfa vitale era composto, sul piano
internazionale, da eventi quali la guerra in Vietnam; il movimento delle
Pantere Nere negli Usa; gli episodi di guerriglia in America Latina
(notoriamente la guerriglia del Che in Bolivia); la rottura tra Urss e Cina e
la rivoluzione culturale maoista iniziata nel 1966. Mentre sul piano nazionale
a formare la coscienza critica della generazione del Sessantotto contribuirono
riviste come Quaderni Rossi e Classe Operaia; la lezione d'intellettuali
influenzati dal marxismo critico di quegli anni come Franco Fortini; la
cosiddetta Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer); Herbert Marcuse;
l'"eretico" Walter Benjamin, e in questo elenco sommario ognuno può
aggiungervi i propri nomi di riferimento.
Ho vissuto il periodo lungo del Sessantotto militando nel
gruppo politico organizzato la Lega dei comunisti (1969-77), dapprima nella
sezione della Spezia (pressappoco nel periodo '69-'70), poi in quella di Pisa,
la casa madre del gruppo, dove mi ero trasferito per frequentare l'Università.
Dirigenti dell'organizzazione pisana e responsabili dei singoli nuclei politici
erano Romano Luperini, Remo Ceserani, Lucio Lugnani, Lina Scarano, Paolo e
Lucia Tongiorgi, e a ridosso della sua fondazione alle riunioni partecipavano
anche Luciano della Mea e Carlo Alberto Madrignani. In altri termini, la Lega
radunava buona parte di ciò che di lì a poco diverrà il Gotha intellettuale e
accademico pisano. Si può ben capire, pertanto, perché gli altri gruppi
extraparlamentari, Lotta Continua in primis, ci apostrofavano “i professorini”.
E noi si ricambiava la cortesia chiamando quelli di L.C. “gli spontaneisti”.
Ora, detta in questo modo, la cosa oggi potrebbe far pensare ai nomi di due
squadre antagoniste partecipanti a un format televisivo. Ma in quegli anni si
trattava di due posizioni teoriche e due prassi politiche in forte contrasto
tra di loro. Professorini perché avevamo la tendenza a spaccare il capello in
quattro sul piano dell'analisi politica. Quando, per fare un esempio, ci si
doveva confrontare con un altro gruppo extraparlamentare per un'eventuale
fusione, l'effettiva compatibilità politica tra i due gruppi veniva verificata nelle
sue più piccole sfumature da una commissione congiunta, e puntualmente avevano
luogo estenuanti sessioni d'analisi incentrate sui grandi temi storico-politici
del marxismo-leninismo, quali Stalin e lo stalinismo; il trotskismo; Lenin; la
Nep; la Terza Internazionale, ecc. ecc. Al contrario di noi, i cosiddetti
spontaneisti avevano la propensione a tagliare il nodo gordiano della teoria
con l'accetta del movimentismo e affidare alla prassi, in sé conciliante perché
vitalista, le istanze politiche e le dinamiche della lotta sociale.
A ri-unirci era la piazza. Manifestazioni comuni contro
la repressione, la scuola di classe, la guerra del Vietnam, la strage di Stato,
per l'ottenimento del pre-salario studentesco, in solidarietà di scioperi e
lotte operaie, ecc. Manifestazioni comuni, sì, ma non già unitarie, perché il
Sessantotto non è stato unitario, bensì divisivo, e la militanza politica nelle
organizzazioni di sinistra estrema divideva assai più di quanto unisse. Le
differenze erano talmente forti, e venivano per di più acuite da certo rigore
dogmatico d'allora, che spesso i confronti dialettici tra i gruppi nei cortei
si risolvevano a sprangate. Né mai quelle differenze d'analisi e linee
politiche furono ricomposte.
Dal Potere Operaio alla Lega dei Comunisti
Nel 1968 alla Spezia esisteva una sezione de “Il Potere
Operaio” pisano (l'articolo “il” lo distingueva dal Potere Operaio attivo a
Porto Marghera e nel nord-est), gruppo politico dotato di una struttura
organizzativa, radicato a Pisa, dove veniva anche stampato il giornale omonimo
fondato da Adriano Sofri, e che si estendeva in Toscana fino a Piombino e
Firenze.
