Il cielo sopra via Torino

 




Paolo Luporini


Un incontro di oggi, con un protagonista sopravvissuto da una storia di tanti anni fa, così come la morte di don Renzo Cortese, che fece innumerevoli viaggi di soccorso in Bosnia, mi hanno spinto a pubblicare qui questo mio vecchio racconto di fantasia ispirato dalla storia vera di un gruppo di coraggiosi. Ne avevo già parlato qui.


L’angelo Arishael    


L’unica scelta di un attimo eterno.

 

Non fu sulla Luna che si svolse questo fatto che cercherò di descrivere, riguardante un angelo, ma nel Paese-del-non-Dove.

Non si può definire un luogo dove risieda un puro spirito, e l’angelo è un puro spirito, un’idea di Dio che mette in comunicazione Dio e gli uomini. Si dice, infatti, che l’angelo sia il messaggero di Dio.

Un’altra prerogativa dell’angelo è che la sua attività è lodare e servire Dio, cantare la sua grandezza.

L’attività dell’angelo, la sua esistenza, non si svolge nel tempo.

La sua immortalità non vede un inizio senza mai avere fine, come possiamo pensare noi, sempre restando nel flusso temporale che sempre si svolge, per l’uomo, in un prima, nell’attimo presente, e in un dopo.

L’angelo esiste in un non-tempo, nell’eternità di Dio, pur essendo stato da lui creato, ma con un continuo presente, un attimo da cui si può vedere passato e futuro dell’uomo.

La vita dell’angelo si svolge in un unico attimo eterno.

Mentre l’uomo, immerso e costretto dal tempo, condannato ad una fine certa, è sempre obbligato ad operare continue scelte del presente che ne condizioneranno il futuro, l’angelo ha un’unica scelta tra il dovere e gioia di lodare e servire Dio e non essere più un angelo.

L’angelo ha quest’unica eterna scelta, la scelta di un attimo. In quest’attimo, Arishael provò la tentazione di confondersi con gli uomini, provare la corporeità, essere in mezzo alla folla, essere toccato, spintonato dagli altri, sentire il profumo degli altri vicino a lui, oppure provare quel certo sentimento che si sperimenta in un’alba, quando il giorno rinasce e la natura ne canta la resurrezione con il concerto degli uccellini.

Provò la tentazione di scegliere e magari sbagliare, con il risvolto tutto umano di pagare di persona per il proprio sbaglio, e quindi soffrire, magari piangere, e poi sentire il sapore che ha una lacrima.

Provò l’invidia per gli uomini che gustano i sapori dei cibi, il dolce, il salato, l’amaro, il frizzante e i profumi delle donne, il profumo del mare, il piacere di immergersi nelle onde e farsi travolgere e sbattere sulla riva, lasciandosi poi asciugare dal sole cocente e sentire i granelli di sabbia sulla pelle e tra le dita.

L’angelo ebbe la curiosità di esaminare un granello di sabbia, la polvere, così come desiderò essere un puntino minuscolo sotto l’immensa volta del firmamento notturno e vedere da questo punto di vista così limitato ma unico la grandiosità di questo spettacolo.

L’angelo sapeva che tutto questo gli era negato. Sentiva le sensazioni ed il dolore degli uomini, poteva capirne i sentimenti e li proteggeva con la preghiera, intercedendo continuamente per loro presso Dio, ma non poteva provare direttamente col corpo nessuna vera esperienza umana.

In quell’attimo, scelse.

L’angelo scelse di essere uomo.




 


La storia di Arisha

 

Arisha nacque in un villaggio bosniaco mussulmano che doveva più tardi essere cannoneggiato dai tank serbi.

Il padre era combattente, la mamma morì nel bombardamento ed il bambino, che aveva allora tre anni, fu trovato sepolto vivo tra le macerie dai soccorritori scampati alle bombe.

Non ricordava neppure il proprio nome, che perciò gli fu dato dall’uomo che lo aveva estratto da sotto la trave che lo aveva protetto.

Si chiamava Arisha.

Lo portò con sé sperando di consegnarlo a qualcuno che potesse prendersene cura più a lungo.

