Radio Popolare Alternativa e altri spazi


 

 Antonio Zollino  


Per tutti quelli che ancora oggi possono e sanno ascoltare ma soprattutto per 

          

Luana Canalini 

Gianluca Lerici 

Enrico Filippini 

Marco Ceretti 

Tore Spanu 

Giuliano Fenelli 

Betta Nardini 

 

 Mi sono avvicinato alla politica verso la fine degli anni ’70, periodo in cui era ancora molto facile per un giovane trovarsi coinvolto in vicende e attività di carattere ideologico e sociale: e, quanto alla facilità del coinvolgimento, sarebbe stato  l’ultimo, almeno fino ad oggi. Dopo le prime assemblee studentesche (il liceo scientifico Pacinotti, dove ho studiato, era assai vivace da questo punto di vista) iniziai a frequentare Piazza Verdi, allora ritrovo in settori distinti di molti giovani politicizzati sia di sinistra che di destra, e da qui, credo verso il ‘78 o '79, approdai a Radio popolare alternativa, una realtà avviata da diversi anni sul territorio dai compagni “più grandi”, ovvero della generazione che “aveva fatto il ‘68”. Io ero invece un ragazzino arrabbiato sopravvissuto per miracolo a un’esplosione da fuga di gas e conoscevo già benissimo, non retoricamente ma sulla mia pelle di grande ustionato, le arroganze del potere e di una sedicente giustizia sempre facile alla corruzione e ai pateracchi ai danni di chi è indifeso, come lo eravamo io e la mia famiglia, restati letteralmente solo coi vestiti che avevamo addosso dopo che l’incendio ci aveva distrutto la casa; e poi soli, indifesi dallo sciacallaggio che ci portò via (mentre erano “sotto sequestro giudiziario”…) le ultime suppellettili scampate al fuoco, soli e indifesi dinanzi alle posizioni di rilievo sociale e politico dei responsabili del disastro che dopo anni di pantomime giudiziarie e di marchiane irregolarità (segnalate senza esito al pessimo presidente della repubblica d’allora) riuscirono alla fine a non pagare le loro colpe, e il reato era quello, fra gli altri, di tentata strage. Avevo anch’io, insomma, la mia piccola strage senza giustizia e senza verità da rivendicare, anche se ben poca cosa, mi rendo conto, rispetto a quelle ben più cruente e dolorose che ha dovuto subire il nostro -in ciò- ben disgraziato paese, che ancor oggi sembra ignaro di quel che gli è successo. Rendo conto di questi fatti personali solo per sommi capi e per far intendere che la qualità della mia “rabbia” non veniva tanto da un immaginario allora ben attivo, quello appunto della cosiddetta hungry generation, quanto dall’avere precocemente assaggiato, appena quattordicenne e poi almeno per altri dodici anni, tanti quanto si protrasse la farraginosa vicenda giudiziaria, gli artigli subdoli e velenosi del potere. Chiaro che questa rabbia non indotta si nutriva di letture disparate, oscillanti fra «Umanità nova» e «Lotta continua», di qualche assaggio marxiano e la lettura di un paio di testi di Lenin che, pigliandosela coi menscevichi, ovvero mostrando tutte le meschine debolezze e gli accomodamenti del rinnegato Kautsky, mi convinsero a mia volta a detestare ogni soluzione riformista; si poneva però, allora e sempre, il problema di come fare la rivoluzione: come e con chi. Inutile sottolineare che l’idea della lotta armata serpeggiava e magari faceva presa sui più istintivi fra noi, senza tuttavia che si traducesse, almeno per quanto riguarda quelli della mia generazione, in pratiche o azioni conseguenti. Vivevamo per lo più in un alone di informazione, cultura e musica alternativa che ci tenevano aggiornati e compresi, certo con una buona dose di presunzione, riguardo al nostro ruolo di avanguardia. E poi, fra i pungoli che tenevano attivi i neuroni, c’era il cinema che allora in generale proponeva assai più facilmente di oggi cartelloni e programmi di eccezionale valore artistico, con la possibilità di accedere a vere opere d’arte che facevano divertire e pensare, ben lontane dai penosi menù multisala odierni monopolizzati dall’industria holliwoodiana: penso al mitico Arsenale di Pisa ma anche alle splendide iniziative spezzine di Enzo Ungari.

