Una fotografia



 Sergio Olivieri


Una fotografia 

Scorci di lotta di classe in Italia e a Spezia negli anni Ottanta 

 

Questa fotografia è stata scattata a Spezia nella primavera del 1984, durante uno sciopero contro il decreto di San Valentino col quale il Governo Craxi, con la complicità di Cisl e Uil, aveva tagliato quattro punti di scala mobile.

Dopo tanti anni la fotografia è stata messa in rete e così mi è venuta in mente una vicenda che ha segnato in maniera indelebile la storia politica e sociale del Paese.

Lo scritto che segue è il racconto, impreciso e pieno di lacune perché basato solo su appunti ritrovati in una vecchia agenda e su ricordi di episodi ormai lontani, di ciò che accadde in Italia e a Spezia tanti anni fa, visto con gli occhi di un operaio allora trentenne.

 

 

“ Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”

Ernesto Che Guevara

 

 

Prima e dopo

La scala mobile, dalla conquista del punto unico al trappolone finale.

La scala mobile fu introdotta nel dopoguerra per difendere i salari dal carovita e dall’inflazione: a ogni incremento del costo della vita corrispondeva un adeguamento automatico delle retribuzioni.

I prezzi di alcuni generi di largo consumo formavano il cosiddetto "paniere" ed erano costantemente monitorati in modo da poter determinare l’indice dei prezzi al consumo.

L’aumento dell’indice dei prezzi al consumo faceva scattare proporzionalmente dei punti di “contingenza” e ognuno equivaleva a una cifra prestabilita che era inserita nella busta paga.

Nelle buste paga, infatti, c’era una voce - “indennità di contingenza” - che ogni tre mesi veniva aumentata con l’aggiunta delle lire corrispondenti ai punti pieni e ai decimali di punto scattati nel trimestre.

L’indennità di contingenza faceva parte a tutti gli effetti della retribuzione ed era conteggiata anche per determinare l’importo della liquidazione.

Alla fine degli anni Sessanta, il movimento sindacale riuscì a conquistare importanti miglioramenti dell’istituto della scala mobile.

Fino al 1969, rimase in vigore il sistema delle “gabbie salariali”: il Paese era diviso in sette zone nelle quali, a lavoratori che svolgevano le stesse mansioni, venivano pagati salari differenti con la giustificazione del diverso costo della vita.

Variava, di conseguenza, anche l’importo del punto di contingenza.

Poi, con l’accordo per il superamento delle “gabbie salariali”, il valore del punto di contingenza divenne omogeneo su scala nazionale nell’arco di 2/3 anni.

Nel 1970 fu cancellata l’odiosa disparità che prevedeva che l’importo del punto di contingenza che spettava alle lavoratrici fosse più basso di quello riconosciuto ai lavoratori.

Tuttavia, fino alla metà degli anni Settanta, a ogni aumento del costo della vita non corrispondeva ancora un adeguamento eguale per tutti i salari perché il valore del punto di contingenza dipendeva anche dal livello professionale e dall’età del lavoratore.

Nel 1975, un accordo tra sindacati, Confindustria e Governo introdusse il “punto unico di contingenza”, col quale, indipendentemente dal livello professionale, dall’ammontare della paga contrattuale e dall’età, il punto di contingenza diventava eguale per tutti.

Venne anche stabilito che il valore del punto unico corrispondesse a quello che, prima di quell’accordo, era corrisposto ai lavoratori con il livello d’inquadramento professionale più alto.

L’accordo prevedeva anche che l’introduzione del punto unico sarebbe diventata effettiva solo nel febbraio 1977 (due anni dopo!); nonostante ciò, per gli operai, inquadrati nella grande maggioranza nei livelli più bassi, era una grande conquista!

La scala mobile, anche se non recuperava totalmente la perdita del potere d’acquisto causata dall’aumento dei prezzi, era un’efficace difesa dei salari dal carovita e dall’inflazione.

Gli attacchi del padronato iniziarono poco dopo e in breve tempo la scala mobile divenne oggetto di un aspro scontro di classe che ebbe tra i suoi momenti culminanti proprio la vicenda del decreto di San Valentino nel 1984.

La partita si chiuse definitivamente con l’accordo del 31 luglio del 1992; a capo del Governo c’era allora Giuliano Amato che poteva giovarsi di un’ampia benevolenza nei vertici del Pds ed era spalleggiato da Cisl e Uil.

Governo, Cisl e Uil tesero alla Cgil “un trappolone”; così fu chiamato.

Amato propose un accordo che eliminava la scala mobile e chiese la firma di tutti i sindacati senza la quale si sarebbe dimesso e avrebbe addossato la responsabilità a chi non avesse firmato l’intesa.

Le dimissioni di Amato avrebbero avuto pesanti ripercussioni nella collocazione dell’Italia nel processo di costruzione europea che stava per arrivare in dirittura d’arrivo.

In contrasto col mandato ricevuto dal Direttivo nazionale del sindacato, Trentin cedette al ricatto, firmò e poi si dimise dalla carica di Segretario generale della Cgil.

Nelle fabbriche ci furono proteste rabbiose e in alcune città i dirigenti sindacali furono accolti non solo da fischi ma anche da lanci di bulloni.

La strada però ormai era segnata anche perché negli anni Ottanta i rapporti di forza si erano progressivamente spostati a favore del padronato.

Inoltre, pur con tutti i limiti e le incertezze di quel partito, con lo scioglimento del Pci era venuto a mancare il punto di riferimento del mondo del lavoro e un baluardo in difesa delle conquiste operaie.

Rifondazione comunista, costituitasi da poco più di un anno, era troppo gracile per reggere da sola uno scontro politico di tal portata.

L’anno successivo, il 23 luglio del 1993, fu firmato un nuovo accordo che legò i futuri adeguamenti dei salari all’aumento della produttività e al “tasso d’inflazione programmata”.

Era l’avvio della “concertazione”, un vero disastro per il mondo del lavoro.

Oggi, a causa dell’abolizione della scala mobile, i salari non hanno più alcuna tutela automatica ed è anche per questo che negli ultimi decenni c’è stato uno spostamento impressionante della ricchezza dai salari ai profitti delle imprese e dalle classi lavoratrici ai ceti privilegiati.

 

1977 – 1981

Lo scippo della contingenza dalle liquidazioni e un referendum che non si farà.
Proprio in concomitanza con l’effettiva introduzione del punto unico di contingenza previsto dall’accordo del 1975, nel gennaio del 1977 arrivò il primo colpo alla scala mobile.

Un nuovo accordo tra Governo, padroni e sindacati abolì sette festività civili e religiose trasformandole in giornate lavorative a tutti gli effetti e intervenne pesantemente sulle modalità di calcolo della liquidazione, che oggi si chiama trattamento di fine rapporto.

Nell’industria, il meccanismo per calcolare le liquidazioni funzionava così: al momento del pensionamento o quando veniva interrotto il rapporto di lavoro, il lavoratore aveva diritto a una indennità di liquidazione il cui importo corrispondeva all’intera retribuzione mensile (contingenza compresa) percepita in quel momento moltiplicata per gli anni di anzianità aziendale.

L’intesa, i cui contenuti saranno recepiti da un’apposita legge approvata poco dopo dal Parlamento, stabiliva che i punti di contingenza scattati dopo il febbraio 1977 non sarebbero più stati calcolati sulla liquidazione.

Quell’accordo segnò l’avvio di una vera e propria svolta moderata nella politica sindacale, la cui filosofia sarà poi illustrata dal Segretario della Cgil Lama in una celebre intervista a Repubblica nel gennaio del 1978 (il titolo era chiaro: “Lavoratori stringete la cinghia” !) e che verrà sancita dalla Conferenza dei gruppi dirigenti di Cgil, Cisl e Uil che si svolse all’Eur poche settimane dopo quell’intervista.

Quell’evento passò alla storia come “la svolta dell’Eur”.

La politica di unità nazionale, perseguita in quegli anni dai vertici del Pci, si traduceva sul piano sindacale non solo nel contenimento delle rivendicazioni operaie ma anche in un progressivo cedimento di quanto era stato conquistato con le dure lotte degli anni precedenti.

Nell’autunno del 1976, infatti, era nato, con l’astensione del Pci, il Governo Andreotti che, per fronteggiare la crisi economica, varò quella che fu chiamata la “politica dell’austerità”.

Era la prima volta dal 1947 che il Pci non era all’opposizione e, nelle illusioni di Berlinguer, l’astensione doveva essere solo il primo passo verso il pieno coinvolgimento del partito nel governo del Paese, facendo cadere quella pregiudiziale anticomunista che durava da decenni.

Il 2 dicembre 1977, con lo sciopero generale indetto dalla Flm (l’acronimo stava per Federazione lavoratori metalmeccanici) e con una grande manifestazione nazionale a Roma, i metalmeccanici tentarono di spezzare la gabbia della solidarietà nazionale e poco dopo il Pci, forse resosi conto del vicolo cieco, tolse il sostegno al Governo Andreotti che diede le dimissioni.

Tuttavia, sull’onda dell’emergenza prodottasi con le azioni delle Br, il clima della solidarietà nazionale continuò fino al 1979 inoltrato.

La svolta in senso moderato della politica sindacale incontrò una significativa resistenza tra i lavoratori.

Infatti, dopo un primo smarrimento, nelle fabbriche iniziò a manifestarsi un forte dissenso che sfociò nella primavera del 1977 in un’assemblea nazionale contro la “politica dei sacrifici” convocata al Teatro Lirico da più di 300 Consigli di fabbrica che fu sconfessata dai vertici di Cgil, Cisl e Uil.

Tuttavia, la sinistra operaia, che pure aveva forti radici nelle fabbriche e nei Consigli, indebolita dalla crisi delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e isolata dal Movimento del ’77 che le era sostanzialmente estraneo, non riuscì a contrastare efficacemente “la svolta dell’Eur” e anzi in quegli anni finì stritolata tra la radicalizzazione predicata dall’Autonomia, le azioni delle Br e il nuovo corso moderato del Pci e del sindacato.

La raccolta di firme promossa da Democrazia proletaria nel 1981 per un referendum abrogativo della legge che aveva scippato la contingenza dalle liquidazioni fu dunque anche un’occasione di riorganizzazione per molte avanguardie di fabbrica che tra mille difficoltà erano riuscite a “resistere”.

L’iniziativa fu un successo: vennero raccolte più di 800 mila firme e la Corte Costituzionale dichiarò legittimo il referendum che avrebbe dovuto tenersi nel giugno del 1982.

Governo e Parlamento riuscirono ad evitare il referendum approvando in fretta e furia, nel maggio del 1982 a solo un mese di distanza dalla data fissata per la consultazione popolare, una nuova legge che trasformando la liquidazione da “salario differito” in “risparmio forzoso”, faceva venire meno i presupposti giuridici del referendum.

Accadeva a Spezia.                                                                                                        

L’avvisaglia dell’accordo del gennaio ’77 l’avevamo già avuta un mese prima, a ridosso del Natale.

In quei giorni c’era una grande campagna della stampa che sosteneva che in Italia si lavorava troppo poco e che c’erano troppi giorni di festa.

Nonostante la reazione dei sindacati fosse molto debole, in Termomeccanica, la fabbrica nella quale lavoravo dal 1975, nessuno si sarebbe mai immaginato che di lì a poco avrebbero calato le brache.

Poi successe un fatto strano.

Il sindacato, non ricordo più se quello nazionale o provinciale, aveva fatto stampare dei piccoli calendari-agendina per l’anno nuovo ed era appena iniziata la distribuzione nei reparti.

Sfogliandoli, alcuni operai si accorsero che le festività che cadevano in mezzo alla settimana, invece che essere evidenziate in grassetto come giorni di festa, erano scritte con i caratteri dei normali giorni lavorativi.

Iniziarono le proteste, tanti andarono alla sede del Consiglio di fabbrica a chiedere chiarimenti e alcuni rifiutarono le agendine.