Sfuggendo all’accerchiamento serbo si allontanò dal teatro di guerra finché trovò una donna disposta a prendere il piccolo Arisha nella sua famiglia. Volle essere pagata.

Arisha crebbe abbastanza sano, come fanno quelle erbe che spuntano tra le rocce e devono approfittare delle scarse risorse che la natura mette a loro disposizione.

Anche piccolissimo, ma più ancora dopo l’affidamento, Arisha sapeva catturare l’attenzione, suscitare la pietà e approfittarne per ottenere ciò che gli serviva o che desiderava.

Era un bambino vivace e curioso che voleva sperimentare tutte le nuove esperienze.

Come quella volta che si avvicinò alla stufa a legna, l’aprì, estrasse senza bruciarsi un tizzone e l’avvicinò all’altro braccio, per toccare la brace rossa che emanava una così forte luce ed un così grande calore.

Inevitabilmente si bruciò e si ustionò, ma anziché piangere, fissava incuriosito la pelle che sfrigolava, si gonfiava in vescichette umide di siero.

Un osservatore avrebbe potuto intuire che Arisha, paradossalmente, faceva esperienza ed imparava il dolore, le conseguenze del fuoco, il controllo di sé e la risposta del corpo ad un attacco esterno.

Altre volte assaggiava i frutti o le erbe del bosco ed aveva imparato quali frutti avevano un gusto gradevole e si potevano mangiare e quali invece potevano servire per ottenerne, spremendoli, un succo colorato per disegnare le rocce.

Da solo, senza che gli fosse insegnato, il bambino inventò i graffiti primitivi e disegnava soldati, fucili, missili e cannoni anticarro, proiettili e case intatte vicino a case distrutte.

Quando nessuno lo vedeva cercava di trattenere il respiro in un’apnea che lo portava all’anossia e provava così una sensazione di svenimento e di debolezza in tutto il corpo che si prolungava anche quando il cervello riceveva un po’ d’ossigeno quando riprendeva il respiro.

In tali occasioni Arisha aveva delle visioni ed immaginava colori, luci e forme che gli apparivano nello schermo che aveva nel cervello e che poteva vedere anche ad occhi chiusi.

Sembravano macchie e gocce d’olio illuminate da una luce sfolgorante in cui si dibattevano microbi e vermi argentei e rossastri.

Se qualcuno si fosse accorto di questa sua attività solitaria, avrebbe potuto osservare che Arisha era uno strano bambino e avrebbe dovuto preoccuparsi e dedicargli cure che invece purtroppo non ebbe.

Abbandonato dal destino della guerra, che gli aveva tolto i genitori, poi salvato da chi lo aveva fatto rinascere da sottoterra, ma presto da lui separato, era nuovamente abbandonato dalla madre adottiva che poco si curava di lui.

Non era raro che in qualche notte d’estate Arisha rimanesse fuori all’aperto, per provare la paura del buio, ascoltare il canto notturno degli animali, osservare il cielo pieno di stelle, e sperare di vedere i bagliori delle cannonate all’orizzonte.

Così si trovava sveglio al rinascere del giorno ad ascoltare, tra il vento, l’assordante risveglio degli uccelli e degli altri animali diurni.

L’incontro con il camion degli aiuti italiani, che passò dal loro villaggio e si fermò per qualche ora, fu un’esperienza eccezionale per Arisha.

Non era pianificata quella fermata, né era previsto che i volontari portassero qualche genere di conforto ai rifugiati in quella zona.

La destinazione era un’altra, ma, vista tanta povertà e le condizioni dei bambini, la fermata si prolungò ed i volontari fraternizzarono con i rifugiati per mezzo di sigarette, caffè, sale, pacchi di pasta e, soprattutto per i bambini come Arisha, per mezzo di decine di giocattoli scartati dai ricchi bambini italiani e donati ai poveri bambini della Bosnia.

La mano del volontario italiano, quando fu il turno di Arisha di ricevere il suo giocattolo, s’infilò in uno scatolone ed estrasse un giocattolo a forma di parallelepipedo incartato in carta colorata.