 

In Radio naturalmente si faceva musica e la sigla d’apertura, quando arrivai io e fino alla fine, era Stalingrado degli Stormy six, un pezzo che non lasciava dubbi sul fatto che a Radio popolare la musica si accompagnava sempre ad un discorso politico che voleva o tentava di essere alternativo. Una radio diversa, certamente unica nel panorama cittadino, che non faceva del semplice intrattenimento: nella sede di via Lunigiana si tenevano animate assemblee, si preparavano manifesti e volantini (nei primi tempi il ciclostile sfornava questi ultimi in una particolare stampa azzurrina, poi fu sostituito dalla fotocopiatrice), si pensavano e scrivevano tazebao e striscioni, si progettavano attività politiche e culturali. Il nostro motto di quel tempo era “Non sognare , fallo!” e fra le cose organizzate rammento la mobilitazione per Bobby Sands, l’attivista nordirlandese che fu fatto crepare in carcere dopo 66 giorni di sciopero della fame: prima del tragico epilogo, raccogliemmo fondi e firme, chiamando a suonare al Palco della musica un gruppo allora sconosciuto ai più ma destinato a diventare celebre: Elio e le storie tese. Ma dall’ambito della radio prese corpo anche l’occupazione dell’edificio dell’ex-collocamento a fianco della Cattedrale, atto clamoroso con cui tentavamo di ottenere spazi pubblici per i giovani in una città che allora ne era totalmente priva; la cosa si risolse con 35 denunce che per fortuna non ebbero poi alcun esito, così come del resto avvenne per la richiesta di spazi, ovviamente disattesa dall’amministrazione comunale a guida PCI, troppo presa da intrallazzi vari per occuparsi di noi e del problema giovani (tanto per capirci, una delle nostre scritte dell’epoca recitava: “il PCI di Spezia è come la DC di Palermo”). Da questa protesta nacque anche uno spettacolo, anzi Spentacolo, titolo che giocava sul nome della città storpiato in La Spenta: scritto e interpretato da noi, vi collaborarono moltissimi amici (non io, troppo timido per il teatro) fra cui ricordo almeno Betta Nardini, Roberto Alinghieri - che poi sarebbe diventato quell’ottimo attore che è oggi- e Mario Bucceri; l’evento era divertentissimo ed ebbe molto successo, tanto che dopo la prima -mi pare all’Unione Fraterna - il Comune della Spezia (erano i tempi del buon Antonello Pischedda) dette addirittura il permesso di replicarlo al Civico. La creatività era del resto una caratteristica del movimento e fra piazza Verdi e la radio nacque un gruppo (non)musicale specialissimo, composto da non musicisti, cioè da tutti quelli fra noi che pur possedendo e strimpellando uno strumento, non potevano certo dire di possedere ogni segreto del pentagramma. Il gruppo, su mia istigazione (mi è sempre piaciuto trovare nomi e titoli), si chiamava Le Armi Turche e prevedeva la seguente formazione: Gp al clarinetto, io al sax alto, Findus all’armonia e chitarra, il Barba alle percussioni, il Folle voce solista (uso di proposito i soprannomi, non vorrei che qualcuno si risentisse… in tutti i sensi). Nostro scopo precipuo era quello di fare da incursori e guastafeste durante le manifestazioni musicali organizzate dal PCI e dal comune; come tutti i timidi e imbranati, io avevo le mie punte di spavalderia e le sfoderai insieme agli altri producendo con incredibile faccia tosta in pubblico un coacervo di suoni e rumori che, diciamo così, andavano ben oltre il free jazz. Ciò avvenne in almeno due occasioni, al Centro Allende e durante una festa dell’Unità: inutile dire che dopo uno o due pezzi, appena la curiosità si mutava in fastidio, il figiciotto che incautamente ci aveva permesso di salire sul palco si incaricava di farci smettere anche con non velate minacce, dando seguito alle irose proteste della quasi totalità del pubblico: notammo in effetti con un certo stupore, fra gli insulti e gli improperi piuttosto meritati al nostro indirizzo, che qualcuno oltre a noi riuscìva pure a divertirsi.

