LA MIA UCRAINA



Paolo Luporini

Se Karen Blixen ha scritto “La mia Africa”, io posso scrivere “La mia Ucraina”, perché ci sono stato, nel 1974, e perché il gruppo che amministro su Facebook, “Il dono sospeso”, ospita appelli solidali a favore delle donne incinte e dei bambini ucraini perché si salvino dalla mattanza russa. Chi decide di aiutare o donare, sa che possono esserci i profittatori, ce ne sono sempre, nelle disgrazie, ma ci sono tanti che sono onesti e disinteressati e pagano spesso di propria tasca una parte degli aiuti che portano o sostengono le spese del trasporto. Il primo caso che ci è capitato di accogliere è una raccolta di aiuti che un iscritto del gruppo e CUORE IN FIAMME ci spiega così. "Ricevo e diffondo. "Anche a Spezia stanno per arrivare cittadini ucraini, soprattutto madri con bambini. Si raccolgono abiti, giocattoli, beni di consumo a lunga scadenza al Chiosco delle Palme in Molo Italia da oggi (28/02/2022) dalle 11:00 alle 14:00. Condividete grazie! No peluche, no. Sono qui con Katarina al molo. Solo vestiti x bimbi, generi alimentari e calze pesanti da uomo x chi è al confine. Fino a mercoledì raccoglie, poi giovedì mattina parte x la Polonia. Ha noleggiato un pullman e porterà giù solo donne incinte e bimbi."
Nel post precedente scrivevo una frase molto giusta: “Non saremo in grado di controllarne l'autenticità. Sarà compito vostro se vorrete lasciargli il "dono sospeso" che richiedono. Ciò che sempre conta è l'intenzione. Meglio un generoso di un diffidente. Un generoso non sarà mai prosciugato. Altri aiuteranno lui. È un Credo che bisogna imporre moltiplicando gli esempi.”

IMPORTANTE! Al chiosco delle Palme non accettano denaro ma potete consegnargli sacchetti della spesa di cibi durevoli. Io ho scelto di aderire all'appello della CRI

Il 5 ottobre 2020 scrivevo: “"Il dono sospeso" origina questo nome dal "caffè sospeso" inventato dalla generosità dei napoletani che offrivano un euro per un cliente che non poteva pagarselo. Gli sono seguiti il "pranzo sospeso" e ora, al tempo della pandemia, la "spesa sospesa", diffusa un po' in tutto il paese. Questa bellissima iniziativa s'incontra con l'aiuto che si riceve e che non si riesce a compensare direttamente con ugual misura alla persona del donatore ma che si può destinare a sua volta a un altro. È l'aiuto circolare, il "dono circolare". Ciò che si dona, che si mette in comune, in qualche modo ritorna, in altra forma, da altre mani che offrono. Qui, in questi sette mesi di vita del gruppo, è così per la Donazione Culturale. Si mettono in comune i propri elaborati artistici originali attraverso i quali ci esprimiamo e il piacere del donare s'incontra con la gratitudine di chi pesca miracolosamente in un mare molto più ricco di proposte di bellezza. Un mio grazie a tutti per il vostro 
"DONO SOSPESO".
Paolo Luporini
Mia moglie Joanni è rimasta incinta 22 anni fa e tutti gli abiti da gestante e da neonato, bambino, ragazzo, sono stati donati a chi li ha accettati come dono gradito, anche se erano usati. S’è fatto lo stesso con carrozzina, passeggini, seggiolini per auto, per bicicletta, scalda biberon, vaschetta per il bagnetto, TUTTO. E quando dico tutto è tutto! Abbiamo conservato un berrettino estivo e un sonaglio con il quale nostro figlio neonato s’intratteneva, sono i nostri due unici ricordi. Darò un contributo in denaro, se l’accetteranno. Andrò domattina, anche per prendere visione e rendermi conto. 