Nessuno sapeva niente; poi dalla Camera del Lavoro arrivò la spiegazione: in grassetto erano state scritte le domeniche e solo le feste più importanti come Natale e 1 Maggio, però non dovevamo preoccuparci perché anche se scritte in caratteri normali le altre festività infrasettimanali restavano festa a tutti gli effetti.

Un mese dopo, invece, la sorpresa, ma ormai un po’ ce l’aspettavamo.

Più che la soppressione delle sette festività, fu però la cancellazione dalla liquidazione dei punti di contingenza che sarebbero scattati da allora in poi a provocare fin dall’inizio un grande malcontento.

Mentre quelli della Cisl e della Uil si defilavano, a difendere quell’accordo erano impegnati in prima fila i quadri del Pci e della Cgil.

Del resto quell’intesa poteva spiegarsi solo nell’ambito della politica di solidarietà nazionale perseguita allora dal Pci. 

In fabbrica molti compagni del Pci ingoiavano, c’era però chi si ribellava e alcuni di loro furono deferiti ai probiviri con la minaccia della radiazione che però, se ben ricordo, non ci fu perché tutto si risolse in maniera più elegante; semplicemente gli venne negato il rinnovo della tessera.

Tra questi Maurizio, un giovane operaio che era già stato protagonista di tante battaglie e Angelo, che allora era nel Consiglio di fabbrica, aveva già una certa età  e che conoscevo da qualche anno perché, prima di riscriversi al Pci, dove aveva militato da giovane, era stato tra i promotori a Spezia del movimento marxista-leninista.  

Ero molto affezionato ad Angelo che è scomparso improvvisamente qualche anno fa; dopo la pensione era ritornato al suo paese in Lunigiana e nelle rare volte che ci sentivamo ci teneva a farmi sapere che era rimasto comunista e che votava per Rifondazione.

Resta il rammarico di non aver saputo trovare il tempo per un’ultima visita.

Fino a che durò l’illusione che la politica della moderazione e della solidarietà nazionale avrebbe portato il Pci al governo, le proteste per lo scippo della contingenza dalla liquidazione restarono a livello di mugugno.                                                                                                                                

Quando quell’illusione finì, divenne senso comune che quell’accordo era una gran fregatura in cambio di nulla e Democrazia proletaria (Dp) ebbe la felice intuizione di promuovere la raccolta di firme per un referendum abrogativo della legge che ne aveva recepito i contenuti.                                                                             

Con la campagna per il referendum, anch’io mi avvicinai a Dp, dopo che, per qualche anno, mi ero “chiuso” in fabbrica amareggiato per lo scioglimento di Lotta Continua, (nella quale avevo attivamente militato fin dal 1972) e confuso per la deriva del Movimento del ’77.

Avevo seguito con interesse e speranza l’affacciarsi sulla scena di quel Movimento, avevo partecipato alle iniziative spezzine, alla manifestazione di Roma del 12 marzo e a quella di settembre a Bologna al termine del Convegno contro la repressione.

Quel Movimento però non lo capivo e facevo fatica a identificarmici.

Lo sconcerto aumentò quando il 2 dicembre del 1977, al termine della manifestazione nazionale dei metalmeccanici a Roma, partecipai all’assemblea nazionale delle avanguardie di fabbrica che si tenne all’Università.

L’assemblea era molto affollata ma non ne venne fuori nulla, anzi tutto naufragò in mezzo alle polemiche.

Così mi rifugiai nella dimensione di fabbrica in attesa di tempi migliori.

Alla Termomeccanica la raccolta di firme per il referendum fu un successo.                 

Allestimmo il banchetto proprio davanti all’entrata però sull’altro lato della strada rispetto alla portineria perché la Direzione sosteneva che il marciapiede davanti all’ingresso era di pertinenza dell’azienda e i guardiani ci avrebbero fatti sloggiare;

era tollerato, però, bontà loro, che si facesse volantinaggio purché non si varcasse la soglia dell’androne, se mettevi un piede dentro arrivavano subito i guardiani.

Allora i guardiani erano tutti ex carabinieri e il loro potere era stato molto ridimensionato dall’entrata in vigore nel 1970 dello Statuto dei lavoratori.

Dopo quella legge, per esempio, i guardiani non potevano più girare per i reparti o controllare se un lavoratore si tratteneva ai cessi più del dovuto (gli operai anziani raccontavano che i gabinetti nelle officine avevano le porte tipo saloon che non potevano essere chiuse e i guardiani davano una sbirciatina per vedere se chi era dentro leggeva il giornale oppure fumava).

Lo Statuto dei lavoratori aveva anche vietato le perquisizioni corporali all’uscita dal lavoro e i guardiani si limitavano a farti aprire la borsa e rovistare tra la biancheria sporca.

Ogni volta che ai cancelli distribuivamo volantini, era consuetudine che i guardiani ne avessero alcune copie che venivano trasmesse alla Direzione e all’Ufficio politico della Questura o Digos come iniziò a chiamarsi nella seconda metà degli anni Settanta.

Non sempre però era necessario perché le auto civetta pattugliavano la zona industriale all’orario di entrata nelle fabbriche e capitava spesso che agenti in borghese scendessero dalle auto e pretendessero la consegna di alcune copie del volantino in distribuzione.

Anche se la disciplina da caserma vigente nelle fabbriche era stata messa fortemente in crisi dall’ondata di lotte di quegli anni e da una forte insubordinazione operaia sia collettiva che individuale, la presenza dei guardiani ai cancelli continuava ad avere un certo peso di controllo e di oggettiva coercizione.

 Anche per questo eravamo incerti su come sarebbe andata la raccolta di firme; sapevamo bene che tutti erano incazzati neri per la storia della liquidazione ma un conto è brontolare in reparto un altro conto è farsi vedere che si dà retta agli “estremisti”.

Alle 12:00 iniziò il caos: gli operai vennero in massa a firmare e dopo di loro vennero anche molti impiegati.                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

Il bilancio della giornata era ottimo: aveva firmato quasi tutta la fabbrica e i pochi che avevano cercato di convincere i lavoratori a non firmare perché “non serviva a niente” c’erano rimasti davvero male.

Per noi, che eravamo un gruppo di operai che faceva riferimento in maniera un po’ generica all’area della sinistra rivoluzionaria, si aprivano nuove prospettive.

Lo capimmo subito: tutti ci fermavano, volevano sapere com’era andata, inveivano contro quei pochi che, seguendo gli ordini di “scuderia”, non avevano firmato.                                                        

Fino ad allora, anche se avevamo un certo consenso ed eravamo riusciti a prevalere nelle assemblee sulla piattaforma contrattuale del 1979, la nostra era pur sempre una battaglia di “rimessa”, priva di collegamenti con le altre fabbriche e, dopo lo scioglimento di Lotta continua, senza alcun riferimento nazionale. 

Dopo il successo della raccolta di firme per il referendum, se si voleva andare avanti, occorreva però un orizzonte più ampio.                                            

Maturammo allora la decisione di aderire a Dp.                                                                                  

 

1980 - 1982

I padroni all’attacco; il riposizionamento del Pci.

Il Segretario della Uil Benvenuto non riesce a parlare.

La disdetta della scala mobile e il contratto dei metalmeccanici.

Confindustria, dopo la “marcia dei quarantamila” e la storica sconfitta operaia alla Fiat dell’autunno del 1980, era partita lancia in resta contro il cosiddetto "costo del lavoro" e 

sul banco degli accusati c'era ancora una volta proprio la scala mobile.                                               

Più volte il padronato minacciò la disdetta dell’accordo del 1975 e nelle fabbriche 

cresceva lo sconcerto per l’inerzia dei sindacati.                                                                      

Lo scenario politico volgeva al peggio e divenne chiaro che si stava preparando

l’emarginazione del Pci.                                                                                                                                                          

Il Segretario Berlinguer, consapevole della nuova situazione, era impegnato nello sforzo di riposizionare il partito.

Nel settembre del 1980, nel momento culminante dei trentacinque giorni di lotta alla Fiat, Berlinguer, durante un comizio davanti ai cancelli di Mirafiori, rispondendo alla domanda di un operaio, disse che se i lavoratori avessero occupato la Fiat, il Pci non avrebbe fatto mancare il proprio sostegno.

Era l’esplicito segnale di un netto cambiamento di rotta.

Il grosso dell’apparato del partito opponeva una resistenza passiva alla svolta promossa da Berlinguer ma la base operaia aveva capito.

Il movimento sindacale fu investito in pieno dal nuovo clima e l’unità tra Cgil, Cisl e Uil iniziava a incrinarsi.

Giorgio Benvenuto, il segretario della Uil, era considerato un uomo di Craxi e in quel momento appariva il più propenso ai cedimenti nei confronti del Governo e del padronato.

Così, ovunque andasse a parlare, era pesantemente contestato.

In prima fila però non c’era solo la sinistra operaia; era la base del Pci a essere protagonista delle contestazioni.                                                                                  

Lo si vide bene il 26 marzo 1982 a Roma in Piazza San Giovanni durante la manifestazione nazionale dei metalmeccanici quando Benvenuto non riuscì a parlare e fuggì dal palco.   

Nei primi giorni di giugno del 1982, il padronato dette la disdetta dell'accordo del 1975.
L'effetto della disdetta era che la scala mobile sarebbe scomparsa entro un anno a meno che nel frattempo non fosse intervenuto un nuovo accordo tra le parti.

Contro la disdetta della scala mobile, il 25 giugno 1982 venne proclamato lo sciopero generale e, in una Roma assolata, durante un’altra manifestazione nazionale, ci furono nuove contestazioni, non solo a Benvenuto (che anche questa volta non riuscì a finire il suo discorso) ma anche ai Segretari di Cgil e Cisl, Lama e Carniti.

Lo stesso rinnovo del contratto dei metalmeccanici, che scadeva proprio in quel periodo, fu fortemente condizionato dalla vicenda della scala mobile perché i padroni si rifiutavano di aprire le trattative solo sul contratto, ma volevano trattare contestualmente anche sulla “riforma” della scala mobile.                                                                                                                                          

Nella consultazione dei lavoratori sulla piattaforma contrattuale erano emerse contestazioni e proteste per le richieste che molti giudicavano al ribasso.

Peraltro, i modesti incrementi salariali rivendicati nella piattaforma contrattuale vennero già preventivamente vanificati dalla manovra economica varata alla fine del 1982 dal Governo Fanfani (la maggioranza di governo era composta da Dc, Psi, Pri e Pli).

Contro la stangata governativa, che oltre ad aver tagliato risorse per sanità, previdenza ed Enti locali aveva anche introdotto forti inasprimenti fiscali e tariffari,si svolsero ovunque scioperi e manifestazioni.                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

Accadeva a Spezia

Anche nelle fabbriche spezzine la base del Pci diventava più combattiva e nei Consigli di fabbrica si aprivano nuovi spazi.                          

Era un cambiamento lento ma evidente del quale ebbi una piena conferma il 26 marzo 1982, il giorno della contestazione romana a Benvenuto.

Un treno di metalmeccanici era partito da Spezia per la manifestazione; si sapeva che in Piazza San Giovanni avrebbe parlato anche Benvenuto, per noi era una provocazione ed eravamo intenzionati a fischiarlo.                                                                                                                                            

Partimmo in corteo dalla Stazione Ostiense, prima di arrivare in Piazza San Giovanni però affrettammo il passo perché volevamo essere tra le prime file.                                    Arrivati in piazza riuscimmo a metterci alla destra del palco a ridosso delle transenne dopo le quali c'era uno spazio che doveva rimanere vuoto e che era presidiato dal servizio d’ordine del sindacato.                               