 

 

In radio non si trasmetteva soltanto, ma si faceva musica (ci furono anche concerti live, ne ricordo bene almeno uno dei Fall out) e si produceva, perché no, cultura: c’era gente che passava il tempo in radio anche scrivendo poesie o disegnando: così ad esempio la tessera della radio, che mostrava un sorridente faccione di Frankenstein, era stata ideata da Gianluca Lerici; fra i frequentatori assidui c’erano anche due ragazze cilene, Assunta e Zorkunde, e un italo-brasiliano nativo di Porto Alegre, Marco Ceretti detto il Barba che ci facevano conoscere la cultura musicale della loro gente, ben prima che esplodesse la moda della world music. Io ero interessato al discorso politico, tenevo programmi di jazz e musica dal mondo (detesto per quest’ultima la limitativa definizione di ‘etnica’), intervenivo di rado nelle assemblee, e ciò per problemi miei di poca spigliatezza, ma più spesso scrivevo testi di volantini e tazebao. Uno di questi testi fu trovato in bozza, durante una perquisizione personale per strada (caso allora molto frequente) alla mia fidanzata dell’epoca, Roberta, che per questo subì una perquisizione notturna in casa, senza peraltro rivelare, con una piccola ma per me molto opportuna dose di eroismo, chi fosse l’autore di quella mezza paginetta che si scagliava contro la magistratura asservita al potere e dunque implacabile nel perseguitare i compagni. Un’altra volta accadde che alcuni compagni, giovani studenti come me, tornarono piuttosto abbacchiati da un volantinaggio dinanzi ai cantieri INMA: gli operai del PCI li avevano malmenati e duramente apostrofati con una delle frasi che allora ricorrevano frequentemente in simili casi: “Ah tu sei studente? Cosa vuoi? Sono io che lavoro e io che ti mantengo!”. A cui rispondevo, quando mi capitava di ricevere personalmente la diffusa e arrogante obiezione, che non si disturbassero, visto che mio padre era operaio come loro e mia madre casalinga (dalle mani d’oro, che si dava da fare con mille lavori di uncinetto, ricamo e sartoria) e dunque erano loro a mantenermi agli studi senza alcun bisogno del concorso altrui.

Fra gli episodi più gustosi ricordo invece un attacchinaggio di manifesti per la libertà di un compagno di Santo Stefano arrestato, ci avevano detto, col pretesto di un ritrovamento di pochi proiettili arrugginiti. I manifesti erano vistosi, con un grande gabbiano in volo, chiaro simbolo della libertà che chiedevamo per il compagno secondo noi ingiustamente arrestato. Partiti in tre di buona voglia, avevamo già tappezzato parecchi muri di Mazzetta con sicura baldanza, non disdegnando neppure la sede dei carabinieri di via Ugo Foscolo dove con l’incoscienza di chi crede di agire per una causa giusta ne avevamo incollato uno proprio sotto la targa, all’ingresso della caserma. Proseguimmo imperterriti con l’ultimo manifesto da attaccare fino all’angolo di via Foscolo e qui, non sapendo dove piazzarlo, lo appiccicammo con inutile spavalderia per terra, sul marciapiede. In quella sopraggiunge ahinoi un’auto di carabinieri che inevitabilmente ci nota, ci ferma, ci chiede i documenti e ci invita a seguirli nella vicina caserma…. Già, in caserma… dove, appena arrivati i militi non possono fare a meno di notare il grosso manifesto ancora gocciolante di colla attaccato appena sotto la targa…. dire che eravamo più impauriti che imbarazzati non rende l’idea, ci spedirono subito fra commenti ironici dal maresciallo che per nostra fortuna era un buon uomo, io che ero notoriamente piuttosto imbranato in quella occasione tirai fuori una parlantina da disperato e sbrodolai un discorso sul fatto che avevano attaccato quel manifesto perché volevamo che anche i ragazzi della caserma sapessero dell’ingiusto arresto, che era stato un atto di democratica controinformazione che intendeva coinvolgere e non offendere le forze dell’ordine. Come che sia, ci lasciarono andare senza nemmeno denunciarci: il maresciallo aveva ben valutato l’accaduto con encomiabile buon senso (lo stesso che all’epoca disprezzavo a priori) e quale poteva essere la nostra reale pericolosità sociale.

