Claudio Rizzo, cavaliere pallido, dieci anni dopo

 Marco Cecconi / Riccardo Pioli

RICCARDO PIOLI © 1979


Per il blog “Tempi dei cuori che s’infiammano”                                18 febbraio 2022


Claudio è sempre tra noi, a dieci anni da quel 18 febbraio del 2012. Chi ha avuto in sorte di conoscerlo difficilmente lo avrà dimenticato, come testimoniarono allora lo sgomento degli amici e le manifestazioni di affetto dei suoi studenti.

Claudio se n’è andato troppo presto, senza poter riscuotere il credito che aveva maturato nei confronti della vita. Certi suoi tratti peculiari, in particolare la malinconia nutrita di umorismo e autoironia e la tenacia mite del suo agire, ce lo rendevano caro e ce lo renderanno caro per sempre.

Con altri amici avevamo deciso allora di dedicargli un piccolo film, quasi un “instant movie”, dal titolo Un cavaliere pallido, presentato al Laura Film Festival di Levanto il 22 luglio di quell’anno. Ricordando quei giorni intendiamo ricordarlo anche oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa. 

 

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Claudio Rizzo era nato a Levanto il 1° giugno 1953. Si era laureato in filosofia a Genova e insegnava alla Spezia. Le letture giovanili di Bertrand Russell, lo studio approfondito della Scuola di Francoforte e del marxismo critico avevano caratterizzato la sua formazione culturale, mai disgiunta da una forte passione politica, vissuta sempre “a sinistra del Pci”, nell’area del Pdup-Manifesto.

Alla fine degli anni Settanta si era fatto promotore a Levanto, città in cui ha sempre vissuto, di iniziative politiche e culturali che si erano sviluppate intorno alla locale Società Operaia di Mutuo Soccorso, mediante la fondazione del circolo “Rudi Dutschke” e la produzione di una rivistina dalla vita breve, “Cambiare”. Suoi scritti sono stato ospitati da varie riviste, da “Pace e guerra” a, più recentemente, “Rinascita della scuola” ed “Ellin Selae”.

Nel corso del tempo, pur fra molte difficoltà personali, non aveva mai smesso di confrontarsi senza pregiudizi con tradizioni culturali e politiche diverse dalla sua, cercando sempre di individuare nuove forme di aggregazione e d’intervento, tra cui, nell’ultimo periodo, un Centro Studi attraverso il quale intendeva mettere a disposizione della collettività il suo cospicuo patrimonio librario. I suoi libri, insieme a quelli del padre Benito, poeta e animatore del Premio di poesia “Città di Levanto”, dal 2012 sono parte del patrimonio librario delle biblioteche civiche spezzine.

 

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«Memoria è capire quel che abbiamo davanti». Questa frase di Franco Fortini apre una ricerca di storia contemporanea – dal significativo titolo di Ritorno al futuro – che Claudio aveva condotto con i suoi studenti nell’ormai lontano 1985. La morte prematura di Claudio ha lasciato agli amici, pur senza un esplicito legato, l’onere della memoria. Siamo un po’ ossessionati, e ne abbiamo parlato spesso fra di noi, dalla memoria, dalla cura della memoria – nel senso di aver cura della memoria e della memoria che in qualche modo ci cura. Forse per curare le nostre ferite, forse perché l’assenza non si può colmare, forse per risarcire Claudio non si sa bene di che cosa, vogliamo ricordare e sentir ricordare, non vogliamo tralasciare nessuna traccia che sia illuminata dall’affetto.

Claudio per noi aveva l’eccezionalità comune a tutti ma non così comune di essere lui, di esserlo in maniera tanto radicale quanto poco appariscente, e questo ci basta, giustifica ampiamente il nostro dovere di non dimenticarlo, riavvolgendo il nastro della memoria.

 

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Dopo la morte di Claudio, l’esigenza di raccogliere le testimonianze degli amici e di chi l’ha conosciuto in differenti periodi della sua vita – cercando di rispettare la memoria di ciascuno, nella sua parzialità e nel suo carico di affetti – è stata immediata, urgente, naturalmente necessaria. L’idea che queste testimonianze potessero costituire il cuore di un piccolo film è venuta subito dopo, anche sull’onda della partecipazione di tante persone al funerale, di una tensione emotiva  che non volevamo disperdere. Il fatto che il Laura Film Festival di Levanto avesse accettato “sulla parola” di ospitare il nostro lavoro, allora neppure iniziato, ci aveva posto davanti a una scadenza che dovevamo rispettare.

Levanto è il luogo dove Claudio ha sempre vissuto, che è sempre stato al centro del suo impegno e dei suoi progetti. «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», scriveva Cesare Pavese, uno scrittore da lui molto amato, ne La luna e i falò. Levanto è il luogo da dove avrebbe voluto fuggire, se non fosse stato prigioniero delle sue paure, della precarietà lavorativa, di certi scherzi del destino. A Levanto riposerà per sempre e il Laura Film Festival ci era parso dunque la sede naturale per presentare il nostro lavoro dedicato a lui.