La piazza si riempiva – alla fine si parlò di 300.000 metalmeccanici – e si sentiva montare la tensione.                                                                                                                         

La manifestazione stava volgendo al termine e all’annuncio dell’intervento di Benvenuto partirono i primi fischi.                                                            

Quando poi il segretario della Uil si avvicinò al microfono per parlare le urla e i fischi divennero assordanti.                                                                                                             

Da dove eravamo vedevamo bene Benvenuto che urlava dentro il microfono solo che, nonostante il potente impianto di amplificazione, non si sentiva una parola di quel che diceva.                                                                                                       

In realtà si sentiva solo un frastuono assordante, fischi, insulti, fischietti, bidoni di latta picchiati con rabbia; noi, che pure fischiavamo e urlavamo, non riuscivamo a percepire nemmeno i nostri suoni.                                                             

 Andò avanti così per uno o due minuti, poi la folla dietro iniziò a premere e noi, che eravamo in prima fila, ci trovammo a essere quasi schiacciati contro le transenne.                                                                                                                                        A un certo punto percepimmo che alla nostra destra stava succedendo qualcosa: lo spezzone dell’Alfa Romeo si era fatto largo nella piazza e i lavoratori stavano premendo sulle transenne che cedettero.                                                                                                                                                                               

Il servizio d’ordine si dileguò; anzi ricordo perfettamente un compagno con tanto di bracciale rosso che invece di provare a fermarci ci diceva “Dai, dai!” facendoci segno con la mano di andare avanti.                                                  

Tra l’altro stare nella terra di nessuno era diventato pericoloso perché dalla piazza avevano iniziato a lanciare mandarini, arance e mele presi dai sacchetti che il sindacato aveva distribuito; i lanci però non riuscivano ad arrivare fino al palco e i frutti cadevano prima con qualche rischio per chi si trovava lì.

E così, quasi senza rendercene conto, ci ritrovammo ai piedi delle scalette sul lato destro del palco.                                                                                         

Il palco era in pieno caos e Benvenuto proprio in quel momento aveva smesso di parlare e stava scappando dalle scalette sul lato opposto rispetto a quello dov’eravamo noi!

Nel frattempo anche quelli dell’Alfa erano arrivati sotto il palco e accorgendosi che Benvenuto era scappato, iniziarono a gridare “Corteo, corteo”.                                                                                                                     

Mentre la piazza iniziava a svuotarsi ci unimmo al corteo.

C’erano operai delle fabbriche di tutta Italia, alla testa un enorme striscione con scritto “Lavorare meno, lavorare tutti” e un camion con l’impianto di amplificazione dal quale partivano slogan come “la scala mobile non si tocca, la difenderemo con la lotta” o “Lama, Carniti, Benvenuto, il proletariato non va venduto”.                                                                                                                                    

Arrivammo in una piazza vicina a San Giovanni, il corteo si fermò e un operaio dell’Alfa Romeo salì sul pianale del camion, prese il microfono e tenne un breve comizio nel quale, tra gli applausi e l’entusiasmo di tutti, esaltò la cacciata di Benvenuto.                  Poi andammo di nuovo alla Stazione Ostiense per il viaggio di ritorno e non avevamo idea del clima che avremmo trovato però, a parte qualche socialista e i sindacalisti della Uil che erano incazzati neri, tutti gli altri erano contenti di quello che era successo.

 Anche il coordinatore del Consiglio di fabbrica, un compagno iscritto al Pci e alla Cgil, quando mi vide strizzò l’occhio. 

Di lì a poche settimane alla Termomeccanica si tennero le elezioni per il rinnovo del Consiglio di fabbrica.

Avevo fatto parte del Consiglio dal 1977 al 1980, poi non mi ero ripresentato alle elezioni perché in quel periodo mi ero sposato e mi ero iscritto all’Università.

Pesava anche il fatto che allora non avevo alcun riferimento politico esterno.

Adesso però la situazione stava cambiando e decisi di candidarmi nuovamente.

Il mio reparto doveva eleggere due delegati; ci candidammo in tre: un delegato uscente appoggiato dal Pci e dalla Cgil, un ex delegato socialista ed esponente della Uil ed io.

Essendo scontata l’elezione del candidato sostenuto dalla Cgil e dal Pci (che nel reparto aveva qualche decina d’iscritti su 120 operai), la competizione era tra me e quello della Uil.

Un confronto tutto politico, in particolare dopo la contestazione a Benvenuto.

Venni eletto con un ampio margine e come in occasione della mia precedente elezione, oltre che dai giovani, nel voto segreto ottenni consensi anche da diversi operai del Pci.

 Qualche mese dopo la cacciata di Benvenuto da Piazza San Giovanni, Confindustria annunciò la disdetta della scala mobile.                                                                                                                                             

Quel giorno la notizia arrivò in fabbrica in tarda mattinata, forse durante la pausa mensa.                                                                                                                                                  Lo sciopero fu immediato e lo stesso stava accadendo nelle altre fabbriche spezzine (come in tutta Italia, del resto).                                                                                 

Anche questa volta, come sempre, avevamo forzato la mano e avevamo spinto per iniziare lo sciopero prima che arrivassero indicazioni dalla Camera del lavoro o dall’Flm provinciale.                                                                                                                                          

Dopo la pausa mensa alcuni reparti non ripresero il lavoro e iniziò il solito pellegrinaggio verso la stanzetta del Consiglio di fabbrica per sollecitarlo a proclamare lo sciopero.                                                

Il copione era quello di sempre: i delegati si riunivano, c’era chi era per la lotta e chi invece titubava o era contrario, poi iniziavano ad arrivare gruppi di operai che si inserivano nella discussione, dicevano la loro, urlavano, s’incazzavano e alla fine i pompieri battevano in ritirata e lo sciopero veniva proclamato.                                             

L’incazzatura questa volta era davvero generale anche perché la disdetta arrivò nel mezzo della discussione sul referendum per il ricalcolo della contingenza sulle liquidazioni che avrebbe dovuto tenersi di lì a poco.                                                                 

Sicché alcuni interpretarono quella disdetta come un escamotage per vanificare l’esito del voto (che poi non ci fu per via della legge approvata dal Parlamento).                 In realtà l’obiettivo dei padroni era ben più ambizioso e mirava direttamente all’istituto della scala mobile.                                                                                                 

Attorno alle 14:00 i sindacati provinciali dei metalmeccanici proclamarono lo sciopero che peraltro era già in atto ovunque e indissero una manifestazione in città.                                                                                                                                                    Nell’estate ci furono altri scioperi ed anche una nuova grande manifestazione nazionale.                                                                                                                                 

Cominciò anche la consultazione sulla piattaforma per il contratto che era in scadenza.

Preparammo degli emendamenti sul salario e la riduzione dell’orario di lavoro che furono approvati nelle assemblee dell’Oto Melara, del Cantiere di Muggiano e della Termomeccanica.

Fallirono anche i tentativi di vanificare l’esito del voto.                                                                   

Alla Termomeccanica, per esempio, iniziarono a dire che i lavoratori non avevano capito cosa avevano votato e che molti erano pentiti.

Cercarono anche di raccogliere delle firme su un testo nel quale i lavoratori che 

avevano votato gli emendamenti rinnegavano quel voto.                                                        

Poi il tentativo abortì.                                                                                                                    

Già in altre occasioni le assemblee avevano approvato le nostre proposte di modifica di piattaforme sindacali; tutto però si fermava lì perché poi chi partecipava alle assemblee provinciali e regionali non era intenzionato a sostenere quanto votato. Questa volta però facemmo in modo che dalle assemblee fossimo incaricati a presentare gli emendamenti approvati all’assemblea regionale dei delegati metalmeccanici che si sarebbe tenuta a Genova.                                                

Rispettando quanto deciso dalle assemblee il sindacato ci inserì nella delegazione spezzina; a Genova andai mi sembra assieme a Silvio, a Massimo, a Mario e ad altri compagni che non ricordo.                                            

Naturalmente gli emendamenti si fermarono a Genova ma fu comunque un bel risultato politico essere riusciti a far parte della delegazione spezzina.                                             

Iniziammo allora una riflessione più generale sulle politiche rivendicative e sulla necessità di un lavoro organico non più solo tra i lavoratori e nei Consigli ma anche nelle strutture verticali del sindacato.

Affrontammo peraltro questa riflessione in uno scenario di rinnovata spinta conflittuale da parte dei lavoratori.

Alla Termomeccanica rispondemmo alla stangata governativa di fine anno con uno sciopero rabbioso durante il quale Viale San Bartolomeo venne bloccato ostruendo la carreggiata con tubi per i ponteggi e legname che erano stati prelevati da un vicino cantiere edile.                                  

 

1982 – 1983

La consultazione sulla “piattaforma generale” e l’accordo del 22 gennaio 1983.

Malgrado gli scioperi dell’estate e dell’autunno del 1982, la trattativa per il contratto non si sbloccava perché Confindustria pretendeva un’intesa preliminare sul nodo della scala mobile.

Il sindacato tentò di sfuggire al cul de sac predisponendo una “piattaforma generale” per la trattativa con padroni e Governo nella quale, oltre allo sblocco della trattativa sui contratti, la disponibilità a trattare anche sulla scala mobile era vincolata a un'intesa più complessiva su prezzi, fisco, tariffe, servizi, investimenti, politica industriale.

In cambio però cadeva il tabù e alla faccia di tutto quello che i sindacalisti avevano urlato fino allora, la scala mobile si poteva toccare; nella piattaforma il sindacato si diceva disponibile a ridurre del 10% il valore del punto di contingenza: la breccia era aperta.

Confindustria fece subito sapere che non era sufficiente.

A novembre il sindacato avviò la consultazione sulla piattaforma per la trattativa col Governo e il padronato.

La vicenda aprì un visibile solco tra il Pci e il gruppo dirigente della Cgil.

La piattaforma era il risultato di un compromesso con la Cisl, la Uil e dentro la Cgil con la componente socialista.

Per il Pci, la piattaforma era un’eccessiva concessione alla Cisl e alla Uil (e ai socialisti): la politica di Lama non era in sintonia con il riposizionamento del partito voluto da Berlinguer, anzi ne era all’opposto.

Iniziò così a circolare l’ipotesi di emendare la piattaforma nelle assemblee, ma i vertici dei sindacati (Cgil compresa) risposero picche: nessun emendamento, la piattaforma era prendere o lasciare.

La consultazione iniziò dall’alto verso il basso; prima si riunirono gli organismi regionali poi quelli provinciali del sindacato, e divenne sempre più difficile a mano a mano che si scendeva nella scala “gerarchica”.

Quando poi entrò nel vivo delle assemblee di fabbrica, l’impostazione dei vertici del sindacato non resse alla prova perché ovunque fioccavano i no e i quadri del Pci proponevano gli emendamenti.

Non si trattava di un’autonoma iniziativa; era una precisa indicazione del Partito che non accettava di subire la mediazione fatta tra i gruppi dirigenti del sindacato.

Il contrasto Pci/Cgil era netto tra i rispettivi vertici ma tendeva quasi a sparire a mano a mano che ci si avvicinava alle fabbriche dove nessuno degli attivisti della Cgil, iscritti al Pci, sostenevano la piattaforma nella versione proposta dal sindacato.

Non si è mai saputo come sia veramente andata quella consultazione anche perché non c’era omogeneità nelle votazioni.

In alcune realtà si votò per alzata di mano, in altre a voto segreto, in altre ancora non si votò.

I si alla piattaforma così com’era stata proposta furono davvero pochi; dove la piattaforma passò, fu approvata con gli emendamenti e nonostante questo ci furono anche molti voti contrari.

Visto il successo degli emendamenti (e i tanti no che avrebbero dovuto essere “interpretati”) il Pci si aspettava che la piattaforma fosse corretta.

Dai vertici di Cgil, Cisl e Uil arrivò invece la doccia fredda: la piattaforma era stata approvata, non sarebbe stata modificata e gli emendamenti sarebbero stati considerati solo come dei “contributi”.

Nelle fabbriche i militanti del Pci erano furibondi, avevano sostenuto gli emendamenti scontrandosi anche con tutti quelli che volevano votare no e ora erano stati umiliati e messi alla berlina.

Le posizioni dei sindacati e della Confindustria apparivano inconciliabili e sembrava che si andasse alla rottura delle trattative; il 18 gennaio 1983 in tutto il Paese ci furono grandi manifestazioni per lo sciopero generale dell’industria proclamato da Cgil, Cisl e Uil.