Il volontario lo scartò e gli disse, porgendoglielo:

“E’ una bellissima autopompa rossa dei pompieri, che fortuna!”

Arisha allungò il braccio ustionato e prese la stupenda macchina, senza però sapere di che macchina si trattasse, perché lui non sapeva chi fossero i pompieri.

Il volontario accompagnò il dono con una carezza sulla testa ed un bellissimo sorriso.

Era più di quanto Arisha avesse avuto sinora dalla madre adottiva e da chiunque nel villaggio.

Un amico più grande gli assicurò che i pompieri sono degli uomini, come soldati, ma anziché ammazzare le salvano le persone, dal fuoco, dai terremoti, dalle alluvioni, dagli incidenti più diversi.

Così Arisha, guardando la sua bruciatura e ripensando al racconto che la madre adottiva gli faceva per fargli capire che non era figlio suo, ripensando a come lui era stato ritrovato sotto le macerie, e consegnato a lei da quell’uomo che lo aveva salvato, pensò e desiderò in cuor suo che quello dovesse essere un pompiere e che se fosse stato presente quando aveva estratto quel tizzone dal fuoco lui lo avrebbe salvato anche quella volta.

Un giorno un suo piccolo amico giocava insieme con lui e con altri bambini, intorno ad un laghetto che era una cava di terra abbandonata.

Era ancora lì, semisommersa dal fango e dall’acqua, una draga arrugginita. I bambini ed i ragazzi la conoscevano molto bene ed avevano fatto esperienza di evoluzioni spericolate tra i bracci e le pale della draga, da cui si tuffavano in acqua.

Quel giorno alcuni pescavano con improbabili canne fatte di bastoni di legno, lenze di spago sottile ed ami costruiti da loro battendo con un martello del fil di ferro.

Incredibilmente, dei piccoli pesci dal corpo piatto e di forma lenticolare, colorati di giallo ed azzurro, abboccavano. L’acqua a riva era trasparente ed era sufficiente, per i ragazzi che pescavano, avvicinarsi alla riva e portare l’amo davanti alla bocca di questi pesci che ingoiavano l’amo senz’esca, incuriositi dal leggero movimento e dal luccichio.

L’amico di Arisha si era allontanato dal gruppo ed aveva fatto rotolare un tronco nel laghetto.

Era sua intenzione salirci a cavalcioni e traghettarsi in mezzo alla cava ad un nido di germani su un isolotto.

Arisha lo aveva perso di vista, intento a seguire la pesca dei suoi amici. Il piccolo era salito sul tronco, ma questo aveva ruotato su se stesso, facendolo cadere e ferendolo con un ramo.

Cercando di salire o di aggrapparsi al tronco e di recuperare la riva, aveva intorbidito l’acqua e smosso il fondo fangoso.

Arisha sentì prima degli altri una sensazione di allarme e si girò a cercare il suo amico, vide l’acqua muoversi intorno al tronco, in anelli concentrici. L’amico era sotto, avvinghiato con i piedi nel fondo fangoso.

Arisha decise che lui doveva salvarlo, era un pompiere e doveva salvare il suo amico, ma doveva stare attento al fango.

Si tuffò senza aspettare indugi e, in apnea, sott’acqua, nel torbido, liberò l’amico e, afferratolo saldamente, lo trascinò in un punto dove c’erano delle rocce e dove lui poteva agevolmente portarlo all’asciutto.

Uno dei bambini era andato a chiamare le donne al villaggio.

Arisha ebbe la gloria ed i festeggiamenti riservati ad un salvatore, ad un eroe.

La mamma adottiva aveva avuto i ringraziamenti dalla madre del piccolo; così Arisha quella sera poté assaggiare del liquore di prugne fatto da lei.

Un giorno passarono dal villaggio dei combattenti, una piccola pattuglia che cercava vettovaglie.

Tutti erano scappati nei boschi, portandosi coperte e cibo e conducendo con sé gli animali.

I soldati sfondarono porte, ruppero finestre, saccheggiarono i pollai e le cantine in cui poterono trovare qualche bottiglia, si ubriacarono e per fortuna si limitarono a bruciare un pagliaio, per sfogare la paura di anni di guerra ballando intorno al falò.