Così, avendo qualche idea in testa ma senza una vera sceneggiatura, abbiamo cominciato le riprese di Un cavaliere pallido – il titolo non è mai stato messo in discussione – sapendo di avere pochi giorni a disposizione per un lavoro che, come si dice sempre in questi casi, avrebbe avuto bisogno di più tempo.

Lasciate alle spalle queste considerazioni ci siamo ritrovati a casa di Claudio, dove abbiamo allestito lo spazio per accogliere le testimonianze che sarebbero venute, senza sapere bene se tutti i convocati si sarebbero presentati. Da vecchi appassionati di cinema, siamo stati subito presi dall’eccitazione del set, per quanto si trattasse di un set improvvisato e sommario.

L’eccitazione non è durata a lungo, in breve ha prevalso un’altra sensazione, che potremmo chiamare di familiarità. Conoscevamo poco la maggior parte dei suoi amici: alcuni li avevamo rivisti al funerale dopo parecchi anni, e ci eravamo riconosciuti a stento, naturalmente invecchiati; altri li abbiamo conosciuti solo durate le riprese. Eppure si è prodotto un “effetto Claudio” che ha sciolto tutte le possibili riserve, superato titubanze, resistenze e timidezze.

Dalla sala il set si è spontaneamente allargato al corridoio, alla cucina, al balcone, grazie anche alle bevande, analcoliche e non, ai caffè e ai pasticcini che Natasha faceva circolare. Scambi di ricordi, vuoti colmati, citazioni di Claudio, molte risate, malinconia quanto basta.

Il set allargato ha contribuito a togliere un po’ di tensione dal set vero e proprio, a ridimensionarne l’importanza: qualunque cosa fosse venuta fuori da quello che stavamo girando, non avrebbe tolto nulla al piacere di quegli incontri, a quei continui fuori campo che forse qualcuno avrebbe dovuto filmare e che restavano fatalmente affidati alla memoria.

Il film che volevamo fare aveva alla base una scommessa azzardata: raccontare qualcosa di una persona che in apparenza non aveva avuto una vita particolarmente ricca di avvenimenti significativi, di quelli almeno che sono considerati tali, di una persona che non aveva lasciato dietro di sé un’opera corposa da tramandare e da studiare. La scommessa stava appunto nel rendere il senso della presenza di Claudio per coloro che l’avevano conosciuto, che l’avevano apprezzato e gli avevano voluto bene, in modo che qualcosa potesse essere accolto anche da quelli che avrebbero avuto la ventura di vedere il nostro lavoro senza aver mai conosciuto Claudio.

Durante le riprese, e ancor più in seguito, durante il montaggio, ci chiedevamo se quelle parole da cui scaturivano ricordi, affetti, emozioni, avrebbero esaurito il loro effetto nei nostri occhi e nelle nostre orecchie già disponibili all’ascolto o avrebbero toccato anche la sensibilità di spettatori sconosciuti.

 

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A dieci anni di distanza ricordiamo qui tutti coloro che contribuirono allora alla riuscita del film. Innanzitutto i testimoni: Enni Agata, Patrizia Anselmo, Claudio Barbieri, Giorgio Bixio, Giulia Carino, Rinaldo Del Bene, Guido Ghersi, Benedetto Manna, Cinzia Perazzo, Gian Paolo Ragnoli, Maurizio Scaramuccia, Gianna Taverna, Teresa Valdettaro, Mirco Viviani, Clara Biondi Zoppi. Insieme a questi nomi è d’obbligo aggiungere e sottolineare quello di Natasha Chus, per la sua preziosa testimonianza, per l’ospitalità e il supporto logistico.

Il film non avrebbe avuto quella forma, superiore alle nostre più rosee aspettative, senza le riprese di Alessandro Bronzini e il montaggio di Aldo Guastini dello studio No Noise di Sarzana, senza le musiche di Paolo Chang (con Giovanni Sturmann) e di Patrizio Cozzani. A Lia Francesca Morandini e Amedeo Fago dobbiamo l’invito alla IX edizione del Laura Film Festival. Un ricordo va ai tanti che si resero disponibili ad aiutarci: Sauro Chiappini della Camera del Lavoro di Levanto, Roberta Correggi e Ilaria Gasperi dell’Istituzione per i Servizi Culturali del Comune della Spezia, il Comune di Levanto per il contributo. E ancora Livio Bernazzani, Diego Bruschi, Catia Castellani, Guia Croce, Plinio Mansi, Mariarita Zoppi, la famiglia di Claudio Rizzo, il comitato levantese della Croce Rossa e Ambrosiana Arti Grafiche.

 

    



22 LUGLIO 2012. DUE SCATTI DI GIAN CARLO BAILO, GIORNALISTA DE LA NAZIONE, ALLA LOGGIA MEDIEVALE DI LEVANTO IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL FILM

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Quello che segue è il testo della lettera per Claudio che Gianna Taverna ci aveva affidato allora. Un breve estratto, letto dalla sua viva voce, lo avevamo inserito all’inizio del film.

 

Da quando Claudio se n'è andato, mi sto rendendo conto che era davvero una parte di me. Di me ventenne e di me ormai ben addentro la mezza età.