Un altro manifesto, ma qui -malgrado ci fosse di mezzo la radio- la politica c’entrava ben poco, mi costò un pestaggio tale da mandarmi in ospedale. La spiacevolissima disavventura andò così: eravamo in tre, tranquillamente seduti a berci una birra da Morlando (dietro piazza Brin, che -tengo a precisare- grazie agli autoctoni era un posto poco raccomandabile ben prima dell’arrivo degli extracomunitari: e francamente, visto un simile genius loci, non capisco di cosa ci si lamenti oggi) quando si presentarono due tipi mai visti prima che senza mezzi termini ci chiesero se eravamo di Radio popolare, alla mia risposta affermativa ci dissero di uscire un attimo fuori per parlarci. Non conoscendoli rifiutammo, anche perché l’invito a venir fuori da un locale in certi contesti ha sempre avuto un chiaro significato rissaiolo. Fatto sta che, finita la birra, uscimmo e trovammo i due molto torvi in viso che ci aspettavano: finalmente capimmo cosa volevano, ci dissero che un tizio di Radio popolare alternativa era entrato nella vicina sede di Radio Spezia Sound chiedendo di attaccare un manifesto e a dir loro spaventando coi lori modi spicciativi un ragazzo cardiopatico. Naturalmente dicemmo, ed era vero, che non sapevamo chi aveva compiuto quell’atto e comunque ci scusammo per l’accaduto: ma evidentemente non erano le scuse quelle che i due erano venuti a cercare da noi. Di fare a botte con sconosciuti per qualcosa di cui non sapevamo nulla non avevamo la benché minima voglia e così, malgrado la nostra superiorità numerica, al primo gesto aggressivo, un fulmineo tentativo di slerfon, ce la svignammo di corsa prendendo tre direzioni diverse…  ero da solo quando, circa una mezz’oretta dopo, mi ritrovai faccia a faccia con i due tipacci in piazza Garibaldi, proprio sotto al negozio di Panattoni. Non riuscìii nemmeno ad aprire bocca, figuriamoci ad agire, il più alto e il più stronzo dei due si girò su se stesso e mi affibbiò un calcio in faccia in puro stile karateka (in quegli anni andavano molto i film di Bruce Lee, ed era tutt’altro che raro trovare in strada imbecilli giovani e meno giovani che provavano a imitarne le gesta). Quella è stata l’unica volta in cui sono svenuto in vita mia: mi ricordo soltanto che mi sono ritrovato non so come in piazza del Mercato, verso le tre di notte, aggrappato a una delle fontanelle mentre mi sciacquavo la bocca insanguinata assistito da Parietti, celebre tossico mezzo matto del tempo, che però in quella occasione mi fece da provvidenziale infermiere: “Cosa ti è successo?” “Mi hanno tombato… due di piazza Brin”, “Devi andare al pronto soccorso, hai il labbro spaccato di brutto”… e in effetti, toccandomi, sentivo un’apertura anomala sul labbro superiore. In ospedale non denunciai i tipi che mi avevano aggredito (a parte il fatto che non ne conoscevo il nome, la cosa non si usava allora, se qualcuno ti aggrediva cercavi di rendergli pan per focaccia tenendone fuori le forze dell’ordine), mi misero diversi punti al labbro e vennero a trovarmi in molti, fra cui GP e Giuliano Fenelli che avevano provato a vendicarmi ma erano finiti bussati anche loro; miglior sorte ebbe il tentativo di Panelli, nerboruto batterista dei Nuts, che riuscì invece a farsi rispettare e la cosa finì lì, senza ulteriori faide. Dopo qualche tempo incontrai sul treno per Pisa uno dei due, G., che mi chiese scusa: era il meno stronzo dei due, che a quanto potevo ricordare non mi aveva colpito e accettai le sue scuse: io andavo per l’Università, lui per la visita militare e facemmo il viaggio insieme… era un povero diavolo, tossico come l’altro, e fui sinceramente dispiaciuto quando seppi, qualche tempo dopo, che si era ammazzato in carcere dov’era finito per problemi di droga.