Il mio viaggio in Ucraina è stato il regalo di mio papà per la Maturità scientifica. Avrei avuto davanti molti mesi di libertà prima dell’inizio delle lezioni di Medicina all’Università di Genova e mio papà conosceva due adulti che stavano preparando un viaggio che aveva come meta Kiev, partendo da Spezia con la 124 sport rossa di uno dei due, il meccanico della FITRAM, l’azienda di trasporti pubblici di cui l’ATC ha preso il posto. Da quel lato non avremmo avuto problemi. L’altro era falegname, lavorava in proprio ma vendeva come concessionario una marca di cucine fabbricate in Toscana. C’era pure un altro che si ritirò e che conobbi un pochino, molti anni dopo, come amico e avversario del gioco degli scacchi di Federico “Lucio” Paganini, un amico e scrittore, un compagno della Lega dei Comunisti, fondatore dell’Unione Inquilini a Spezia, che ci ha lasciato nel 2019. Loro tre avevano programmato l’itinerario e aspettavano i visti dall’Intourist, l’agenzia di viaggi sovietica. Mio papà chiese loro di richiedere un visto a mio nome al posto di quello che aveva rinunciato. Il viaggio cominciò il 4 agosto 1974, ho ricostruito la data con l’aiuto di Wikipedia, perché nella notte precedente era esplosa una bomba sul treno Italicus provocando una strage. La Polizia Stradale fermava le auto in partenza ai caselli autostradali alla ricerca di armi per dimostrare un’attività di rappresaglia. La nostra preparazione era stata un po’ frettolosa e, oltre ad aver messo in valigia qualche paio di calze di nylon, magliette colorate, chewing-gum, jeans supplementari da scambiare con i rubli, avevamo installato un mangiacassette Philips che il tramviere fissò all’accendisigari dell’auto usando il mio coltello scout da campeggio, che io tenevo nella valigia. Dopo averlo usato per spelare i fili elettrici, lo ha schiaffato nel portaoggetti al di sotto del cruscotto lato passeggero e si è dimenticato di restituirmelo. Così quando il brigadiere ha chiesto di chi era io ho risposto che era mio e mi sono state rilevate le generalità ed io gli ho chiesto: “E ora cosa succede?” Quello mi ha risposto che mi avrebbe chiamato il pretore, mi avrebbe fatto un predicozzo e me l’avrebbe restituito, avvisandomi di essere più accorto. Invece sostenni un processo penale e il falegname fu il mio testimone a favore. Il brigadiere fece la sua relazione, l’avvocato che faceva pratica nello studio al quale mio papà si era rivolto confuse ciò che io gli avevo riferito, che quello era un coltello scout che serviva in campeggio e, mancandoci molti picchetti della tenda, io con quello me li sarei costruiti con qualche rametto. Lui scrisse che ci serviva per costruirci i paletti della tenda. Il pretore, che non stava capendoci nulla, chiese al falegname: “Voi, i paletti della tenda, li avevate?” E quello: “Sì.” Fui condannato e mi fu sospesa la condizionale ma non scontai nessuna pena perché ricorsi in Appello e il titolare dello studio, praticando uno sconto a mio papà, mi difese lui stesso, scegliendo una tattica che nascondeva l’errore del collega del primo grado ma che faceva leva sull’incoraggiamento ai giovani che praticano vita sportiva all’aperto come il campeggio. Fatto sta che fui assolto. Ma tutto questo iniziò solo molto tempo dopo il nostro ritorno dal viaggio di 6300 chilometri che toccò solo paesi del socialismo reale comunista. A quel tempo c’era da attraversare la Jugoslavia, Zagabria, Belgrado, poi il confine con la Romania, dove incontrammo tre nostri amici spezzini, tra i quali uno che di cognome fa Susanna. Ci trovammo in Transilvania, sui Carpazi, il paesaggio era molto selvaggio e rurale, il pane nero era buono, come la loro marmellata, che comprammo dai contadini. Cominciammo a regalare qualche pacchetto di cingomme. Nella prima