Le donne e gli anziani del villaggio e così Arisha e gli altri bambini, vedendo i bagliori del fuoco, pensarono che bruciasse il villaggio, anche se non era così.

Loro non potevano vedere il villaggio dalla loro posizione e perciò decisero di mandare ad osservare da vicino il loro eroe, Arisha, con due suoi compagni che lui stesso avrebbe scelto.

Per Arisha era certo un onore e così non pensò alla paura, mentre certamente la provarono i due che scelse.

La prudenza estrema e la paura dei due compagni rallentarono moltissimo la missione, ma, alla fine, scoperto che non c’era più d’aver paura perché i soldati se n’erano andati ed il danno era limitato, i tre, trovate delle bottiglie lasciate dai soldati vicino al pagliaio bruciato, pensarono di scolarsele per allontanare la paura rimasta, e così fecero.

Si ubriacarono e fu per tutti la prima volta.

Li scoprirono addormentati le donne che, preoccupate perché non ritornavano, erano sopraggiunte circospette alla loro ricerca.

La considerazione del villaggio per Arisha dopo questo increscioso episodio diminuì notevolmente sino a far dimenticare il salvataggio.

Ma per Arisha l’esperienza dell’impresa rischiosa e dell’ubriacatura era stata, tutto sommato, divertente.

Non perdeva occasione per portare alla bocca qualsiasi liquido che fosse poco o molto alcolico.

Presto quest’abitudine divenne un problema, perché Arisha era arrivato al punto di fare qualsiasi lavoro gli fosse richiesto in cambio di un po’ d’alcool.

Rubava persino, per bere.

Rubò ai vicini, vendette del ferro che ricavò da certe installazioni della cava e persino dalla draga.

Infine rubò alla madre adottiva, che lo scoprì e lo cacciò da casa.

Mortificato dalle parole che la donna gli aveva scagliato contro, non osò presentarsi nuovamente alla sua porta, disposto al pentimento e alle scuse. Preferì, alle false promesse che avrebbe potuto farle, la via della fuga. Passò la notte nel bosco, come tante volte aveva fatto, ma non poté vedere le stelle, perché il cielo autunnale era coperto.

Faceva piuttosto freddo ed Arisha si rimediò un giaciglio con le foglie di un castagno sotto il quale si era sdraiato.

Non mancavano persino le punture dei ricci.

Al mattino mangiò alcune castagne crude, che furono l’unico pasto del giorno, poiché decise di incamminarsi nel bosco: voleva andar via dal paese che lo aveva cacciato.

Certo, se l’era voluta, la colpa era sua, ma l’odio verso la gente del suo paese ed in special modo verso la madre adottiva era grande ed insanabile. Sarebbe andato via, lontano, dove avrebbe potuto dimenticare quel luogo e la gente che lo abitava.

D’altronde, lui non era di lì, c’era stato portato quando la mamma vera era morta.

Era senza nessuno, era solo, era triste, ma era anche completamente libero: di costruire la sua nuova vita, da solo oppure con altra gente, in un altro luogo.

Era stufo di una vita senza speranze, in un paese in guerra in cui la gente lottava per il cibo e per tutto ciò che era indispensabile.

L’Italia, il bel paese ricco e generoso, avrebbe potuto essere il suo rifugio, la sua terra promessa.

Si diresse a Nord senza incontrare paesi, sulle montagne, e camminò per due giorni digiunando.

Giunse ad un villaggio alle pendici della parete dell’ultimo monte che aveva scavalcato, dove trovò un po’ di cibo: polenta e formaggio.

Ripartì sempre a piedi attraversando una valle, superò un altro monte, sempre adattandosi a ciò che la Provvidenza gli presentava.

Si attrezzò in modo rudimentale per la caccia, munendosi di una lama, costruendosi un arco; non dimenticò di farsi dare dei preziosi fiammiferi. Così poté, non senza insuccessi, riuscire a mangiare la carne.

Si adattò alle carni più insolite e meno prelibate, anzi direi le più disgustose, ma si alimentò anche là dove non poteva vivere della carità di chi incontrava.