La sede spezzina del P.O. era un fondo situato in viale
Aldo Ferrari, a ridosso del ponte della stazione ferroviaria. Da lì partivamo
inalberando cartelli di protesta e bandiere rosse e intonando gli slogan del
caso (se si trattava di una manifestazione contro la guerra in Vietnam, lo
slogan più sgolato era “Vietnam rosso”, che dava sui nervi a quelli del PCI, i
quali a “rosso” preferivano “libero”), per unirci poi con altri manifestanti,
di solito studenti, e dare vita a cortei “non autorizzati” con incluso sit-in,
cortei che regolarmente assicuravano a una parte dei partecipanti l'avviso di
comparizione in questura (mi è sempre rimasta oscura la “metodologia” con cui
la questura selezionava i manifestanti cui inviare tale avviso, ma forse non
era un caso che si trattasse di solito di studenti molto giovani, alla loro
prima manifestazione politica, perciò più influenzabili d'altri). Al termine
del corteo si ritornava in sede e ci si riuniva in assemblea per fare un
bilancio politico della manifestazione e per discutere nuove proposte di lotta.
Il leader indiscusso della sezione cittadina del P.O. era
Franco Pisano. Franco possedeva un'intelligenza politica e una capacità
d'analisi superiori a quelle di noialtri militanti, sì che fin dall'inizio
dell'attività politica nessuno di noi manifestò la pur minima perplessità nel
riconoscergli l'autorevolezza che meritava. Iscritto alla Facoltà di scienze
matematiche di Pisa, la militanza politica a tempo pieno lo aveva costretto ad
abbandonare gli studi universitari, e nei primi anni della sua attività di
leader politico fece fronte alle necessità economiche impartendo lezioni
private di matematica e fisica agli studenti delle superiori. Quando scoppiò il
maggio francese Franco decise di recarsi a Parigi. Voleva capire, vedere sul
campo cosa stava succedendo, instaurare rapporti politici con i compagni
d'oltralpe, perché lo scenario delle lotte anticapitalistiche era divenuto
globale. E a Parigi, al termine di una manifestazione studentesca dalle parti
di Boulevard Saint-Michel, si erano avuti degli scontri con la polizia, gli
idranti avevano disperso i manifestanti e il corteo si era scisso in vari
spezzoni. Fu in quell'occasione che Franco venne arrestato dai flic,
portato alla gendarmeria di zona e trasferito in una cella del carcere della Santé,
dove rimase in isolamento per un paio di settimane.
Quando la notizia arrivò in Italia, gli amici di Franco
si mobilitarono, diedero vita a un Comitato per la sua liberazione e
organizzarono proteste e sit-in davanti ai consolati francesi e all'ambasciata
francese di Roma. Ci volle l'intercessione dell'ambasciatore italiano a Parigi,
a sua volta sollecitato da un deputato cittadino del Pci, perché Franco fosse
liberato, espulso dalla Francia ed estradato in Italia. Da quel momento gli
agenti della polizia politica, la Digos, presero a interessarsi a Franco.
In qualità d'appartenenti alla sede spezzina del P.O. ci
si recava a Pisa per partecipare alle manifestazioni e ai cortei di protesta
indetti dal nostro o da altri gruppi politici. Ci andammo anche quel 15 marzo
1968 a manifestare contro l'arresto di due compagni, Guelfi e Moraccini,
avvenuto due giorni prima a seguito dell'occupazione dell'Ateneo pisano.
Dapprima il corteo sfilò davanti al carcere di don Bosco a testimoniare la
solidarietà del Movimento con i compagni carcerati, quindi si diresse alla stazione
ferroviaria, dove un gruppo di manifestanti occupò i binari e avvennero cariche
con la polizia, la quale compì altri arresti, tra cui Romano Luperini, il (mio)
futuro leader politico della Lega dei comunisti.
La libreria di Aldo.