grande città in cui ci fermammo incontrammo un italiano, che fu molto contento di fare la nostra conoscenza. Ci disse che era di Campobasso, era arrivato solo da cinque mesi e si era già sistemato benissimo. Gestiva traffici loschi e aveva due ragazze che si prostituivano per lui. Noi lo lasciavamo parlare, non avevamo niente da fare, in quel bar. Lo salutammo per andare al ristorante, lui voleva consigliarcene uno di un suo amico. Gli abbiamo stretto più volte la mano, gli abbiamo augurato buona fortuna e ce lo siamo tolto dalle palle! Ecco cosa ci faceva un italiano sotto Ceausescu! Nel pomeriggio del giorno dopo, gli autisti che si scambiavano alla guida erano entrambi stanchi e trovammo un ruscelletto con un prato, c’erano delle oche e noi ci cucinammo una pasta sul fornelletto a gas da campeggio e dopo ci facemmo una dormita. A me venne in mente che potevamo essere facilmente aggrediti, in un posto così, gli diedi la sveglia e ripartimmo. La notte la passammo a Bucarest, in un vero grandissimo campeggio con piazzuole attrezzate e bagni, bar, una discoteca. Ma noi visitammo la capitale di notte, giusto per un’ora, perché tornammo alle brandine. Ci attendeva la Moldavia, e al confine ispezionarono i nostri documenti, i visti, ci perquisirono discretamente ma posero l’auto sopra un ponte e la controllarono anche da sotto, staccando i rivestimenti delle portiere, svuotando il bagagliaio e le valigie. A un certo punto ci chiesero in inglese una serie di domande, tra le quali quella se avessimo con noi riviste politiche o religiose. Il falegname, sorridendogli, disse a bassa voce: “Sì. Abbiamo due intere annate di Famiglia Cristiana!”. Dicendo così, si era premurato che lo sentissimo solo noi e l’ufficiale doganiere non intese nulla. Ci fecero entrare in Unione sovietica, e la Moldavia ci si presentò con i suoi perfetti vigneti che utilizzavano come pali per i filari dei profilati stretti e di pari lunghezza di cemento. Belle colline assolate, Khishinev una bella capitale, un assaggio di un ottimo Riesling, un buon pranzo. Poi Odessa, una città vastissima, enorme, e per trovare il campeggio dovevamo fermarci spesso a chiedere conferme e quel ruolo toccava a me, che avevo studiacchiato un manuale “Io parlo russo” con le frasi in italiano e la traduzione sotto, divise per argomenti. Avevo studiato le forme di cortesia, le direzioni, i numeri, certe parole molto utili come ‘semaforo’, ‘piazza’, ‘viale’, e la frase che ho ripetuto più spesso è stata una domanda: “Gdiè kiemping?”, che vorrebbe chiedere dov’è il campeggio. In molti casi la domanda cadeva a vuoto perché molti non lo sapevano, poi trovammo uno che di pomeriggio aveva bevuto sin dalla mattina. Ci disse che era un tedesco e che la democrazia non è buona, così come non è buono il comunismo. Cos’era buono? Il Socialismo Nazionale!”. Non sapevamo come scappare da questo sovversivo nazista scampato ai gulag, cha aveva infilato le braccia e la testa nel nostro finestrino e mi parlava al di sopra della mia testa, che tenevo abbassata per non sentire il puzzo di vodka. La fortuna, o il KGB, chissà! ci venne incontro, quando, sganciato l’hitleriano al seguito di Von Paulus, un motociclista con un casco di pelle ci chiese se ci fossimo persi e ci precedette sino al cancello del camping, dove conoscemmo un fratello e una sorella polacchi che erano miei coetanei ed erano lì in vacanza con la mamma e il papà ingegnere. Erano benestanti e andammo a cena con loro già la prima sera. Assaggiammo una vera cena russa, con la particolarità che si pasteggiava a volontà con vodka o spumante Sovietskaja, che ricordo molto buono. Nelle pietanze offerte in questi ristoranti non mancava mai una specie di sofficino con un buon ripieno e un’insalata condita con panna acida in cui non