Rafforzò il suo carattere il pensiero che riusciva a farcela e che proseguiva nel suo cammino verso l’Italia.

Il pensiero che doveva fare a meno dell’alcol lo faceva soffrire, ma la decisione che aveva adottato di farne a meno per sempre, visto che l’alcol lo aveva portato a quel frangente, era rafforzata dalla Necessità, che lo costringeva a farne a meno.

Quando un valligiano gli offrì, insieme con un piatto di minestra di fagioli, un bicchiere di vino rosso, riuscì a rifiutare, con una notevole lotta tra vizio e volontà.

Attraversò poi segretamente due confini, aiutato dalla fortuna e dalla scarsa sorveglianza che c’è in montagna.

Non si legò a gruppi di profughi che, come lui, tentavano la sorte con un nuovo lancio di dadi in uno dei paesi d’Europa.

Aveva deciso che la sua nuova vita sarebbe cominciata in Italia, dove sarebbe completamente cambiato: senza più bere, sarebbe diventato migliore e avrebbe realizzato i suoi sogni.

Sarebbe potuto diventare qualsiasi cosa: si pensava ricco, potente e famoso, ma buono e generoso.

La sorte sarebbe stata generosa anch’essa con lui, perché lui si disponeva favorevolmente di fronte al futuro.

I suoi buoni propositi però si scontravano giornalmente con le necessità quotidiane.

Nel suo pellegrinaggio solitario ed essenziale aveva imparato che si poteva fare a meno persino del necessario, almeno per qualche tempo.

Il rispetto umano ed il timore di offendere la propria dignità, chiedendo agli altri il cibo o l’ospitalità, erano superati da una spontanea umiltà e dalla giustificazione che si dava, convinto di chiedere solo ciò che era necessario.

Ma spesso, oltre al cibo, erano necessari pure i soldi e così Arisha tornò a rubacchiare.

Riuscì sempre a cavarsela senza essere mai preso dalle sue vittime né dalla polizia.

Così in Italia cominciò la sua attività come ladro.

Si cibava alle mense popolari per bisognosi o dai parroci dei paesi che incontrava nel suo peregrinare.

Finì nella nostra città.

Dormiva per strada, nei giardini o sotto una tettoia od un portico quando pioveva.

Rimediò un sacco a pelo da un barbone che gli morì accanto.

Aveva pure dei cartoni che nascondeva di giorno in un angolo di un cortile o per terra sotto ad una macchina che nessuno muoveva mai.

Con i cartoni si costruiva una scatola intorno al sacco a pelo, sopra, specialmente sotto, e di lato, per ripararsi dal vento e dal freddo.

Si stabilì per un lungo periodo sotto la tettoia della chiesa degli evangelici, mangiava dai francescani ed alla mensa di Via Torino, gestita dal gruppo missionario cattolico.

Sulla strada imparò tutti i trucchi della piazza, i suoi traffici, ai quali si mischiò con successo, ma mantenendo sempre un basso profilo.

Si astenne dall’eroina e continuò a perseverare nel proposito di non bere, ma cominciò a fumare tabacco e hascisc.

I suoi magri introiti andavano al fumo e alle riviste pornografiche che Arisha consumava con la stessa bramosia.

Per il tabacco fece una deroga alla regola che si era dato: chiedere solo il necessario.

Cominciò quindi senza ritegno a scroccare le sigarette a chiunque gli capitasse a tiro.

Con la simpatia si conquistò alcuni amici sia nel suo ambiente sia tra i volontari della mensa che frequentava alla sera, che parlavano volentieri con lui, così piccolo e già sulla strada, sbattuto dalla Storia in una condizione così difficile e pericolosa per la sua età, ma già risoluto e ricco di carattere, capace di difendersi dagli altri.

Specialmente con un volontario, un certo Fabrizio, c’era da parte di Arisha rispetto e gratitudine.

Fabrizio osservava Arisha con un particolare riguardo, perché voleva preservarlo da eventuali pericoli, e metterlo in guardia da amicizie non troppo indicate per lui.