Alla fine il Governo presentò la sua proposta di “mediazione”, prendere o lasciare.

Sindacati e Confindustria accettarono e il 22 gennaio 1983 fu firmato l’accordo che fu chiamato “lodo Scotti”, dal nome dell’allora Ministro del Lavoro che lo aveva proposto.

Quella “mediazione”, in realtà, non era che l’ennesimo regalo ai padroni.

L'accordo del 22 gennaio 1983 sancì la riduzione del 15% del valore del punto di contingenza e stabilì il blocco per un anno e mezzo della contrattazione integrativa, cioè delle piattaforme rivendicative che venivano presentate in ogni fabbrica tra un contratto e l’altro.

Sulla riforma del fisco solo vaghe promesse.

Le assemblee nelle fabbriche furono infuocate e l’accordo collezionò ovunque sonore bocciature.

Accadeva a Spezia

Le assemblee sulla “piattaforma generale” furono molto partecipate.

Alla Termomeccanica venne Giovanni Peri, il segretario regionale della Cgil che era un oratore brillante, sapeva parlare agli operai e ne percepiva gli umori in base ai quali calibrava le sue argomentazioni.

L’assemblea iniziò alle 9 del mattino e finì ben oltre le 12,00 tanto che l’orario della mensa dovette slittare; non era mai accaduto e non accadrà più.

La sala mensa era piena come non mai e dopo l’introduzione di un sindacalista provinciale iniziarono gli interventi dei lavoratori.

Alla fine dell’assemblea la piattaforma sarebbe stata messa ai voti e il nostro obiettivo era di riuscire a raccogliere un consistente numero di voti contrari poiché ritenevamo impossibile che la piattaforma venisse bocciata per via degli emendamenti.

Gli interventi dei militanti del Pci facevano proprie molte delle nostre critiche, però poi le facevano rientrare nell’ambito della piattaforma attraverso quegli emendamenti che a noi, con una lettura un po’ semplicistica della situazione, sembravano solo una presa in giro, un trucco per estorcere il consenso ai lavoratori e per dare via libera alla trattativa sulla scala mobile, come peraltro poi in realtà avvenne.

Quelli della Cisl e della Uil, capita l’antifona, non intervennero nemmeno a sostegno della piattaforma così com’era, cioè senza gli emendamenti, ma lasciarono gestire ai quadri della Cgil tutto il confronto e lo scontro con noi.

A mano a mano che l’assemblea andava avanti, percepivamo che li stavamo mettendo sotto e lo percepivano anche i dirigenti della Cgil tanto che iniziarono a intervenire anche i funzionari che avevano accompagnato Peri.

Quasi alla fine dell’assemblea, prese la parola Florio Morelli, un sindacalista di lungo corso che non ricordo più se allora fosse ancora il segretario provinciale della Fiom o se fosse già passato alla Camera del Lavoro; Morelli terminò il suo intervento con un appello accorato: “Emendate la piattaforma ma votatela!”.

Quando prese la parola Peri che doveva concludere l’assemblea eravamo convinti di avercela fatta e che i no sarebbero stati la maggioranza.

Peri fu abilissimo, non si limitò a confutare punto per punto le nostre argomentazioni ma toccò tutte le corde dei sentimenti, parlò delle umiliazioni degli anni Cinquanta, del coraggio della Cgil che aveva resistito, della riscossa sindacale che aveva ridato dignità agli operai e chiese un voto di fiducia in nome di questa storia.

Concluse assicurando che i lavoratori sarebbero stati informati dell’andamento della trattativa passo dopo passo, che questa volta non ci sarebbero stati accordi sulla loro testa e che in caso di accordo sarebbe venuto lui stesso a tenere l’assemblea per illustrarne i contenuti.

Gli applausi che salutarono la conclusione del suo intervento ci fecero capire che aveva recuperato la situazione.

Venne il momento del voto ma era tardi e quelli che volevano mangiare, in particolare quelli che dovevano uscire alle 14 e che rischiavano di saltare, iniziarono a protestare.

Allora quelli della Cisl e della Uil presero la palla al balzo e proposero che mentre i lavoratori mangiavano, il Consiglio di fabbrica preparasse le schede per il voto.

Era una novità perché fino allora si era sempre votato in assemblea per alzata di mano.

La richiesta di introdurre nelle fabbriche il referendum a voto segreto sulle piattaforme e sugli accordi sindacali era allora uno dei cavalli di battaglia di Cisl e Uil che sostenevano che il voto palese in assemblea era troppo condizionato dalle “minoranze aggressive”, cioè da quelli come noi!

La Cgil era contraria al voto segreto vi vedeva una forma di partecipazione passiva mentre nell’assemblea i lavoratori partecipavano attivamente e si formavano le opinioni.

Noi condividevamo questa posizione e avevamo anche timore che nel referendum a voto segreto fosse decisivo il peso degli operai più arretrati e della massa degli impiegati che era proprio quello che volevano Cisl e Uil.

Però eravamo anche combattuti perché sapevamo che c’erano lavoratori che non avrebbero avuto il coraggio di votare in maniera palese in modo diverso da quanto indicato dal sindacato e dal Partito, invece forse nel voto segreto….

Peri era contrario che si andasse al voto segreto; temeva che si creasse un precedente e tentò l’ultima carta: come si facevano a votare gli emendamenti col voto segreto?

Ma dovette arrendersi alle proteste di quelli che volevano mangiare.

La questione degli emendamenti fu risolta così: i voti favorevoli sarebbero stati considerati dei si alla piattaforma emendata.

Cisl e Uil, che erano formalmente contrarie agli emendamenti, non batterono ciglio.

Fu così che alla Termomeccanica per la prima volta si fece un referendum con il voto segreto.

La partecipazione fu molto alta e il risultato uno schiaffo per il sindacato perché, nonostante il recupero di Peri, la piattaforma emendata fu approvata con soli cinque voti di differenza (mi pare che il referendum finì con 405 no e 410 si).

Inoltre molti lavoratori avevano barrato la casella del si ma subito sotto avevano scritto “con gli emendamenti”, affinché non ci fossero equivoci!

Anche dalle assemblee delle altre fabbriche la piattaforma era uscita malconcia.

Dopo questo precedente, le successive assemblee sull’accordo del 22 gennaio furono un disastro per i sindacalisti che le tennero.

Naturalmente Peri non venne e in molti urlavano in reparto “Dov’è Peri?” e giù una grassa risata.

Non ricordo chi venne all’assemblea alla Termomeccanica, ma non era un personaggio di rilievo, probabilmente la davano già per persa visti i precedenti.

Infatti, l’assemblea fu a senso unico e l’accordo fu sonoramente bocciato.

In un clima reso pesante dall’accordo bidone e dalla stangata del governo di fine anno, in tutte le grandi fabbriche spezzine l’accordo venne respinto.

Il contrasto che si era aperto tra il Pci e la direzione di Lama in Cgil e la bocciatura di massa dell’accordo del 22  gennaio delineavano un cambio di fase che apriva nuovi spazi alla nostra iniziativa che aveva adesso la possibilità di incidere e di pesare concretamente.

Naturalmente sui contenuti, perché dal punto di vista elettorale non c’era storia e il voto operaio restava nella quasi totalità fedele al Pci, anche se settori di avanguardia avevano iniziato a guardare a Dp come ad un possibile referente elettorale.

 

1983

La firma del contratto dei metalmeccanici.

Nasce il Governo Craxi.

I pretesti dei padroni per attaccare la scala mobile e i cedimenti dei sindacati.

L’accordo del 22 gennaio 1983 sbloccò la trattativa per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, ma solo fino a un certo punto perché il padronato continuava a tener duro nonostante la modestia delle rivendicazioni.

Dopo altri scioperi e manifestazioni si arrivò all’accordo.

Come consuetudine, l’accordo per il nuovo contratto venne firmato prima, nell’aprile del 1983, con le aziende rappresentate da Intersind (quelle a Partecipazione statale) e poi, nel settembre dello stesso anno, con quelle private rappresentate da Federmeccanica.

Intanto, nel mese di giugno, c’erano state le elezioni politiche che avevano visto la flessione sia della Dc che del Pci, anche se la perdita di voti del partito di Berlinguer fu molto più contenuta di quella della Democrazia cristiana.

Si era verificata, invece, una consistente avanzata dei partiti laici (Psi, Pri e Psdi) e in questo nuovo scenario politico l’incarico per formare il nuovo governo non venne conferito ad un esponente democristiano.

Nacque così, nell’agosto del 1983, il primo Governo Craxi.

In ultimo, con le elezioni vennero eletti anche alcuni deputati di Democrazia proletaria, assente dal Parlamento della precedente legislatura.

Le tendenze emerse dal voto delle elezioni politiche vennero ulteriormente confermate dalle elezioni amministrative dell’autunno, che videro il recupero della Dc, una nuova affermazione dei partiti laici e un ulteriore calo del Pci.

Mentre la politica del nuovo Governo Craxi, su impulso in particolare del volitivo Presidente del Consiglio, assumeva un netto profilo anticomunista, l’attacco confindustriale alla scala mobile, dopo l’accordo del 22 gennaio 1983, anziché placarsi assumeva toni sempre più bellicosi.

Il padronato aveva trovato una solida sponda politica nel nuovo Governo e degli interlocutori sempre più malleabili in Cisl e Uil.

Gli argomenti dei nemici della scala mobile erano del tutto pretestuosi.
La scala mobile era accusata di alimentare l'inflazione ma era falso per il semplice

fatto che i punti di contingenza scattavano solo post, cioè recuperavano aumenti di prezzi e tariffe che erano già avvenuti.
C'erano poi anche un paio di argomenti che facevano breccia nei sindacati.

Il primo, non del tutto campato in aria, era che la scala mobile era un fattore di

appiattimento dei salari.
Il punto unico di contingenza introdotto con l’accordo del 1975 e gli aumenti salariali uguali per tutti della contrattazione degli anni Settanta avevano ridotto le differenze retributive tra i diversi livelli.

Il cosiddetto appiattimento delle retribuzioni si diceva mortificasse il merito e la professionalità.

Per questo il sindacato era impegnato in operazioni di riparametrazione dei salari, cioè di ricostruzione delle differenze salariali connesse ai diversi livelli d’inquadramento che rispecchiavano le diverse capacità professionali.

Dalla fine degli anni Settanta, per recuperare l'appiattimento dei salari, le piattaforme dei rinnovi contrattuali non proponevano più aumenti uguali per tutti ma un aumento "medio", che per i metalmeccanici era fissato sul 5° livello, da riparametrare poi secondo determinati coefficienti in basso (e quindi i livelli inferiori al 5° prendevano un aumento inferiore a quello medio) e in alto (i livelli superiori al quinto prendevano un aumento maggiore di quello medio).

Inoltre si agì sull'inquadramento professionale con l'istituzione di fatto di nuovi livelli, 5° super per gli operai e 7° super per quadri e tecnici.
Con la 7° super il sindacato provava a recuperare il mondo dei quadri ma era una lotta impari perché il padrone, con gli aumenti al merito e altri incentivi che poteva elargire, riusciva a garantire ai quadri più soldi di quanti non gliene facessero avere i sindacati con gli aumenti riparametrati e con la 7° super.
Di converso nei metalmeccanici veniva mortificato e indebolito il nerbo della categoria e delle lotte perché la maggioranza degli operai a livello nazionale e la quasi totalità di quelli delle grandi fabbriche modellate sull'organizzazione del lavoro di tipo fordista erano inquadrati al 3° livello.
Sicché quando un 3° livello scioperava lo faceva anche per far prendere al quadro di 7° super, che magari faceva il crumiro, un aumento superiore a quello che avrebbe ottenuto lui!
Il secondo argomento al quale i sindacati erano sensibili era che la scala mobile, recuperando automaticamente il potere d’acquisto eroso dal carovita e dall’inflazione, uccidesse la contrattazione salariale.