Come pochi, come quasi nessuno, era uno di quegli amici che puoi non vedere e sentire per vent’anni, ma ad ogni incontro non c’è bisogno di riadattare il linguaggio, di accordare il registro: tutto è come prima e come sempre, a dispetto delle crescite parallele.

E mi viene fatalmente in mente Incontro di Guccini, tanto cara a noi allora, a noi seduti ai tavolini del Bar Aurora a Levanto a cantare e bere fino a tarda ora molestando chi voleva dormire. E Claudio – che non cantava – era comunque lì a guardarci, a scrutarci, a tentare di leggere i nostri comportamenti senza mai un’incrinatura amara o malevola.

Erano anni fondamentali nella nostra formazione: dal ’71 al ’75, più o meno, la frequentazione più intensa, almeno per me che a Levanto non ci vivevo.

Gli amori più o meno difficili che si mescolavano alle splendide camminate delle domeniche dell’Austerity, i pomeriggi in discoteca e lui che a sera mi accompagnava a prendere il treno: d’inverno, faceva freddo, il vento portava via. Io spesso avevo qualcosa per cui essere rimbrottata, mi perdevo dietro storie poco sensate, pur nella morigeratezza imposta dai tempi e della mia tutto sommato scarsa propensione alla trasgressione. Parlavamo a volte per ore: di lana caprina, di pelo nell’uovo, di tristezze e malinconie ma anche di progetti, soprattutto dei suoi, io ero piuttosto confusa allora.

Era troppo “filosofo” per il mio ragionare, mi capitava di perdermi in quel suo pensiero pieno di curve e volte. Il mio, di ragionare, è ben acuto e sottile, ma è lineare: troppe volute mi innervosiscono, mi spazientisco, mi ci perdo. E così lo strapazzavo, l’ho sempre strapazzato, nel nostro gioco delle parti quello era il mio ruolo. Ma lui questo voleva, gli servivo per ritradurre in termini di realtà quello che lui esprimeva con un linguaggio troppo “leggero”.

Non eravamo felici, non lo siamo mai stati, seppure in maniere diverse. E tanto meno allora, quando tutto era ancora avvolto nella confusione della giovinezza e nella consapevolezza – questo sì – di non poter contare su di una struttura forte e robusta.

Non riesco a parlare di lui senza parlare di me, forse perché eravamo “amici” davvero, non ci si poteva nascondere l’uno all’altro, non c’erano schermi. Io non ho mai abusato nel mitizzare l’amicizia, credo che vada e venga, che sia un andirivieni, che le persone si incrocino e si perdano a seconda del caso, del bisogno, di mille accadimenti. Ma ci sono persone nella vita che continuano a tornare, e che quando tornano hanno dentro ancora intatto tutto quello che avevi amato in loro all’inizio, e allora quelli devono essere “gli amici”.

A volte incontrarlo è stato in qualche modo pesante, pesante stare di fronte alla tristezza, al vuoto e alla depressione che gli si indovinava dentro. Ma poi magari la volta dopo aveva pronti progetti nuovi, nuove visioni, nuove strade.

L’ultima volta che l’ho incontrato, davanti a scuola, a settembre, sembrava felice. Mi ha detto “ho la cattedra qui al Mazzini, ti vengo a trovare”. Proprio una settimana prima che se ne andasse mi sono chiesta come mai non l’avessi più incontrato, avevo pensato di scrivergli una mail.

E... quella telefonata che mi informa, quel sabato mattina, che non lo avrei più rivisto. Ho faticato un po’ a trovare il dolore dentro di me, mi succede sempre così. Sul momento le cose mi sembrano estranee, lontane. Me lo devo ripetere più e più volte. Poi il dolore è arrivato, piano, dolce, profondo. E ho pensato: se ce l’hai fatta tu, che sei fragile come me, non sarà così difficile andarsene. E ancora: se mi succedesse qualcosa, ci sei tu almeno di là, ci facciamo compagnia. Sono pensieri insensati, lo so, di quelli che ti arrivano senza filtro alla mente, senza pudore. Ma sono quelli che ho dentro e che in qualche modo mi hanno consolato.

Ma di’, dimmi un po’, anche di là continui ad avere “le bolle” nella pancia? Non passano, di là? Dimmi, di cosa si ha nostalgia, di là? Ci sono libri, riviste, giornali? E la birra, si trova la birra? E, ti ricordi i pomeriggi con me, la Teresa e la Pa’? E le passeggiate, te le ricordi le passeggiate? E l’articolo che ti ho aiutato a “mettere in bella”? E come è stato, è stato difficile passare di là, per te che sei sempre stato un fifone? E... si parla di noi che siamo ancora qui, di là? E... lasciami un recapito, per quando chiameranno anche me, che ho ancora da raccontarti di quella volta e di quell’altra ancora.

Sono queste le domande che gli farei. Stupide, minime, grandi e grandissime, come due ragazzi che si sono conosciuti quarant’anni fa e quando si rivedevano erano uguali ad allora, un po’ perché non hanno saputo crescere, un po’ perché crescere non li ha sciupati.

 

Gianna Taverna, luglio 2012

 

 






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