Un altro volontario aveva messo una pulce nell’orecchio di Fabrizio a riguardo di un’amicizia pericolosa per Arisha: un cinquantenne molto gentile e pulito con un berretto di stile Navy, un giubbotto blu senza maniche con molte tasche ed un borsello a tracolla.

La gentilezza e la confidenza che questo aveva per Arisha erano sospetti.

Arisha ricevette da quest’uomo molti regali: prima una medaglia ed una collanina, poi giornaletti pornografici di cui i volontari non poterono accorgersi, poi una radiolina con registratore portatile con cuffia, infine addirittura un telefonino, forse rubato.

Arisha si pavoneggiava di questi oggetti, che riempivano il suo narcisismo esibizionista.

I due non celavano una notevole intimità, che trapelava dagli sguardi che si scambiavano quando s’incontravano nel giardino della mensa.

Un giorno, però, i due si sedettero come il solito fianco a fianco ma, dopo alcuni minuti che chiacchieravano, scoppiarono in un improvviso litigio, passando presto alle mani con pugni diretti al viso.

Arisha, rabbiosamente, tirava colpi senza guardare dove colpiva, mentre l’altro tirava al mento e agli zigomi, con la forza di tutto il corpo, di notevole massa, attribuendo ai colpi un effetto devastante.

Fabrizio aveva assistito sorpreso alla gragnola di colpi scambiati dai due ed appena comprese che avevano colpa entrambi gridò:

“Fuori! Tutti e due!”

Arisha, rintronato dai colpi subiti, non se lo fece ripetere ed uscì subito, gridando però male parole all’altro, che lo seguì per rincorrerlo.

Usciti fuori, continuarono a provocarsi, mantenendo una breve ma prudente distanza, mentre tutti, volontari ed ospiti della mensa, erano accorsi al cancello per vedere gli sviluppi della lite.

Vedendo che tutti lo guardavano e che lo avrebbero giudicato per il suo comportamento, Arisha scelse di mantenere un contegno provocatorio con il suo avversario, mentre l’altro cercava davvero di avvicinarsi ad Arisha per dargli una pesante lezione, forte della sua superiorità.

E più Arisha insultava l’altro, più l’altro lo inseguiva e lo faceva retrocedere, finché lo raggiunse e gli affibbiò un diretto ed un gancio che fecero cadere Arisha in terra, ma gli lasciarono la prontezza per sgusciare con agilità e scappare di corsa a diversi isolati di distanza.

Nonostante fosse già lontano, l’inseguitore si diresse con sollecitudine nella direzione in cui Arisha era scappato e sparì alla vista anch’esso.

Fabrizio mise in moto il meccanismo di espulsione per entrambi chiedendo a Gabriella, la capogruppo, di ratificarlo.

Diedero mandato ad un terzo volontario di avvisare i volontari del giorno dopo del provvedimento di esclusione emesso contro i due, che avrebbero dovuto essere descritti per la loro identificazione.

Qualcosa non funzionò, e fu così che qualche giorno dopo entrambi tornarono, riappacificati tra di loro, a mangiare alla mensa.

Ma Arisha era incrudito ed incattivito, perciò, dopo due settimane, quando Fabrizio era assente ed era sostituito da Mauro, litigò con un tossicodipendente zoppo che lo picchiò con la stampella.

Arisha ci dette dentro con cattiveria e tecnica da picchiatore.

Entrambi si conciarono per le feste, come si dice, e stavolta furono espulsi: lo zoppo per un mese ed Arisha per sempre.

Fabrizio lo rivedeva ogni tanto per la città, una volta con in braccio un televisore, altre a bordo di una bicicletta, qualche volta intorno alla mensa.

Fabrizio, la prima volta che lo rivide nei pressi della mensa, gli chiese se voleva mangiare un po’ di pane ed il tonno, ne aveva diritto, anche se non poteva entrare a mangiare con gli altri, ma Arisha, orgoglioso, rifiutò sprezzante e se ne andò.

Si fece rivedere, ma senza intenzione di chiedere nulla, pareva che cercasse qualcuno; dopo un fuggente sguardo all’interno del giardino, se n’andò.