L’accordo del 22 gennaio 1993 aveva infatti posto le basi per un modello di contrattazione salariale secondo il quale il contratto nazionale avrebbe dovuto assicurare il mantenimento del potere d’acquisto recuperando quanto eroso dall’inflazione mentre la contrattazione aziendale sarebbe servita a redistribuire parzialmente gli utili

derivanti dall’aumento della produttività.
E quindi, per fare spazio alla contrattazione, occorreva indebolire la scala mobile, cioè il meccanismo che garantiva il recupero automatico dei salari!

Accadeva a Spezia

Della lotta per il contratto mi è rimasto impresso un episodio in particolare.

Durante uno sciopero, andammo, come di frequente accadeva, su Viale San Bartolomeo.                                                                                                                           

Anche quella mattina andò in onda la sceneggiata di sempre tra chi voleva solo che il traffico fosse rallentato e chi invece voleva fare un blocco stradale vero e proprio.

E, come sempre, il rallentamento diventò un blocco stradale relativamente flessibile.

Il caso volle che fermassimo un autobus della Marina Militare che trasportava marinai tutti in divisa.

A un certo punto ci accorgemmo che il sottufficiale che era a bordo si era spazientito

si era alzato, era andato dal marinaio che era al volante e gli aveva ordinato di forzare il blocco.

C’era davvero pericolo che qualcuno si facesse male.                                       

Provvidenzialmente, intervennero gli agenti della Digos che in borghese stavano controllando la manifestazione e fecero fermare il bus.                                                                   

A un certo punto, non ho capito bene perché, forse per parlare con gli agenti, la porta del bus si aprì e sulle scalette c’era quel sottufficiale che guardava dall’alto in basso in maniera arrogante.                   

Fu un attimo: partirono in due o tre per tirarlo giù, intervennero quelli della Digos, ci fu un po’ di parapiglia poi la situazione si calmò.                                                     

Per “punizione” decidemmo di prolungare lo sciopero di un quarto d’ora per continuare il blocco e quando lo togliemmo e il bus poté passare, dietro i finestrini diversi marinai, senza farsi vedere dal sottufficiale, ci facevano sorrisi, cenni di approvazione, gesti per dire che quello là era scemo.                       

Uno abbozzò anche un pugno chiuso; allora c’era ancora il servizio di leva.

Non ricordo bene come andarono le assemblee per approvare il contratto ma l’intesa venne approvata senza opposizioni particolarmente dure visto che era chiaro che in quello scenario non c’erano molte possibilità di ottenere di più.

Le contestazioni alla piattaforma generale, la clamorosa bocciatura dell’accordo del 22 gennaio, la parziale ridislocazione della Cgil e la nuova spinta della base operaia del Pci rendevano evidente la necessità di una nuova qualità della nostra iniziativa.

La rottura che si profilava sempre più netta tra Cisl e Uil da una parte e la Cgil dall’altra aveva approfondito la crisi dell’Flm.

L’Flm era sorta nel ciclo delle lotte operaie di fine anni Sessanta/inizio anni Settanta e nelle ambizioni iniziali avrebbe dovuto innescare un processo di superamento delle organizzazioni di categoria – Fiom,  Fim e Uilm – che erano i riferimenti di Cgil, Cisl e  Uil, per arrivare a essere il sindacato unitario di tutti i metalmeccanici.

Ora che la situazione era radicalmente cambiata, il declino dell’Flm, iniziato nella seconda metà degli anni Settanta, stava volgendo al termine e si avvicinava la fine di quell’esperienza che, pur con tante contraddizioni, era il segno dell’unità e della forza della classe in quegli anni.

Molti di noi erano iscritti alla Flm.

Allora le cose funzionavano così: appena entrati in fabbrica, una volta superato il periodo di prova e dopo che la Direzione aveva comunicato con una lettera l’assunzione a tempo indeterminato, veniva il delegato di reparto, ti faceva firmare il foglio per la delega alla trattenuta mensile della quota sindacale e ti consegnava la tessera dell’Flm.

Non c’era granché da discutere; era così, punto e basta.

I casi di neo assunti che rifiutavano la tessera erano rarissimi anche perché molti giovani arrivavano alla fabbrica già “orientati” grazie alle lotte studentesche e al clima del periodo.

Negli anni Settanta vennero assunti nelle fabbriche spezzine centinaia di giovani (il numero complessivo dei metalmeccanici mi pare oscillasse allora tra gli 11 e i 13 mila).

Prima dell’assunzione formale, i giovani che dovevano entrare nelle aziende a partecipazione statale come l’Oto Melara, la Termomeccanica e il Cantiere di Muggiano, frequentavano un corso di formazione di quasi un anno alla ex Caserma Botti a Ruffino intervallato da brevi periodi di stage nei reparti delle aziende.

Nel periodo del corso non era prevista alcuna forma di retribuzione, però potevamo usufruire dell’assistenza sanitaria (eravamo ancora al tempo delle mutue, prima della riforma sanitaria del 1978).

Alla caserma Botti non c’era nemmeno la mensa e dovevamo portarci la gamella da casa; c’erano delle vasche piene d’acqua calda nelle quali immergevamo la gamella prima della pausa pranzo.

Dopo due o tre mesi prendemmo contatto con l’Flm e organizzammo una giornata di sciopero e prima che ne programmassimo altre venne stipulato un accordo tra il sindacato e le aziende grazie al quale ottenemmo pasti gratuiti che erano portati dalla vicina mensa del Cantiere di Muggiano e un’indennità mensile di 30.000 lire (a occhio allora lo stipendio operaio era sulle 200.000 lire).

Una volta assunti era quindi naturale iscriversi al sindacato.

Venivano fatte quasi solo tessere dell’Flm perché la Fiom, la Fim e la Uilm avevano congelato il tesseramento alle loro organizzazioni per dare impulso a quello unitario.

Così, dal 1973 in poi, tutti i nuovi assunti venivano iscritti all’Flm; quando un iscritto all’Flm veniva eletto delegato qualche volta lasciava la tessera unitaria e prendeva quella del sindacato che preferiva.

Oltre al fatto che l’esperienza dell’Flm era entrata definitivamente in crisi, c’era un altro problema che divenne particolarmente importante nel momento in cui la nostra iniziativa non voleva più limitarsi al lavoro di base e nei Consigli.

Gli organismi dirigenti dell’Flm non erano altro che la somma degli omologhi organismi di Fim, Fiom e Uilm.

Per fare un esempio, il Comitato Direttivo dell’Flm era composto dai Direttivi della Fim, della Fiom e della Uilm, sicché per stare nel Direttivo dell’Flm dovevi far parte di uno di questi tre organismi.

Per chi era iscritto alla sola Flm non c’era possibilità di far parte del Direttivo dell’Flm, a meno che non venisse preso in carico da una delle tre organizzazioni di categoria collegate con le Confederazioni!

Conseguentemente la nostra battaglia era confinata a livello di base e nei Consigli ma non poteva arrivare oltre.

In quel periodo, a livello nazionale, in Dp si stava discutendo proprio sulla collocazione dei compagni nel sindacato. 

Ne discutevamo da tempo anche a Spezia ma per la radicalizzazione della base del Pci, per la dialettica che si era aperta nella Cgil e per l’esigenza che ormai sentivamo di tentare di incidere, la scelta era scontata.

Trovammo però in diversi compagni molte resistenze.

Negli anni precedenti alcuni avevano scelto di iscriversi alla Uil e adesso facevano parte degli organismi di questo sindacato.

Non erano convinti di passare alla Cgil ma ormai gli spazi per una battaglia interna alla Uil erano azzerati.

Personalmente non ho mai condiviso questo “innamoramento” per la Uil che era nato negli anni del compromesso storico e dell’unità nazionale.

In quel periodo la Uil, in sintonia con il nuovo corso impresso da Craxi al Psi che in una prima fase faceva l’occhiolino a sinistra in funzione anti Pci, tentava di accreditarsi come sindacato moderno, libero da condizionamenti di partito, aperto alle istanze dei movimenti e del mondo giovanile.

Molti si convinsero anche perché a Spezia l’ingresso nella Uil di compagni provenienti dalla sinistra extraparlamentare era gestito da Paolo Tusini, un carrarese che era stato fino a poco prima un dirigente di livello nazionale di Avanguardia operaia, organizzazione dalla quale era uscito per aderire in un primo tempo al Pdup; in seguito Tusini si avvicinò al Psi.

Non fui mai tentato dalla Uilm nemmeno quando Tusini ne divenne segretario provinciale perché, anche nei momenti di più acuto conflitto con la politica del Pci, sono sempre stato convinto che qualsiasi prospettiva per la sinistra di classe passasse per l’incontro con gli operai del Pci e della Cgil.

Del resto, a differenza di tanti altri compagni, ho sempre vissuto la mia militanza nelle file della sinistra rivoluzionaria come una sorta di “continuità” critica con il movimento comunista italiano e internazionale.

Formalizzammo la nostra adesione alla Cgil in un incontro pubblico al quale parteciparono Fulvio Ichestre, che allora era il Segretario della Camera del Lavoro, e Sandro Barzaghi, un compagno milanese dirigente di Dp che faceva anche parte del Direttivo Nazionale della Cgil e che coordinava nazionalmente il passaggio alla Cgil dei lavoratori di Dp.

Con la decisione di aderire alla Cgil e con le presenze negli organismi provinciali confederali e di categoria che erano state concordate, Spezia era diventata una delle realtà nella quale il processo era più avanzato.

A livello nazionale la componente di Democrazia Consiliare nella Cgil si costituì formalmente solo più di un anno dopo.

Con questa scelta, pur nelle differenze talvolta anche molto forti, i rapporti con i quadri della Cgil migliorarono sensibilmente e caddero anche molte diffidenze nella base operaia del Pci.

                                        

1983 – 1984

Lo scontro sui decimali di punto.

Il movimento dei Consigli di fabbrica autoconvocati.

Poco dopo la firma dell’accordo del 22 gennaio 1983, Confindustria aprì lo scontro su come interpretarlo.

Confindustria sosteneva che dovevano essere pagati solo i punti di contingenza “pieni” e che i decimali sarebbero andati persi, mentre il sindacato diceva che i decimali sarebbero stati accantonati e pagati quando messi tutti insieme avrebbero raggiunto il valore del punto pieno.

Nelle assemblee i sindacati furono accusati di non sapere nemmeno cosa avevano firmato.

In realtà la posizione di Confindustria era del tutto pretestuosa ma a farla recedere non ci riuscì nemmeno il Governo che, per bocca del Ministro Scotti, “interpretò” l’accordo in maniera simile a quella dei sindacati.

La diatriba valeva uno o due punti di contingenza l’anno.

Si aprì un nuovo scontro, i padroni tenevano duro: i decimali non si pagano, punto e basta.

Il loro obiettivo, in realtà, era riaprire di nuovo le trattative per colpire ancora la scala mobile.

In un clima di rabbia e di sfiducia, ci fu una nuova ondata di scioperi per ottenere il pagamento dei decimali che culminò a maggio in un nuovo sciopero generale di tutta l’industria.

La situazione era paradossale: bisognava scioperare per difendere la “corretta interpretazione” di un accordo che era stato bocciato dai lavoratori!

(In un attivo dei delegati delle fabbriche spezzine, un delegato della Cisl ce lo fece ironicamente notare: “Accusate il sindacato di arretrare ma anche voi arretrate sempre e ogni volta difendete gli accordi che avete bocciato e che nel frattempo sono diventati buoni anche per voi. Siete in contraddizione!”).

In autunno i padroni rilanciarono: non solo non avrebbero pagato i decimali ma chiedevano la riapertura delle trattative per nuove modifiche alla scala mobile.

Cisl e Uil erano più che disponibili a trattare; la Cgil, premuta dal Pci, lanciava segnali d’intransigenza ma non c’era da fidarsi, visti i precedenti.

Se i sindacati non volevano perdere la faccia definitivamente, prima di iniziare una nuova trattativa con Confindustria, dovevano risolvere la questione dei decimali.

