Sui miei primi passi nella politica (La Spezia 1968-1976)




Guardo le “antiche” e belle foto spezzine, in bianco e nero, scattate tanto tempo fa dall’amico Paolo Luporini. Mi rivedo, tra 1975 e 1976, quando avevo 17-18 anni. Eccomi mentre “assedio”, confuso tra tanti altri, il Teatro Civico di Spezia, in occasione di un comizio di Amintore Fanfani, uno dei capi della Dc. Rieccomi rilassato su una delle panchine di ferro dei giardini pubblici, quelle affacciate su via Chiodo: era uno dei luoghi di ritrovo di noi ragazzi di sinistra; l’altro era accanto al cinema Cozzani, il bar Roma in piazza del mercato, chiamato dagli affezionati bar Coma (rende l’idea di quanto considerassimo vivace la routine spezzina...).

 

Eravamo tanti, in questa provincia profonda d’Italia. O, almeno, così ci percepivamo; stavamo sempre tra noi e ci volevamo bene. Di certo, comunque, quegli anni - nonostante fossero segnati dallo stragismo neofascista e dal terrorismo di ogni colore - erano bellissimi, soprattutto perché eravamo giovani. E la politica - tra l’impegnato e il giocoso, tra il pacioso e l’incazzato - rappresentava una parte importante della vita e pure un’occasione per stare assieme.

 

Tra tanti, c’ero anch’io. Come sono diventato di sinistra, a quei tempi? Perché non era difficile sentirsi un rivoluzionario, a 16 o 17 o 18 anni, in un periodo in cui le vecchie convenzioni sociali vacillavano e i partiti usciti dalla Resistenza ci apparivano, a torto o a ragione, decrepiti; a dire la verità, ci sembravano decrepiti pure i sessantottini doc, quelli che nel 1968 avevano la nostra età. Il fatto è che i tempi, per i diciottenni (e anche meno) di ieri e di oggi, appaiono dilatati, veloci e lenti allo stesso tempo.

Quando in assemblea, durante il quinquennio trascorso nel Liceo classico “Lorenzo Costa” di piazza Verdi, intervenivo con toni epici, mi sentivo, come gli altri, un adulto; eppure soltanto quattro o cinque anni prima giocavo ancora con i soldatini, cosicché il breve arco di tempo di 4 o 5 anni appariva un’eternità. Oggi da adulto sul serio, anzi “quasi anziano”, considero quell’intervallo un battito di ciglia.


Dunque… tenterò di ricordare. Quando la politica ha cominciato a interessarmi? Quale politica? E perché? Per provare a capire devo fare un passo indietro, fino alla culla (sono nato nel 1958), perché la famiglia in cui si cresce è importante per la formazione delle opinioni. La mia era vagamente religiosa, mai bigotta; diciamo, laica. Ecco gli adulti. Papà Pietro - nella vita commesso, operaio, impiegato - era del 1921, mia madre Lea Castellini - casalinga e poi operaia - del 1923; la zia Luisa Castellini - professoressa di Lettere e Storia, mi ha tirato su come un figlio - era del 1919; nonna Ida Azzalin, madre di mia mamma, era nata nel 1894 ed è stata l’unica tra i nonni che ho conosciuto.

 

Papà era un socialista della vecchia guardia, in stile Pertini o Nenni per capirci; mi raccontava una giovinezza trascorsa con l’illusione che il fascismo fosse stato “buono”, poi le disillusioni, la Seconda guerra mondiale (aveva 19 anni nel 1940, quando iniziò), la perdita dolorosa di quasi tutti gli amici, il campo di concentramento in Germania, perché non era voluto entrare nell’esercito delle Repubblica sociale di Mussolini, da cui tornò ferito e magrissimo ma vivo. Anche la bellissima mamma votava il vecchio Psi; morì a 53 anni nel 1976 - per un mesotelioma pleurico provocato dall’amianto usato in fabbrica - dopo 4 anni di pellegrinaggi negli ospedali di mezza Italia. Maurizia, mia sorella, aveva 20 anni nel ‘68 e dieci più di me. La zia Luisa era una fan del Pri di Ugo La Malfa. Nonna Ida era donna fortissima e una democristiana focosa: mi raccontava il modo in cui era riuscita a sopravvivere a due guerre mondiali e non digeriva granché che io fossi “comunista”.

 

L’impronta maggiore - sul fronte dell’educazione civica e politica - è stata per me quella impressa da zia Luisa, che mi abituò al pensiero libero e laico, alla critica e all’autocritica. I racconti sulla guerra e la prigionia fatti da mio padre contribuirono a farmi riflettere sulla guerra, il nazismo e il fascismo, l’uso della violenza e il suo rifiuto. Anche mia sorella, scomparsa da poco, mi fece crescere molto; “ai suoi tempi” era entrata in pieno nel clima sessantottino, che io vivevo di riflesso: ho vaghi ricordi di slogan (dipinti col pennello) sui muri e di manifesti scritti a mano, in giro per il centro spezzino. Provavo a leggere i libri “eretici” che scovavo nella sua biblioteca. Inoltre mi regalava spesso alcuni volumi, come “Il sovversivo” di Corrado Stajano, dedicato un giovane anarchico ucciso a Pisa: mi segnò molto.