mancava mai il cetriolo. Il cetriolo era quasi dappertutto e in molte forme e gusti, a riccioli, a fettine, alla julienne, sott’aceto, crudo, con il sale o con l’onnipresente panna acida. In tutti i ristoranti in cui siamo stati ogni sera in Ucraina non mancava mai l’orchestra e noi facemmo ballare a turno la ragazza polacca, che si chiamava Ewa. Lei e il dipendente FITRAM si piacevano e scambiarono il posto per sedersi vicini ma poi non successe nulla tra loro. Secondo me quei due fratelli non erano del tutto normali, avevano delle stranezze. Però sapevano conversare, in inglese, e trovammo molti punti d’accordo sugli argomenti che toccavamo, primo fra tutti quello della bellezza dei viaggi, e i miei due compagni ne avevano già molti da raccontare. Io ero stato solo in Francia e in Svizzera, se la Città del Vaticano non conta. Il papà di Ewa e Mariusz, l’ingegnere, ci regalò quella notte una grossa scatola azzurra e nera che aveva acquistato sull’aereo dell’Aeroflot che li aveva portati lì da Legnica, la loro città polacca. Era caviale nero del Volga, una scatola enorme. Per tutto il resto del viaggio ci pasteggiavamo spalmandolo abbondantemente sul pane e sul burro. Alla fine del viaggio ne rimaneva ancora metà contenuto, ma la spartizione fu fatta in modo che toccò, a mia insaputa, a uno solo degli altri due. Ho una mia idea a quale dei due sia toccata in sorte, ma non vorrei sbilanciarmi né avanzare accuse. Il giorno dopo, i due polacchi facevano una gita con i genitori e noi pure decidemmo di andare a nuotare nel Mar Nero. Ci imbarcammo su un vaporetto che ci portò a una spiaggia. Era vasta, ma sparsa di alghe asciugate dal sole. Il Mar Nero ne è pieno e il bagno in mare, in quelle condizioni, è una pratica sgradevole. Per togliermi di dosso quella fanghiglia viva aspettammo a lungo in coda per la doccia, tra uomini e donne vocianti in ucraino o in russo. Per distrarci, ci raccontavamo vecchie barzellette in spezzino. Sul vaporetto al ritorno adocchiai una ragazza bionda e con un fisico atletico in minigonna con dei libri di scuola legati con una cinghia, come usavamo anche noi al liceo, per non portare più la cartella. Attaccai discorso in inglese e lei rispose che si chiamava Galina Pavlova (Pavlova è un genitivo femminile che si traduce ‘di Paolo’), le guardavo le gambe da seduta e lo sguardo saliva dalle caviglie sul polpaccio e ruotava sulle ginocchia. Quella splendida ragazza studiava per diventare istruttrice di educazione fisica e la sua specialità era di Atletica. Non intesi quale, ma posso immaginare che facesse i 200 metri piani. Prima di scendere dal vaporetto la invitai a ballare alla discoteca del camping, promettendole che l’avremmo riaccompagnata a casa con la 124 sport rossa. Promise che sarebbe venuta. Gli altri due si complimentarono con me per la mia conquista. Galina si presentò in discoteca, c’erano anche Ewa e Mariusz, io mi lanciai con lei nella pista e ballare i lenti mi procurava sensazioni eccitate che non sapevo come sfogare. Avrei dovuto portarla in tenda. Invece l’ora, e l’occasione, passarono e dovemmo riaccompagnarla a casa. Lei ci indicava la strada. Lei nel posto davanti a lato del guidatore, io dietro che rimuginavo. Un posto di blocco della polizia ci fermò vedendo la ragazza russa e ci chiese i documenti. Volevano la patente dell’autista, lui non la trovava e gli dette il libretto della macchina. I poliziotti aprirono quel foglione pieghettato, ne scrutarono ogni riquadro, ma non trovarono la fotografia. La società sovietica era un po’ bacchettona e sospettarono che la ragazza si prostituisse oppure che avrebbe potuto fare una brutta fine nelle mani di noi stranieri e la fece scendere dalla nostra macchina e la fece tornare a casa sua a piedi. La Galina di Paolo non la