Ora basta con gli aneddoti, però: mi tocca raccontare del periodo buio in cui la radio purtroppo dovette chiudere.  Dopo i compagni che l’avevano fondata, anche i cosiddetti autonomi che avevano preso il loro posto a poco a poco se ne andarono: si era ormai negli anni del famoso “riflusso” e c’erano state discussioni per via della, diciamo così, scarsa democrazia all’interno della radio, il gruppo di autonomi partecipava alle assemblee ma del parere altrui se ne fregavano altamente, le decisioni su come muoversi e sull’indirizzo della radio venivano prese in riunioni che si tenevano a casa loro. Per reagire a questo stato di cose scrissi un tazebao per il quale si sfiorò la rissa: avevo osato usare la parola “fascismo” a proposito di simili comportamenti cosicché uno dei superortodossi incontraddicibili tentò di mettermi le mani addosso in piazza Verdi, ma fortunatamente ci separarono subito. Per quanto ne avessimo criticato spesso metodi e contenuti, tuttavia il vuoto politico lasciato dai compagni più grandi si fece sentire eccome: ci fu un breve periodo in cui la radio divenne ritrovo dei punks e di persone (come il punk Piombino, la trans Valentina) che occasionalmente si trovavano senza un luogo in cui dormire. Fra i punks c’erano persone intelligenti e amiche (come il già menzionato Gianluca Lerici, il Doctor Trip troppo presto finito fra i più) e altre che seguivano esclusivamente la moda, alcune degenerando anche, duole dirlo, nel deprecabile fenomeno neonazi degli skin heads: ma sempre e solo per seguire la moda, senza vere ricadute politiche. Fu questo il periodo in cui noi che eravamo poco più che ragazzini tenemmo le redini della radio cercando di mantenerle un indirizzo preciso sia dal punto di vista politico-culturale che da quello amministrativo: fui nominato economo senza averne alcun titolo (e fui l’ultimo, conservo ancora qualche bolletta pagata) e posso dire di aver seguito la radio quando ormai era stata abbandonata da tutti o quasi, fino all’ultimo giorno: una bolletta della luce di poche migliaia di lire non onorata ne sancì la fine. Ma l’agonia fu qualcosa di tragicomico: ormai era saltata ogni benché minima idea di palinsesto e di programmi, chi arrivava in radio apriva le trasmissioni a qualsiasi ora e iniziava a trasmettere quel che più gli piaceva, senza alcun tipo di freno o (se ce n’era mai stato) di controllo. Un giorno uno dei nostri amici postaleros (così erano chiamati i frequentatori di piazza Verdi) aprì il microfono e profittando di una batteria lasciata lì dopo un concerto iniziò a tamburellare una sua scontata cadenza, intonando al tempo stesso quello che dottamente si potrebbe anche definire un inno a Baubo, ma che nella trita realtà era un osceno e volgare ripetere senza posa sempre la stessa frase, che poi consisteva unicamente nell’encomio senza mezzi termini del genitale femminile. L’amico era certamente su di giri ma non rimase l’unico a prodursi in simili performances, tanto che alcuni barbieri della città, per la soddisfazione propria e dei loro clienti, si erano ormai abituati a sintonizzarsi sulla radio, perché davvero poteva capitare di sentire sproloqui, frizzi e boutade, ma anche appunto veri e propri deliri che altrove ci si guardava bene dal mandare via etere e ciò naturalmente suscitava ilarità negli ascoltatori. Infine, la radio chiuse, ma ancora sopravvisse in qualche modo nei primi anni ’80, e sia pur brevemente, nel bell’edificio delle scuole del Vignale, sotto il nome di Radio Hapax; il nome glie lo avevo dato io ma non lo capì nessuno nel suo senso analogico (preso dal gergo letterario) di cosa unica, irripetibile, c’era anzi