Luogo imprescindibile del Sessantotto spezzino era la
libreria di Aldo Rescio in via Galilei. Ufficialmente era una Feltrinelli, ma
in realtà nell'”agenzia”, come la chiamava Aldo, si trovavano le pubblicazioni
di tutte le case editrici, e in special modo i libri che erano alla base del
dibattito teorico-culturale, politico, filosofico in corso, o le tendenze
poetiche e letterarie più importanti come i testi sperimentali delle
avanguardie storiche o di quelle contemporanee come il Gruppo 63.
Era uno spazio d'incontro, di confronto e non di rado di
scontro (scazzi compresi) culturale e politico che se la giocava in importanza
e frequentazione con la vicina libreria-galleria Adel di Attilio Del Santo. Ma
l'attività di Aldo Rescio non si esauriva con la gestione della libreria. Aldo
era un poeta che proprio in quegli anni pubblicherà la sua raccolta nella
prestigiosa collana rossa dell'Einaudi col titolo "kantiano" di Critica
della ragion poetica (1970), ed era anche il direttore della rivista Delta (1965-1969),
molto vicina agli ambienti della neoavanguardia (“simpatica rivistina di clan
che si stampa ogni morte di vescovo in 300 copie numerate”, così la definì
l'ilare tragico Giorgio Manganelli), nata dopo che la rivista bimestrale Nuove
Dimensioni aveva cessato le pubblicazioni nel 1964. Imbevuti di controcultura,
alle prese con le intriganti novità di pensiero critico che si affermavano
allora, andavamo in “agenzia” per il piacere d'ascoltare il suo titolare
parlare, poniamo, dell'ultimo libro di Foucault o di Derrida, della filosofia
hegeliana o dei Gründrisse di Marx con la competenza dello studioso e il
fervore dell'appassionato.
Fu in “agenzia” che conobbi Franco Ferrini. Era il più
giovane dei redattori della rivista Delta, e di lui avevo avuto già modo
d'apprezzare gli articoli approfonditi che andava scrivendo sulla letteratura
di fantascienza come "Lo spossessamento della storia", pubblicato sul
n. 8 di Delta del gennaio 1968, che gli aprirà le porte della collaborazione
con la prestigiosa rivista romana Ideologie diretta dallo scienziato marxista
Ferruccio Rossi-Landi. In quel tempo tumultuoso ho condiviso con compagni come
Franco Ferrini la speranza di cambiare il mondo dando l'assalto al cielo e
scontrandoci con lo "stato borghese" in terra. E quando nel Golfo
gettava l'ancora una nave da guerra americana che immaginavamo reduce dal
Vietnam o là diretta, al grido di Yankees go home! ci esercitavamo nel
lancio degli aranci amari di via Chiodo contro i gruppetti di marine sbarcati a
terra. Difficilmente, per quanto ricordi, riuscivamo a colpire il bersaglio,
ma, indipendentemente dal risultato, la fuga trafelata per via del Prione concludeva
il nostro azzardo.
Nei primi anni Settanta il cinéphile e critico
cinematografico tosto come un katanga Franco Ferrini non riuscì a
resistere ulteriormente al richiamo esercitato dalla città italiana del cinema
per antonomasia, e pressoché a ruota seguì Enzo Ungari che si era trasferito a
Roma nel 1970. A entrambi questi "mangiatori di film", per dire col
titolo di un libro di Ungari, non ci volle molto per affermarsi come
sceneggiatori e iniziare una carriera di successo che nel caso di Enzo fu
stroncata dalla sua prematura scomparsa nel 1985, quando stava collaborando con
Bernardo Bertolucci alla sceneggiatura del film L'ultimo imperatore.
Il 31 dicembre tutti alla Bussola. Questa scritta
tracciata su un lato del muro della scuola materna comunale di via Napoli è
rimasta a lungo a testimoniare uno dei momenti cruciali del Sessantotto.
La Bussola era il locale chic dove la borghesia
benestante si ritrovava a divertirsi e festeggiare l'ultimo dell'anno. E quella
notte io, assieme ad altri tre-quattro compagni, ero alla ricerca di un'auto
che ci portasse in Versilia. Nei giorni precedenti il Movimento aveva chiamato
i militanti a manifestare davanti alla Bussola, dove il costo del cenone
equivaleva al salario di un operaio, un po' sulla scia di quanto era successo a
Milano il 7 dicembre con la contestazione a suon di lanci d'uova alla prima
della Scala.