rividi mai più. Ci lasciarono andare ingiungendoci di tornare subito al camping, loro avrebbero controllato. Mogio mogio, presi sonno guardando un punto della tenda vicino all’asta di colmo, proprio sulla mia testa. Il giorno dopo partimmo per Kiev e dovevamo percorrere una lunga strada senza fermarci prima di arrivare nella capitale. C’erano deviazioni, segnalate da cartelli a freccia, di legno con una scritta dipinta a mano che diceva ‘obdiesa’ e che spesso puntava su una strada di terra molto polverosa costruita su un piano più basso della carreggiata interamente in riparazione (le deviazioni erano su entrambi i lati, per ciascun senso di marcia) ed erano lunghe anche chilometri, ma sempre perfettamente diritte, in una sterminata pianura coltivata. Campi enormi, camion grandissimi, vecchi e nuovi. Quelli vecchi avevano davvero molti anni e le auto, tra le quali quelle costruite a Togliattigrad dalla Fiat, erano sporche e di colori di un’epoca precedente. Auto come la nostra non se ne vedevano, ci distinguevamo. Dove c’era qualche albero, trovavamo uomini che ci facevano segno ruotando le mani una sull’altra. Alle prime, non capivamo, poi io ci arrivai. Volevano dirci “Currency”, ci proponevano di cambiare i nostri dollari in rubli ad un cambio vantaggioso per noi, ma di nascosto dall’autorità. Non sapevamo che avremmo poi, all’uscita dell’URSS, dovuto dimostrare con i nostri acquisti e con il denaro rimastoci in mano come avevamo speso la differenza con i soldi con i quali eravamo arrivati. 
In questi cambi ci chiedevano pure pezzi di vestiario. Uno si prese una t-shirt con la scritta “CUCINE TONCELLI”. Se questo mobilificio esiste ancora, forse quel tipo gli sta ancora facendo pubblicità. Oppure ora è già morto di vecchiaia oppure sta imbracciando un fucile per difendersi dai russi che avanzano o per portarsene qualcuno con sé prima di soccombere. 
Procedendo con l’auto sportiva, ci trovammo in una lunga strada con poca circolazione di vetture e c’era la particolarità che erano colline lunghissime. L’autista proprietario dell’auto, il meccanico della tramvia, ci disse che, una volta arrivato sulla cima della prima collina, con un piccolissimo filo di gas all’auto, raggiungeva la cima della collina seguente e così via, senza sforzo del motore, senza consumo, come nelle montagne russe. Noi le avevamo scoperte in Ucraina, le montagne russe! 
A Kiev, in un parco divertimenti, trovammo delle montagne russe molto veloci costruite interamente in legno, come quasi tutte le attrezzature dei divertimenti del parco. C’era un bilancino che era una barchetta stretta e lunga e curva che era incernierata a pendolo a un sostegno orizzontale superiore fissato a una struttura che poggiava a terra. Un’altalena, insomma, a due posti opposti, che i due uomini dovevano far oscillare spingendosi ad archi sempre più estremi. Ai miei due compagni adulti quell’altalena piaceva molto, non volevano andar più via da lì sopra. Poi scoprirono che era pure un po’ difficile fermarsi e scendere. Dovetti aiutarli. 
A Kiev trovammo facilmente il camping e dormimmo anche nella mattinata. Non era più il caso di fare colazione e, in una traversa della strada principale del centro di Kiev, la Chreščatyk, trovammo un locale molto strano, che era un fast-food sovietico per operai, dove si ordinava a un bancone protetto da una vetrata dalla quale, da un’apertura, passavano le pietanze, i soldi, gli scontrini, come nelle nostre farmacie di oggi. Dietro il vetro c’era una cuoca che faceva tutto lei. Nel locale c’erano dei tavolini alti e tondi su piedistalli adatti per mangiare in piedi. Si pagava poco ma io mangiai del pane e un wurstel di maiale che fu la cosa più grassa che abbia mai mangiato, più del lardo che invece ha un ottimo sapore, da noi.  