Il Governo intervenne su Confindustria proponendo il pagamento dei decimali in cambio, subito dopo, di una nuova trattativa sulla scala mobile.

Confindustria accettò, pagò uno o due punti di contingenza (quelli derivanti dalla somma dei decimali scattati nel 1983), ma precisò che l’interpretazione corretta dell’accordo del 22 gennaio 1983 era la sua e che l’anno successivo i decimali non sarebbero più stati pagati.

Iniziarono i primi incontri Governo, sindacati e Confindustria mentre nelle fabbriche saliva l’esasperazione e, in particolare nel Nord, emergeva un nuovo soggetto: il movimento dei Consigli di fabbrica autoconvocati.

Partito in sordina da dieci Consigli di fabbrica milanesi, il movimento si era esteso a tutto il Nord Italia e coinvolgeva ormai centinaia di Consigli e migliaia di delegati che, indipendentemente dal sindacato al quale erano iscritti, si collegavano tra fabbrica e fabbrica, preparavano ordini del giorno e documenti, chiedevano la rottura delle trattative, organizzavano scioperi e manifestazioni in difesa della scala mobile.

Il movimento dei Consigli poteva contare su un certo sostegno in taluni limitati e ben precisi settori delle organizzazioni sindacali quali ad esempio la Fiom di Brescia e la Fim di Milano.

Cisl e Uil erano invece decisamente ostili mentre l’atteggiamento della Cgil era contradditorio ed oscillante.

Il movimento degli autoconvocati parlava esplicitamente dell’esistenza di “due sindacati”: quello delle burocrazie degli apparati delle Confederazioni e quello della partecipazione e del protagonismo dei lavoratori che era rappresentato dai Consigli.

Il movimento non si poneva in alternativa alle organizzazioni sindacali ma intendeva partire dal basso per scardinare il potere delle burocrazie.

L'elaborazione degli autoconvocati, partita quindi dalla questione della democrazia sindacale e della difesa della scala mobile, finiva per traguardare una vera e propria rifondazione democratica e classista del sindacalismo italiano.

In quei mesi del 1984, dentro lo scontro sul Decreto di San Valentino, si giocò anche lo scontro tra i “due sindacati” dei quali parlavano gli autoconvocati.

Questo scontro s’intrecciò, si sovrappose e fu anche offuscato da quello che oppose Cisl e Uil alla maggioranza della Cgil.

Ma fu una cosa diversa.

Il Movimento dei Consigli venne sconfitto.

Gli autoconvocati furono il canto del cigno di quel sindacato dei Consigli che tanta parte aveva avuto negli anni Settanta.

Accadeva a Spezia

 Alla Spezia l’esperienza dei Consigli di fabbrica era condizionata dai caratteri del tessuto industriale locale e dalle peculiarità del territorio.

Nelle nostre fabbriche, tranne che alla San Giorgio, non si facevano produzioni di serie, l’organizzazione del lavoro non era fordista e la figura operaia maggioritaria era quella dell’operaio professionalizzato; non c’era dunque l’operaio-massa che era il protagonista del conflitto di classe nelle fabbriche del fordismo.  

I comportamenti della classe operaia spezzina erano dunque più “tradizionali” rispetto a quelli degli operai di linea.

La seconda specificità, connessa con la prima, stava nel fortissimo radicamento del Pci nel territorio e nei luoghi di lavoro e nello stretto rapporto tra la Cgil (e la Fiom) e il Partito.

Queste specificità condizionarono fortemente l’esperienza dei Consigli delle fabbriche spezzine che difficilmente riuscivano a esprimere i livelli di autonomia che li caratterizzavano in altre realtà industriali.

Per quanto ci sforzassimo di costruire anche a Spezia il Movimento dei Consigli autoconvocati, non ci riuscimmo mai.

Nelle settimane cruciali che precedettero il decreto di San Valentino, riuscimmo solo a diffondere nei luoghi di lavoro i documenti e i volantini del Coordinamento nazionale dei Consigli autoconvocati ma non riuscimmo a costruire una vera esperienza di movimento dal basso che si muovesse in maniera autonoma anche dalla Cgil.

Andammo però a un paio d’incontri nazionali dei delegati dei Consigli autoconvocati e per parteciparvi usufruimmo dei permessi sindacali coperti dalla Fiom.

In altri tempi ci sarebbero stati negati; anche questo era un segnale che anticipava quanto sarebbe poi accaduto.

Segnali che andavano nella stessa direzione arrivavano anche dai delegati della Cgil iscritti al Pci; pochi giorni prima di San Valentino, uno di loro mi disse di una riunione che avevano fatto nella quale si erano detti che questa volta non potevano cedere.

Il segnale più forte venne proprio a ridosso della notte di San Valentino; c’era un incontro nazionale degli autoconvocati ed ero andato in Consiglio di fabbrica per il permesso sindacale, il coordinatore disse: “Questa volta veniamo anche noi”.

Alla riunione andammo con il pulmino della Camera del Lavoro; la benzina, oltre al mezzo, ce la metteva la Cgil!

Però, viste le esperienze precedenti, ero assai scettico ed ero convinto che alla fine, se ci sarebbe stato l’accordo-bidone, l’avrebbero ingoiato, come sempre.

Invece mi sbagliavo.

 

Febbraio 1984

Il decreto di San Valentino, la rottura tra i sindacati e la risposta dei lavoratori.

Nelle settimane che precedettero il decreto di San Valentino il clima nelle fabbriche divenne molto teso.

La tensione era accentuata anche dall’intreccio con le crisi che colpivano molte grandi fabbriche nelle quali erano iniziati pesanti processi di ristrutturazione.

Erano coinvolti interi territori ed anche il tessuto industriale ligure (genovese in particolare; a Spezia l’attacco arrivò più tardi) era finito sotto tiro.

Dopo una manifestazione regionale a Riva Trigoso a sostegno degli operai della Fit che avevano occupato la fabbrica, a dicembre fu proclamato lo sciopero generale di tutta l’industria ligure e si tennero affollate manifestazioni nei capoluoghi di provincia.

In Piazza De Ferrari, a Genova, andò a parlare Benvenuto che fu duramente contestato (ricordo di aver visto la fotografia di uno stupendo cartello portato dagli operai: la caricatura di Craxi che tiene in braccio un neonato in fasce con la faccia di Benvenuto e lo passa al Presidente di Confindustria Merloni e sotto la scritta “Craxi porge il benvenuto a Merloni”).

Per dare sfogo alla pressione della base, il sindacato rispolverò nuovamente la carta della riforma fiscale e furono programmati scioperi e manifestazioni con questo obiettivo.

Però, dopo l’accordo del 22 gennaio 1983, la carta della riforma fiscale era frusta e non incantò quasi nessuno.

Poi toccò ad Agostino Marianetti, anche lui socialista e segretario nazionale aggiunto della Cgil, in pratica il n. 2 dopo Lama; fu costretto dai fischi e dalle uova a interrompere il suo comizio a Bologna.

La protesta operaia dilagava e il Movimento dei Consigli di fabbrica autoconvocati, partito da Milano, si diffondeva in tutto il Nord.

La Cgil, con molte incertezze, sosteneva gli scioperi, Cisl e Uil si dissociavano apertamente.

Il Governo - Ministro del Lavoro era Gianni De Michelis, personaggio che ben rappresentava il nuovo corso craxiano – propose ai sindacati un Protocollo d’intesa in base al quale i salari avrebbero beneficiato solo parzialmente dei dodici punti di contingenza che si prevedeva sarebbero scattati nel 1984 perché quattro di questi non sarebbero stati pagati.

Il 13 e il 14 febbraio, contro il Protocollo proposto dal Governo, ci furono in tutto il Nord Italia grandi scioperi promossi dai Consigli autoconvocati che portarono in piazza decine di migliaia di operai.

La situazione precipitò la notte del 14 febbraio 1984, il giorno di San Valentino,  quando Cisl e Uil accettarono di sottoscrivere il Protocollo proposto dal Governo.

Lama, segretario della Cgil, inizialmente titubante decise di non firmare anche per le pressioni del Pci.

Il Governo allora ritirò il Protocollo d’intesa e lo trasformò in un decreto.
La mattina dopo tutta Italia si fermò per uno sciopero generale spontaneo che in realtà era stato organizzato nella notte dalle strutture della Cgil e del Pci e dai Consigli di fabbrica autoconvocati.

Accadeva a Spezia

Le prime notizie su quanto stava accadendo vennero dal telegiornale delle 22,00 ma erano molto confuse e non si riusciva ancora a capire bene il casino che stava succedendo con il rifiuto della Cgil a sottoscrivere l’accordo.

Che si trattasse di un’altra fregatura per i lavoratori questo l’avevo capito, ma non bisognava essere particolarmente acuti per rendersene conto.

La mattina dopo, come sempre, avevo preso il treno per andare a lavorare e sul giornale che sfogliavo durante il viaggio per vedere di capirci qualcosa di più non mi pare ci fossero notizie precise, forse a causa dell’orario di chiusura delle tipografie.

Scesi come tutte le mattine alla stazione di Cà di Boschetti e di lì, come sempre, mi avviai a piedi verso la Termomeccanica.

Dopo il cimitero e dopo essere passati sotto il ponte dell’autostrada, Via del Molo, dove c’era l’entrata della fabbrica, é un po’ in discesa, sicché si riusciva a vedere che c’era un certo assembramento davanti alla portineria.

 Gli operai del primo turno erano regolarmente entrati alle sei, ma non avevano nemmeno iniziato a lavorare, alla sette erano usciti e bloccavano l’entrata della fabbrica.

Il blocco serviva a tener fuori gli impiegati che entravano alle otto ed erano i più restii.

Io e gli altri entrammo solo per andare agli spogliatoi a posare il cambio di biancheria per dopo la doccia a fine giornata, non timbrammo il cartellino, uscimmo e ci unimmo al blocco.

Gli impiegati e quei pochi di Cisl e Uil che non volevano scioperare stavano distanti e gironzolavano lì attorno in attesa che il blocco si allentasse.

Qualcuno di loro fece finta di andare via, poi quando partì il corteo ne approfittò per entrare, scioperarono però quasi tutti.

Tutte le fabbriche erano nel corteo e sotto la sede della Cisl partì il coro: “Venduti, venduti”; in piazza c’erano anche tanti della Cisl e della Uil.

 

 

1984

I Consigli di fabbrica di fronte al bivio.

L’ostruzionismo parlamentare e i limiti della svolta del Pci.

Le due facce della manifestazione del 24 marzo 1984.

Il movimento degli autoconvocati, un’occasione mancata per rifondare il sindacato unitario, democratico e di classe.

La Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil era sfasciata e Cisl e Uil reagirono alla protesta operaia facendo saltare l'intesa sindacale sui Consigli di fabbrica.

I Consigli di fabbrica, appellativo che richiamava l’organizzazione operaia del Biennio rosso del 1919-1920, si erano affermati sull’onda delle lotte dell’autunno caldo del 1969 e in breve tempo avevano soppiantato le Commissioni interne, le tradizionali strutture sindacali di fabbrica.

Le Commissioni interne venivano elette dai lavoratori che potevano votare una delle diverse liste presentate da ognuna delle organizzazioni sindacali che sceglievano anche i candidati da proporre.

Invece i delegati del Consiglio di fabbrica, che venivano eletti in ogni reparto o gruppo lavorativo omogeneo, non erano proposti da liste preconfezionate; ognuno poteva candidarsi liberamente perché tutti i lavoratori erano elettori ed eleggibili.

Se la Commissione interna era la rappresentanza in azienda delle organizzazioni sindacali, i Consigli di fabbrica erano in primo luogo la rappresentanza diretta dei lavoratori che lo avevano eletto.

Oltre a questa investitura “dal basso”, c’era poi anche l’investitura “dall’alto” perché Cgil, Cisl e Uil li avevano riconosciuto i Consigli come proprie rappresentanze nelle aziende.