Non riuscimmo a trovare l'auto, così fummo costretti a
restare in città, gironzolando in attesa del ritorno dei compagni. Verso l'una,
le due della notte, i primi compagni fecero ritorno dall'incursione versiliese:
il loro racconto dei fatti fu agghiacciante. A presidiare la Bussola erano
stati mandati i carabinieri, e venimmo a conoscenza delle cariche, dei
tafferugli, degli scontri, delle barricate, dei fuggi-fuggi, delle nuove
cariche, dei nuovi scontri e di quello sparo d'arma da fuoco come risposta al lancio
d'uova e sassi, che aveva raggiunto un giovane manifestante. Il suo nome ancora
non si conosceva e la stessa dinamica dell'evento era confusa, chi diceva che
era stato ucciso, chi ferito. Soltanto dopo ore si seppe di Soriano Ceccanti,
il ragazzo pisano di sedici anni colpito alla schiena da un colpo di pistola di
un carabiniere che lo paralizzò riducendolo in una sedia a rotelle. Quella fu
la prima volta che i carabinieri spararono nel corso di una manifestazione di
protesta del movimento.
Rispetto al '68, il '69 si radicalizzò e fu l'anno delle
scissioni politiche che coinvolsero la maggior parte dei gruppi
extraparlamentari di sinistra estrema. Insomma, dal punto di vista della
militanza politica, il '69 rappresentò l'anno di strutturazione del '68,
e il movimento conseguì una coscienza teorico-politica maggiormente definita.
La sezione della Spezia del P.O. condivise il destino
generale del raggruppamento toscano cui apparteneva, che in seguito alle
dissidenze interne sempre più accentuate tra i dirigenti si era scisso in tre
gruppi politici strutturati. Nacquero così Lotta Continua, il gruppo più
numeroso e con più marcata fisionomia nazionale, la Lega dei comunisti cui
appartenevo, e il Centro Karl Marx, attivo soprattutto a Pisa.
Il fondo di viale Ferrari venne chiuso e aperta la sede
della Lega dei comunisti in via del Prione. In quei due piccoli vani senza
servizi igienici (ma ancora non si conosceva quanto impellenti fossero le
esigenze prostatiche) svolgevamo le assemblee di sezione, ciclostilavamo
volantini, elaboravamo documenti politici, ci incontravamo con i simpatizzanti,
e i componenti dei singoli nuclei si riunivano tra loro. Quindi la sera, se in
sede non erano previste riunioni, ci si ritrovava al vicino Bar Roma di
Piazza del Mercato, soprannominato, non ricordo più da chi, forse da Fabio
Ricco, il Bar Coma. E ritrovarsi al Bar Coma divenne un rituale
imprescindibile, quasi un dovere da decalogo del militante.
1977
In quell'anno insegnavo alle cosiddette “150 ore”, i
corsi per il recupero della scuola dell'obbligo istituiti nel 1973 a seguito
del rinnovo del contratto collettivo di lavoro dei metalmeccanici, e in seguito
estesi ad altre categorie lavoratrici. Ora, a pensarci bene, questi corsi
scolastici nati dalle rivendicazioni operaie di un periodo in cui le lotte dei
lavoratori riuscivano a ottenere conquiste sindacali non solo in ambito
strettamente salariale, ma che si proiettavano sul piano sociale e culturale,
cosa che oggi, col lavoro costretto in un angolo dallo strapotere del capitale
e con i sindacati da tempo latitanti, hanno dell'incredibile. Perché la
lotta di classe esiste, come ha dichiarato il miliardario statunitense
Warren Buffett, e la mia classe l'ha vinta.
Era, come ho detto, il Settantasette, e a settembre
decisi d'andare a Bologna. Il 23 settembre era stato indetto a Bologna il
"Convegno internazionale contro la repressione" che durò tre giorni e
terminò con una manifestazione di massa (centomila persone all'incirca) per le
vie di Bologna. A Bologna mi ospitò Roberto Di Marco, scrittore d'avanguardia e
redattore, assieme a Leonetti, della "rivista marxista-leninista" Che
fare, strumento teorico-politico vicino ai maoisti di "Servire il
popolo", il quale mi prese in consegna e mi pilotò tra le assemblee e le
riunioni che si svolgevano in quei giorni frenetici.