chi senza volerlo lo storpiava in Radio Apache. Pochi volenterosi compagni avevano rimesso in piedi l’occorrente per trasmettere e io continuai a trasmettere sia un programma di jazz che uno di musica dal mondo. Ben presto, però, la situazione si rivelò ancora più difficile di quella che avevamo lasciato in via Lunigiana: i punks presero a bivaccare e a dormire in massa nei locali del grande edificio, e al posto dei compagni ormai rarissimi vennero a trasmettere anche alcuni fighetti spezzini che nulla avevano a che fare con le nostre storie e le nostre idee. Un giorno ne sorpresi alcuni che mandavano i Bee gees e mi girarono veramente a frullatore: pur nella decadenza, la diversità era sempre stata un carattere imprescindibile anche della nuova radio, affissi allora in sala trasmissioni un foglio che spiegava il significato del termine Hapax e che invitava i fighetti ad andare altrove a trasmettere i pezzi che tutte le altre radio trasmettevano in fotocopia, ossequienti alle logiche mercantili delle majors. Ormai la radio non faceva più politica, i temi del conflitto sociale si affrontavano ormai quasi solo sotto l’aspetto musicale e, cosa che fa molto comodo al potere, la ribellione era ormai diventata un mero fatto di costume, per non dire proprio una moda. I punks si erano ormai domiciliati nell’edificio del Vignale e, forti della presenza costante, inzeppavano il palinsesto della loro musica, guardando in cagnesco i pochi che ancora si ostinavano a non assimilarsi. Tenni ancora qualche trasmissione di jazz e musica dal mondo, togliendomi una volta la soddisfazione, poiché la musica trasmessa veniva amplificata per tutta la sede, di sorprendere i punks che ballavano come matti sul ritmo indiavolato di Hasapiko sirto degli Zsaratnok che stavo trasmettendo. Dopo qualche mese di trasmissione, anche Radio Hapax chiuse miseramente i battenti; io mi misi a studiare sodo per recuperare il primo anno d’università andato praticamente perso, a poco a poco ci perdemmo di vista con i compagni e il passaggio dal pubblico al privato di cui  tanto si parlava si rivelò tutt’altro che indolore: molti caddero nella trappola dell’eroina e qualcuno si fece suggestionare dalla lotta armata: con sorpresa e dolore poi avremmo saputo che uno degli autonomi (anche simpatico) che frequentava la radio si era affiliato alle Brigate rosse. Ma tutto intorno a noi era ormai cambiato dopo l’omicidio Moro, evidentemente teso a impedire -lo capiamo bene oggi- una riconciliazione nazionale invisa ai nostri padroni d’oltreoceano che riuscirono a piegare la lotta armata (e in generale il terrorismo sia di destra che di sinistra) ai loro biechi interessi; quello che da molti fu creduto e scambiato per un atto rivoluzionario era in realtà una ben precisa mossa al servizio delle peggiori forme di potere, nazionali e internazionali. Eravamo ormai ben addentro ai ‘favolosi’ anni ’80 e la gente iniziò a richiudersi in casa per dedicarsi al proprio ‘privato’, poi arrivarono i computers e i video-games a consolidare la tendenza: comparvero le t-shirt con loghi e scritte spesso insensate, privando di senso anche quelle che in passato lo avrebbero avuto (la celebre maglietta del Che, ad esempio), la gente cominciò a sentirsi soddisfatta indossando ed esibendo le firme degli stilisti sui propri indumenti, la superficialità e la comodità anche ideologica e morale presero piede in ogni campo e il profitto cessò di essere demonizzato: in breve, si concludeva, ormai senza più opposizioni né speranze, il genocidio antropologico e culturale preconizzato da Pier Paolo Pasolini.

 

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