Dopo la rottura di San Valentino, tutti i Consigli di fabbrica furono delegittimati perché Cisl e Uil, con lettere formali inviate alle Direzioni aziendali, li avevano disconosciuti.
Al padronato non sembrava vero toglierli di mezzo.

Il Consiglio era lo strumento del “potere” dei lavoratori; per più di un decennio, il potere operaio in fabbrica è stato una realtà e nei reparti c’era una competizione quotidiana per il “potere” tra il delegato eletto dai lavoratori e la gerarchia del comando padronale.

Confindustria non ha mai riconosciuto formalmente i Consigli di fabbrica ed ha sempre riconosciuto solo le Rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) di Cgil, Cisl e Uil; le aziende trattavano col Consiglio di fabbrica perché dietro ai Consigli c’era la forza unitaria dei lavoratori e perché Cgil, Cisl e Uil riconoscevano i Consigli come proprie

rappresentanze aziendali.
La mossa di Cisl e Uil fece saltare il sistema della rappresentanza in fabbrica: Cisl e Uil indicarono alle Direzioni i propri rappresentanti nelle aziende che non erano stati votati nemmeno dagli iscritti a quei sindacati e che venivano nominati d’ufficio dalle Segreterie provinciali.

Nell’immediato la Cgil invece coprì quel che restava dei Consigli riconoscendolo come propria rappresentanza aziendale.

La situazione, vista col senno di poi, era chiara: o il Movimento dei Consigli produceva un salto di qualità nella sua elaborazione e nella sua iniziativa oppure non solo era destinato a rifluire ma la stessa esperienza dei Consigli di fabbrica si sarebbe avviata verso un tramonto inevitabile.

Imprimere il salto di qualità necessario all’azione del Movimento dei Consigli era molto difficile per via dello scenario confuso, dei limiti insiti nel movimento stesso, della debolezza di riferimenti strutturati nella Cgil e della dimensione troppo gracile di Dp, che era il solo partito che sosteneva il Movimento con nettezza e, a differenza del Pci, senza alcuna ambiguità.

Un paio d'anni dopo, Cgil, Cisl e Uil si accorderanno per un nuovo sistema di rappre

sentanza aziendale, le Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu).
Non erano la stessa cosa dei Consigli di fabbrica perché, anche se votavano tutti i lavoratori, non c'era una lista unica aperta a tutti quelli che volevano candidarsi ma c’erano le liste di Cgil, Cisl e Uil e per essere candidato bisognava essere proposto da una delle tre organizzazioni.

Di fronte all’accordo di San Valentino la Cgil, che pure non lo aveva firmato, si divise.
La geografia interna della Cgil era allora articolata sulla base delle componenti di partito ed era governata secondo un patto che prevedeva che gli organismi dirigenti a ogni livello fossero formati sulla base di percentuali predefinite spettanti a ogni componente.
C'era la componente legata al Pci che era quella maggioritaria, alla quale spettava esprimere il segretario generale (Lama), e quella del Psi che esprimeva il vicesegretario (prima Agostino Marianetti, poi Ottaviano Del Turco).

Infine c’era la cosiddetta Terza componente, composta da sindacalisti indipendenti che avevano la pretesa di rappresentare anche quella sinistra operaia che, non riconoscendosi per nulla nelle loro pratiche subalterne, pochi mesi dopo la vicenda del decreto darà vita alla nuova componente di Democrazia consiliare.

L'impatto sulla Cgil del decreto di San Valentino fu assai pesante perché la componente socialista si schierò dalla parte del governo e si dissociò dagli scioperi sostenuti dalla maggioranza della Cgil.

Il decreto varato dal Governo doveva essere tradotto in legge e approvato dal Parlamento.
La discussione alle Camere fu estenuante, perché i parlamentari del Pci e la pattuglia di quelli di Dp attuarono l'ostruzionismo che con i regolamenti di allora consentiva quasi di bloccare i lavori parlamentari.

Per questa ragione le Camere non riuscirono ad approvare il decreto entro i sessanta giorni previsti dall’art. 77 della Costituzione.

Così il decreto decadde e il Governo riuscì a farlo approvare solo dopo averlo riproposto; peraltro questa seconda versione del decreto diminuiva i punti di scala mobile da tagliare nel corso dell’anno che da quattro diventarono tre.

La discussione parlamentare fu accompagnata da un’ondata di scioperi e il movimento sfociò in un'imponente manifestazione nazionale di un milione di lavoratori che sfilò il 24 marzo 1984 per le vie di Roma.

La manifestazione del 24 marzo fu uno snodo importante del confronto tra i “due sindacati”.

La mattina del 6 aprile si riunì l’assemblea nazionale dei Consigli di fabbrica autoconvocati, venne deciso lo sciopero generale e una grande manifestazione da tenersi a Roma il 24 marzo.

Lo stesso 6 aprile la Segreteria nazionale della Cgil decise anch’essa lo sciopero generale per il 24 marzo con manifestazione nazionale a Roma!

Le due iniziative non potevano sovrapporsi e dunque inevitabilmente quella indetta dai Consigli venne assorbita nell’ambito dello sciopero generale e della manifestazione promossi dalla Cgil.

La manifestazione del 24 marzo a Roma ebbe dunque un duplice significato: fu una riuscita prova di forza nei confronti del Governo e di Cisl e Uil ma segnò anche un ridimensionamento del peso dei Consigli autoconvocati che avevano ceduto le redini al gruppo dirigente della Cgil.

La manifestazione di Roma fu un grande evento che in un certo senso coprì le difficoltà crescenti che il movimento incontrava nei luoghi di lavoro e nei territori.

Infatti, dopo le imponenti e rabbiose manifestazioni dei giorni immediatamente successivi al decreto, la disponibilità alla lotta di vasti settori di lavoratori iniziava ad affievolirsi.

Pesava l’intransigenza del Governo che mandava a dire: “Fate tutti gli scioperi che volete ma noi andiamo avanti”.

“Se è così – pensavano in molti - non serve a niente perdere ore e ore di salario in scioperi inutili. Meglio affidarsi al Pci che in Parlamento farà il possibile per far cadere il decreto”.

Al grosso dei dirigenti della Cgil non sembrava vero di tirare un po’ il freno.

Il declino del movimento però incontrò resistenze non solo nei settori di classe collocati alla sinistra del Pci ma anche in parte del quadro operaio del Pci impegnato nel Movimento degli autoconvocati.

Ci trovammo così per la prima volta a condividere una battaglia con una frazione di minoranza del Pci che andava aggregandosi su posizioni di classe e che intendeva riaffermare l’identità del partito.

Il Pci di Berlinguer si era riposizionato sul piano sociale con la battaglia contro il decreto e su quello politico con l’abbandono della linea del compromesso storico e la proposta di un’alternativa democratica all’egemonia della Dc.

 Sul piano però del profilo ideale e identitario era nel pieno di quel processo di “mutazione genetica” che troverà poi il suo approdo nel 1991 con l’abbandono del nome e del simbolo e la nascita del Pds, antesignano dell’attuale Pd.

I compagni che intendevano contrastare la mutazione genetica del partito, venivano chiamati “cossuttiani” perché avevano trovato in Armando Cossutta il loro punto di riferimento, ma erano in realtà un’area molto articolata come si vedrà nelle successive vicende di Rifondazione comunista.

Accadeva a Spezia

Nei giorni immediatamente successivi all’accordo di San Valentino continuarono gli scioperi e le assemblee organizzati solo dalla Cgil.

Quasi subito si pose il problema di come continuare, visto che non si poteva andare avanti con scioperi quotidiani, anche perché il Governo teneva duro e il movimento di protesta, passata la rabbia iniziale, tendeva ad affievolirsi.

Non si trattava però solo del normale allentamento della tensione; cominciavano a pesare il recupero di Cisl e Uil e la formidabile campagna mediatica a favore del decreto e contro la Cgil e il Pci.

Tutta la grande stampa era dalla parte di Craxi e il movimento di lotta era bollato come “conservatore” e nemico della “modernizzazione” del Paese.

Se nei giorni immediatamente successivi all’accordo nelle fabbriche spezzine molti della Cisl e della Uil aderivano agli scioperi, trascorso un po’ di tempo la situazione cambiò.

I gruppi dirigenti di Cisl e Uil seppero gestire un recupero che all’inizio appariva molto difficile.

Con la disdetta dell’accordo sui Consigli di fabbrica e con la nomina delle Rsa, Cisl e Uil avevano recuperato quasi tutti quei delegati loro iscritti che erano stati in un primo momento titubanti o che addirittura avevano partecipato agli scioperi.

Conosco personalmente un operaio che allora era delegato della Cisl che durante la manifestazione della mattina dopo la notte di San Valentino era tra i più scatenati sotto la sede della Cisl e che, una ventina di giorni dopo, si dimise dal Consiglio di fabbrica e fu designato rappresentante della Cisl in azienda!

Il ricompattamento della Cisl e della Uil nelle aziende fu la premessa per il recupero di tutti quegli iscritti che in un primo momento avevano seguito la Cgil.

E il corpo degli iscritti a questi sindacati si saldò con il ventre molle dei ruffiani, dei moderati, dei perbenisti che c’era in ogni luogo di lavoro.

Cominciavano insomma a palesarsi delle difficoltà che almeno, per quanto riguarda la Termomeccanica, erano molto forti tra gli impiegati tanto che in occasione di alcuni scioperi dovemmo fare i biscioni negli uffici per farli uscire.

Il Consiglio di fabbrica della Termomeccanica - che dopo le dimissioni dei delegati della Cisl e della Uil era un monocolore Cgil - organizzò una serie di assemblee di reparto e di ufficio; ma tra gli impiegati la partecipazione fu scarsa.

Nella Cgil locale poi iniziò la ricucitura con la componente socialista che allora non ricordo bene se fosse rappresentata ancora da Andrea Squadroni nella Segreteria della Camera del lavoro e da Agostino Montedoro nella Fiom.

Noi continuavamo invece a diffondere documenti e volantini degli autoconvocati e proponevamo che la battaglia parlamentare fosse affiancata da nuovi scioperi e manifestazioni.

Fu in quel periodo tra l’altro che conobbi Aldo Lombardi.

Lui lavorava fuori Spezia, mi sembra nella Centrale Enel di Lodi, e partecipava al Movimento milanese degli autoconvocati.

A Milano erano stati stampati dei volantini da diffondere e, non potendo andare a ritirarli, mi dissero che li avrebbe portati un compagno di Spezia che lavorava là e nei fine settimana tornava a casa.

Andai alla Stazione di Spezia ad aspettare questo compagno che non conoscevo e che effettivamente portò i volantini; quel compagno era Aldo.

Aldo era iscritto al Pci e partecipava all’esperienza del Circolo milanese “Concetto Marchesi” che, pur con proprie originali posizioni, gravitava allora nell’area che faceva riferimento a Cossutta.  

Anche a Spezia i “cossuttiani”, su impulso di Aldo Lombardi e di Alberto Schiavi si erano organizzati, avevano promosso un circolo politico-culturale e quando Cossutta sarà estromesso dalla Direzione del Partito, daranno battaglia nella Federazione spezzina raccogliendo molte firme di protesta tra gli iscritti al Pci e provocando l’intervento di Massimo D’Alema.  

Nel gruppo dei “cossuttiani” spezzini c’erano alcuni giovani operai che mordevano il freno e uno di loro si presentò come “indipendente” nelle liste di Dp per le elezioni amministrative.

Nel 1991 questi compagni non aderirono a Rifondazione Comunista per la profonda sfiducia che avevano maturato in Cossutta e nella sua componente.

 

1984 – 1985

Il Pci promuove il referendum abrogativo.

La morte di Berlinguer e la sconfitta del referendum.

Dopo l’approvazione parlamentare della legge che aveva tagliato i punti di scala mobile, nel Movimento dei Consigli autoconvocati stava maturando l’orientamento di promuovere un referendum per abrogare quella legge.

Anche Democrazia proletaria era dell’opinione che il referendum dovesse essere promosso dal Movimento dei Consigli piuttosto che dai partiti che si erano opposti al decreto che avrebbero dovuto invece sostenere l’iniziativa degli autoconvocati.