Era questo l’ambiente in cui crescevo. Poi c’era tutto quello che accadeva attorno, nel mondo, come la guerra del Vietnam, e soprattutto in Italia: a 11 anni, nel 1969, rimasi molto colpito dalla strage di piazza Fontana; ancora di più - anzi, molto di più - fui sconvolto da quella di piazza della Loggia, a Brescia nel 1974, perché avevo già 16 anni e più consapevolezza della posta in gioco. Dopo quest’ultima tragedia, decisi che anch’io avrei dovuto fare politica. Proprio nell’estate del 1974, mentre curiosavo a Chioggia (paese d’origine della nonna) tra le bancarelle di fumetti e libri usati, invece dei soliti Uomo Ragno e Devil, comprai un tascabile edito da Laterza: “La fine dell’utopia” di Herbert Marcuse. Il volumetto contiene il testo della discussione del filosofo tedesco con gli studenti della Libera Università di Berlino Ovest: mi servì per capire quali fossero state le atmosfere, la vivacità intellettuale, il desiderio di cambiamento che avevano animato i movimenti giovanili del ’68. Marcuse vi discute le forme e le strategie di una opposizione radicale nelle società sviluppate dell’Occidente; e spiega come questa opposizione potesse ricollegarsi alle lotte di liberazione nel Terzo mondo. Secondo lui, la fine dell’utopia non vuol dire che dobbiamo arrenderci, semmai che bisogna pensare a una svolta concreta: la trasformazione profonda dei rapporti sociali era resa possibile, all’epoca,  dal poderoso sviluppo delle forze produttive e intellettuali. Ho ancora con me quel piccolo libro, sottolineato a matita: grazie a lui, campai di rendita, a colpi di citazioni, per due anni, durante gli interventi in riunioni e assemblee.

Dunque, mi consideravo di sinistra, anche se all’inizio faticai un po’ a conciliare quella sensazione con i miei ultimi scampoli di cristianesimo praticante. Poi lessi su un libro di mia zia qualcosa sul cristianesimo sociale, cioè la componente del cristianesimo democratico aperta alle istanze di riforme sociali. E mi sentii la coscienza a posto. Quindi a 16 anni decisi di fare politica. Peccato che io fossi, allora, un ragazzino magro magro e soprattutto timido timido. L'idea di parlare in pubblico mi stressava non poco. Finché ebbi un’illuminazione: tre delle più belle ragazze del Liceo - Valeria A., Silvia A. e Antonella G. - erano in classe con me e tutte erano nel giro di Lotta continua, movimento che, oltre tutto, mi appariva più divertente e fresco delle organizzazioni, cupe e seriose, che ruotavano intorno al Pci.

Diciamo che l’addizione “belle ragazze + ambiente divertente” mi convinse a frequentare la sede di Lc in via Cernaia: un posto non proprio pulitissimo, ma pieno di gente, di mobili scassati trovati in giro, di odore di inchiostro per il ciclostile e di “idee rivoluzionarie” (che fingevo di assecondare, nonostante fosse già piuttosto fervente il mio scetticismo sulla possibilità di cambiare l’Italia a colpi di rivoluzioni). Scrissi il mio primo articolo (dedicato al succoso tema della “delinquenza senile”) su un giornalino ciclostilato a mano da noi. Poi cominciai a intervenire in classe, nelle assemblee del liceo, nelle fumose riunioni serali che si svolgevano qua e là (ricordo che una cara amica, Rosanna G., alla fine di un intervento mi disse, ridendo: “Non ti riconosco più…”). Iniziai anche a diffondere il quotidiano Lotta continua in via Chiodo e in via del Prione e a partecipare a cortei che facevano il giro del centro al grido di slogan tipo “Telegrafo e Nazione, giornali del padrone”.

 

Insomma, ero diventato un militante. Poi, nel giro di un soffio di anni (anzi, di mesi), arrivarono gli esami di maturità. Era agosto del 1976 e io ero più che mai incazzato col mondo e anche con Spezia, che mi avevano appena portato via la mamma, uccisa dall’amianto in fabbrica. Mio padre e mia zia cercarono di mandarmi all’Università a Pisa; ma io non accettai di fare il pendolare, perché volevo stare molto più lontano. Minacciai (dal 1975 si diventava maggiorenni a 18 anni) di arruolarmi subito come militare di leva. Sarei voluto andare a Firenze con alcune delle compagne di Liceo. Alla fine, accettai una mediazione: l’ateneo di Pavia (che manco sapevo bene dove fosse) a due passi da Milano, in cui abitava mia sorella. Così andai a Pavia. Continuai a fare politica ancor più di prima, aderendo infine al Pci, nel 1979, e diventando un piccolo leader universitario. Lì nel 1982 ho mosso i primi passi da giornalista come corrispondente dell’Unità (è il mestiere che faccio ancora oggi).

 

Però non sentivo più alcun legame con Spezia, dove tornavo il meno possibile: mi addolorava stare lì, più o meno consapevolmente. Persi tutti i contatti con gli amici spezzini. Fino al 2007. Quell’anno - grazie al web - ho ritrovato le tre amiche, ancora oggi bellissime, di cui ho scritto prima e altri ex compagni e compagne di scuola. Così ho fatto la pace con Spezia. Ci sto tornando abbastanza spesso con il mio bimbo - Pietro, nato nel gennaio del 2016 - e con Sara. Pietrino sta imparando a nuotare proprio là dove ho imparato io da piccolo, tra Lerici e San Terenzo. Ma questa è un’altra storia. Una bella storia.

 

 

Ps: a proposito, io sono ancora di sinistra.








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