Né Fabrizio né nessun altro dei volontari della mensa rivide più Arisha, ma questi non aveva lasciato la città.

Frequentava gli zingari del campo nomadi, che gli davano ospitalità, cibo ed amicizia, a volte qualche incombenza connessa con il suo mestiere di ladro.

Mantenne però i contatti con l’ambiente della piazza, per il vizio del fumo della cannabis e per altri traffici che aveva con i tossicodipendenti.

Un giorno due tossicodipendenti, una coppia che frequentava la mensa da diversi anni, da quando fu aperta da Don Bruno, furono trovati morti entrambi, alcuni giorni dopo la loro morte, in una casupola che avevano occupato.

Erano entrambi molto compromessi nella salute a causa dell’uso di eroina e di ogni altra sorta di medicinali e stupefacenti, ma la causa fu chiara per tutti: overdose per una dose tagliata male.

Arisha era in grado, anche se piccolo, di capire queste cose: se ne parlava, nell’ambiente della piazza, ed anche lui espresse il suo parere.

Come aveva fatto lui con l’alcol, avrebbero dovuto fare anche i tossici: smettere completamente, tutti insieme.

Inventò lo sciopero dall’eroina.

Paradossalmente, i tossici della città presero in seria considerazione il suggerimento, si riunirono, nel loro punto di ritrovo, la piazza, si organizzarono, affidandosi a due medici volenterosi del Centro d’Igiene Mentale e giurarono di non farsi più.

Eressero una tenda nella piazza e scrissero dei cartelloni per spiegare ai cittadini ciò che avevano deciso.

Era un modo per impegnarsi di fronte a tutta la città e costringersi a non mollare.

Per questo motivo cercavano di stare sempre insieme.

Vennero i giornalisti che li intervistarono.

Una televisione riprese la tenda ed i cartelloni ed intervistò i due medici ed un rappresentante dei tossicodipendenti, che fu ripreso di spalle e con la voce camuffata elettronicamente.

Un partito politico appoggiò lo sciopero, ma il comitato degli ex tossicodipendenti rifiutò ogni strumentalizzazione.

Le famiglie li sostenevano con l’invio di minestra calda, panini e dolci.

La città osservava diffidente, ma con una certa speranza, il tentativo di quei ragazzi.

Lo sciopero continuava da otto giorni, quando tre spacciatori fecero la posta ad Arisha, in una stradina buia da cui doveva passare per andare a dormire nel campo nomadi.

Senza dovergli spiegare nulla, lo acciuffarono, lo ridussero all’impotenza e gli iniettarono una dose mortale.

Il giorno successivo fu trovato il suo cadavere, fu eseguita l’autopsia ed i giornali scrissero che lo sciopero dalla droga era fallito.

Tra i tossicodipendenti, che sapevano che Arisha non aveva mai assunto eroina, fu chiaro che il messaggio era forte e diretto a tutti loro.

Il comitato si dissolse, i due medici fecero di tutto per convincere un certo numero di ragazzi a non mollare, a non cedere alle provocazioni.

Tutti sapevano che nessuno di loro era protetto e, scoraggiati, quasi tutti ripresero a farsi d’eroina.

Anche chi aveva resistito, pur da solo, ricadde nel vizio, riacciuffato dagli spacciatori.

E così la storia della droga nella nostra città continua nel modo che vediamo adesso: c’è chi spaccia, chi si droga, chi ne esce, chi ne muore, chi si ammala, chi ruba, chi si prostituisce; dappertutto c’è sofferenza, per tutti c’è una piccola speranza: il Centro, dove, con un forte impegno personale, si può ricominciare una vita senza droga, riempiendola di volontà e motivazioni.

Arisha, nel momento in cui il cuore cessò di battere e gli mancò il respiro, tornò in cielo, il cielo sopra Via Torino.

Ma l’angelo pianse.

 









Il racconto è pubblicato nel libro 
"Il Filatelista ovvero Il cielo sopra via Torino", 
e alla Libreria La Scolastica 
di Samantha Pintus 
in Corso Cavour 409 a La Spezia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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