Il Movimento dei Consigli autoconvocati, promuovendo il referendum, avrebbe avuto una formidabile occasione di rilancio e la battaglia per scardinare il potere delle burocrazie nelle organizzazioni sindacali avrebbe ripreso forza.

Ciò non accadde perché il Pci volle invece promuovere il referendum in prima persona e da solo.

Questa scelta, così come del resto la dura opposizione al Governo Craxi, fu imposta da Berlinguer a un gruppo dirigente in larga parte titubante e fu fatta ingoiare all’apparato della Cgil, Lama in testa, che voleva chiudere in fretta la rottura con la

componente socialista e ricucire con Cisl e Uil.
La lotta contro il decreto si intrecciò poi con la campagna elettorale per le elezioni europee indette per metà giugno 1984.
A Padova, durante un comizio elettorale, Berlinguer fu colto da un malore e morì.

Alle elezioni europee, che si tennero poco dopo, successe quello che non era accaduto nemmeno negli anni Settanta: il Pci conquistò oltre il 33% dei voti, superò la Dc e divenne il primo partito italiano!

Non era solo il frutto dell’emozione per la morte di Berlinguer; era anche il segno di una ritrovata fiducia dell'elettorato operaio e popolare.

Dp, nonostante l’impegno nella lotta contro il decreto, riuscì solo a confermare i voti ottenuti nelle elezioni politiche del 1983 ed elesse un solo deputato per il Parlamento di Strasburgo.

Il risultato non era particolarmente entusiasmante tuttavia, a un’analisi più attenta,  non si trattava per nulla di un risultato disprezzabile perché era stato ottenuto nel momento di massimo recupero a sinistra del Pci; ciò voleva dire che a sinistra del Pci c’era comunque uno spazio elettorale, piccolo ma ormai consolidato.

E' difficile dire cosa sarebbe successo se quel giorno a Padova Berlinguer non fosse

stato colto da un malore mortale.
Il Segretario del Pci, che pure nella seconda metà degli anni Settanta era stato l'artefice del compromesso storico e della sciagurata esperienza dell'unità nazionale, aveva preso atto del fallimento di quelle politiche ed era impegnato in un difficile tentativo di riposizionare il partito.
Questo tentativo, iniziato con il comizio ai cancelli di Mirafiori nell'autunno del 1980, era poi proseguito con la battaglia contro l'istallazione dei missili americani nella base di Comiso.
Berlinguer aveva poi individuato nella questione morale una delle emergenze del Paese e aveva capito tutto il portato negativo del craxismo, la sua spregiudicatezza, l'uso disinvolto delle istituzioni, la propensione al guadagno illecito e alla corruzione.
A tutto questo contrapponeva la "diversità" del Pci.
Lo scontro con Craxi fu frontale e tutti gli argomenti del conflitto si cristallizzarono nella battaglia contro il decreto.

Il gruppo dirigente della Cgil era contrario al referendum che era un ostacolo al ritorno alla “normalità”.

Del Movimento dei Consigli autoconvocati, espropriato anche dalla gestione dell’iniziativa referendaria, dopo qualche mese dalle grandi lotte contro il decreto restava sempre più solo il ricordo.

Lo scenario sindacale era radicalmente cambiato e finalmente, nell’autunno del 1984, si arrivò alla formale costituzione di una componente organizzata nella Cgil nella quale si ritrovarono molti dei protagonisti delle lotte dei mesi precedenti, militanti di Dp e tanti compagni che non avevano alcun punto di riferimento nel sindacato.

Il nome scelto per la componente fu Democrazia consiliare ed esprimeva bene il legame politico ed ideale con l’esperienza degli autoconvocati.

Democrazia consiliare però nacque con almeno un anno di ritardo anche se è difficile dire come sarebbero andate le cose se nel pieno delle lotte e del confronto tra i “due sindacati” il Movimento dei Consigli avesse trovato nella Cgil un sostegno coerente nella nuova componente.

La notizia della costituzione di Democrazia consiliare nella Cgil venne data al secondo posto nel sommario del Tg della sera che parlò di duemila delegati e quadri sindacali presenti alla fondazione della nuova componente.

Democrazia Consiliare, che negli anni successivi sarà protagonista di importanti battaglie nella Cgil, confluirà poi nel 1991 in Essere sindacato, una nuova e più ampia aggregazione di sinistra nella Cgil.

Subito dopo la morte di Berlinguer, tutti quei dirigenti del Pci che avevano subito la svolta (erano la maggioranza; Berlinguer era di fatto un segretario di minoranza che reggeva grazie all'empatia col corpo del partito e con gli elettori) rialzarono la testa.
Gli effetti si videro già nella campagna per la raccolta delle firme per il referendum che invece che essere l'occasione per un'ampia mobilitazione avvenne in maniera molto sobria: nessun banchetto davanti alle fabbriche, quasi nessun banchetto nelle strade, le firme vennero raccolte praticamente solo alle Feste dell’Unità.

Nel giugno del 1985 si votò per il referendum.

A urne chiuse e un attimo prima dell'inizio dello spoglio ci fu una provocatoria conferenza stampa del Presidente di Confindustria che era allora Luigi Lucchini, re bresciano dell’acciaio.

Nella conferenza stampa Lucchini disse che anche se al referendum avesse vinto il si all’abrogazione della legge che aveva recepito il decreto di San Valentino, gli industriali non avrebbero pagato i punti di contingenza che erano stati tagliati.
Il risultato del referendum fu pessimo: il 54% degli elettori votò contro l’abrogazione della legge e, di fatto, a favore del taglio della scala mobile.

Su questo risultato ha indubbiamente pesato lo scarso impegno nella campagna elettorale del Pci e l’assenza della Cgil ma sarebbe semplicistico ridurre tutto a questo.
Il Si all'abrogazione della legge taglia-scala mobile era stato pesantemente sconfitto nel Nord e nei centri industriali, cioè proprio laddove c’erano le più forti concentrazioni operaie ed era esploso il movimento dei Consigli autoconvocati!

L’esito di quel referendum era la fotografia di un Paese nel quale ampi processi di ristrutturazione ne stavano ridisegnando l’intero sistema produttivo e modificavano nel profondo l’assetto della classe, la sua composizione, il suo rapporto con la “politica”: era la base dalla quale era decollata la restaurazione dell’egemonia “ideologica” delle classi dominanti che era stata incrinata dalle lotte degli anni Settanta.

Era finita un'epoca e ne cominciava un'altra, quella del craxismo che avrebbe plasmato il Paese e avrebbe allevato il berlusconismo.  

Accadeva a Spezia

A Spezia, Dp e i compagni che erano stati in prima fila nelle lotte contro il decreto furono del tutto estromessi dalla raccolta di firme per il referendum.

Malgrado Dp avesse formalmente aderito al referendum promosso dal Pci, non riuscimmo ad avere nemmeno un modulo per organizzare un banchetto.

Ricordo che, per firmare, andai alla Festa dell’Unità.

A Spezia i Si all’abrogazione della legge taglia scala mobile avevano prevalso con quasi il 52% ma in Liguria aveva vinto il No, anche a Genova.

La nascita della componente di Democrazia Consiliare a livello nazionale era la conferma della scelta di aderire alla Cgil che avevamo compiuto dopo l’accordo del 22 gennaio 1983.

Finalmente il nostro impegno nella Cgil poteva collegarsi a una presenza organizzata a livello nazionale.

Anzi, dopo le lotte contro il decreto e con la nascita di Democrazia Consiliare la nostra iniziativa nel sindacato spezzino acquistava maggior visibilità e forza come si vide subito nell’assemblea di costituzione della componente a Spezia che, presente Giampaolo Patta, tenemmo nella sede della Camera del Lavoro.

Andammo quindi con convinzione alla convention fondativa di Ariccia.

Tornati da Ariccia, tenemmo la conferenza stampa per presentare la componente spezzina il 21 novembre 1984, finita la manifestazione sindacale che era sfilata in città per lo sciopero generale che si era tenuto proprio quel giorno ancora una volta per la riforma del fisco e per il pagamento dei decimali scattati nel 1984 e che i padroni non pagavano.

Una concomitanza che voleva esprimere il legame tra la nuova componente e le lotte.

Quella mattina a Milano gli operai in sciopero avevano impedito di parlare al solito Giorgio Benvenuto che questa volta era stato accolto anche da un nutrito lancio di bulloni.

Il giorno dopo, nella cronaca locale della Nazione, la notizia della nascita di Democrazia Consiliare a Spezia era in prima pagina con il titolo: “Quelli dei bulloni”.

Anche in altre occasioni i titoli della stampa locale - che pure, va detto, in quel periodo riferiva in maniera abbastanza corretta le nostre iniziative nelle fabbriche – non erano stati teneri.

Sul finire degli anni Ottanta, per esempio, a Spezia venne la Rai per trasmettere in diretta dal Teatro Astra (adesso non c’è più, in Via Vittorio Veneto, al suo posto, c’è un Basko) una puntata di Piacere Raiuno, un programma che allora era molto seguito.

Proprio quella mattina c’era l’ennesimo sciopero per il rinnovo del contratto e il corteo si diresse davanti all’Astra con l’intento di leggere dal palco in diretta tv una breve nota sulle ragioni della lotta dei metalmeccanici.

Di fronte al rifiuto di far entrare nel teatro una delegazione, alcuni lavoratori iniziarono a protestare e a premere sui cordoni dei carabinieri.

Ma tutto finì lì perché poi dal palco gli organizzatori dello spettacolo diedero lettura della nota sindacale.

Il giorno dopo, su un giornale locale, si parlava di facinorosi!

Uno slogan nato nelle lotte dell’autunno caldo del 1969 veniva ancora gridato a squarciagola nei cortei operai di allora; quello slogan diceva “Lotta dura, senza paura”.

E noi, che eravamo per la lotta dura, spingevamo sempre non solo per degli obiettivi più avanzati ma anche per forme di lotta più radicali.

Lo facevamo in maniera intelligente, cioè senza mai oltrepassare certe “soglie”, ma lo facevamo.

Peraltro queste nostre spinte erano in sintonia col sentire di un ampio settore operaio, che magari non era maggioranza numerica ma che era quello che partecipava alle lotte e che reclamava dal sindacato forme di lotta più decise, più “dure” per l’appunto.

Se non si ha sempre ben presente questo aspetto, non si riesce a capire l’intensità e la determinazione di quelle lotte.

Le modalità con le quali le lotte si sviluppavano erano fortemente condizionate da tutto questo.

Non si trattava tanto di scavalcare il sindacato quanto di far sì che il punto di vista dei settori più avanzati dei lavoratori riuscisse a condizionarne i comportamenti se non a determinare l’intensità e la radicalità delle lotte.

Questa dialettica produceva delle sintesi provvisorie ed instabili nelle quali spesso il sindacato si rivelava permeabile alle spinte che venivano dal basso al punto da organizzare e gestire in prima persona certe forme di lotta.

I blocchi delle merci in entrata e in uscita dalle fabbriche e gli scioperi a scacchiera in ogni reparto con concerto di bidoni di latta sotto la Direzione per l’intera giornata e per diversi giorni consecutivi erano organizzati dal sindacato.

Così come fu il sindacato a organizzare il corteo che dopo aver percorso il raccordo autostradale e superato i tornelli del casello di Santo Stefano aveva bloccato per mezz’ora buona l’autostrada Genova – Livorno in entrambi i sensi di marcia.

E fu ancora il sindacato a organizzare il blocco del traffico ferroviario all’altezza della Stazione di Cà di Boschetti e, in un’altra occasione, a “coprire” il blocco della Stazione Centrale di Spezia a conclusione di un corteo operaio che aveva preso un po’ la mano.

 

 

 

Il racconto finisce qui.

La lotta continua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Commenti

  1. bravissimo, Sergio! ricostruisci in modo analitico ed approfondito un periodo cruciale della storia della lotta di classe e ripercorri scelte comuni di tanti militanti nella fase del riflusso.

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