Mesi prima, l'11 marzo 1977, a Bologna il militante di LC
Francesco Lorusso era stato ucciso da un colpo di pistola alle spalle, sparato,
si disse, dalla polizia durante una manifestazione. E il 5 luglio il quotidiano
Lotta continua pubblicò l'appello contro la repressione in Italia firmato da
Sartre, Foucault, Deleuze, Guattari, Barthes e Sollers che fu alla base
dell'idea d'organizzare il Convegno a Bologna. Il dibattito di quei mesi
all'interno di Avanguardia Operaia, in cui era confluita la Lega dei comunisti
per dar successivamente vita al raggruppamento di Democrazia Proletaria,
verteva sul dilemma se si dovesse aderire o no al Convegno. Io scrissi un
articolo per il Quotidiano dei lavoratori sostenendo che i termini giusti della
questione fossero invece quelli del come partecipare al Convegno, ossia
quali contenuti politici, quale visione strategica, quale analisi di classe
portarvi. Le linee politiche dei singoli gruppi erano fortemente in contrasto
tra loro e all'interno del Palazzo dello Sport, dove si svolgeva il Convegno,
fu subito scontro politico sulla capacità di creare prospettive politiche per
il movimento, mentre fuori i gruppi degli indiani metropolitani si
sbizzarrirono in slogan creativi del tipo “Zangherì, Zangherà, zangheriamo la
città” (Renato Zangheri del Pci era l'allora sindaco di Bologna); “Covo qui,
covo là, cova tutta la città”. Ma, in mancanza di un’analisi politica condivisa
e di un accordo tra le varie organizzazioni politiche, la tre giorni di
settembre ha segnato la fine politica del movimento.
Nell'inevitabile uscita da quel tempo della storia-mondo
e da quelle contingenze universali, negli anni successivi alcuni gettarono alle
ortiche la divisa del militante e, annusata l'aria, si riposizionarono
intraprendendo brillanti carriere universitarie, giornalistiche, aziendali,
politiche. Sempre avendo cura d'esibire appuntata sulla giacca l'edulcorata
medaglietta del "reduce sessantottino". Ravveduto, naturalmente.
Per altri, e non furono pochi, il passare della moda
stagionale fu tutt'uno col riporre nell'armadio i vecchi panni, di cui mai
avevano compreso la qualità del taglio, né scelti in piena consapevolezza i
tipi di stoffa. Rimettendosi alle volubilità dello Zeitgeist (come
sempre del resto avevano fatto), si arruolarono nella moltitudine del numero
passivo, ammettendo in sedi opportune e per il tempo breve dell'eroica
rimembranza: "C'ero anch'io". Oppure censurarono sprezzantemente
quell'intermezzo tra gioventù e vita adulta in cui il numero attivo aveva
sferrato l'assalto al cielo, rubricandolo alla voce: utopie giovanili.
In altri ancora il rifiuto corale dell'esistente si ridusse
a ribellione individuale corroborata dall'acido, e la via d'uscita che essi
trovarono nella confusione della ritirata si rivelò una via d'uscita definitiva
dalle loro vite.
Altri, e non numerosi, risposero allo scacco politico
rilanciando l'opzione militare. Confidarono in una maturità politica del tempo
e in una progressione vittoriosa della fase che restò circoscritta alle loro
analisi. Provvidero quindi le aule dei tribunali a riscrivere la storia di
quegli anni.
Altri infine, e furono i più, seguitarono la loro vita
lontani da passerelle e riflettori (ma già da militanti di base erano soliti
condurre il lavoro politico senza contare su ricadute gratificanti). Assunti,
per necessità o casualità dell'esistenza, nuovi ruoli e figure sociali, la
coerenza con ciò che erano stati si manifestò in inosservate condotte e
minimali posture quotidiane, in qualche modo debitrici di una progettualità
politica sconfitta ma mai abiurata.
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