Tornammo insoddisfatti in questa enorme e lunga Prospektiva e camminavamo lentamente guardandoci intorno proprio come turisti, mirando alle cime degli edifici più architettonici, quando fummo raggiunti da un ragazzo biondo non molto alto che ci chiese di seguirlo in un punto in disparte. Parlava un ottimo inglese, era uno studente universitario, ma era del Komsomol, l’organizzazione giovanile del PCUS, il partito comunista dell’Unione Sovietica. Temeva che i suoi professori lo vedessero parlare con degli stranieri. Ai tempi di Breznev una cosa così non era ben vista e poteva giocarsi la carriera universitaria se lo estromettevano dal Komsomol. Anche lui voleva comprarci degli indumenti occidentali ma era anche curioso di confrontarsi, nascostamente, con degli stranieri come noi. Si propose di farci da guida. Non pretendeva un compenso. Saliva sulla nostra auto o ci spostavamo con i tram pagando tre copechi. Io feci il calcolo che una corsa là costava nove lire quando un nostro stipendio poteva essere di trecentomila lire. Mi parve pochissimo anche l’affitto di una casa, che era fissato al 10 per cento del salario. Era un obiettivo propagandato anche in Italia dal PCI. Qualche anno dopo lo voleva così l’Unione Inquilini, ma non più il PCI, che voleva ingraziarsi i commercianti e i proprietari di case. Igor, così si chiamava il nostro nuovo amico, ci descrisse molte cose della società sovietica ma anche dell’Ucraina e ci avvertì che la lingua e la cultura ucraina stavano per essere messe in secondo piano dal regime, che voleva imporre l’uso della lingua russa in tutte le situazioni sociali. Ci fece conoscere, quel pomeriggio, una sua amica, Irina, una ragazza molto bella con un corpo perfetto, che poteva essere una Ava Gardner ucraina. Aveva i capelli di color castano scuro e indossava una gonna stretta da una fascia rossa in vita e portava scarpe con il tacco. La camicetta bianca le mostrava una forma perfetta. Igor ci promise che a cena avrebbe portato anche la sua fidanzata Natasha. Anche lei elegante, teneva i capelli biondissimi raccolti dietro la nuca come Virna Lisi. Era di una bellezza perfetta, la più perfetta russa che non aveva nulla dei caratteri duri propri degli slavi. Per noi, trovarci in loro compagnia era una cosa stupenda, eccezionale. Igor ci avvertì che Irina era un’amica libera e, se lei lo avesse voluto, qualcosa sarebbe potuto succedere, con uno di noi. Piaceva a tutti e tre, perciò nulla accadde, ma l’armonia di momenti così belli di quell’amicizia a sei fu un momento mai rivissuto né da me né dagli altri, immagino. Ogni sera andammo in un ristorante diverso, una volta in un palazzo dove il ristorante era su molti piani e un piano era riservato a ragazze e donne che si prostituivano e la cosa era permessa dal regime. Noi, nel nostro piano due piani più sopra, stemmo benissimo e ballammo con le due ragazze nostre amiche ma si poteva chiedere di ballare anche a un’altra signora accompagnata che sedeva in un altro tavolo. Poi la si riaccompagnava, si ringraziava e si salutava. Ci abituammo a tutta quella vodka e alle molte pietanze che si ripetevano anche in ristoranti diversi. C’erano anche buoni dolci. Avevamo molte cose da dirci e si toccavano pure temi che si supponevano tabù per l’altro. 
Igor ci fece visitare la casa dove viveva con i genitori, in un enorme fabbricato rettangolare, un parallelepipedo che era un vero alveare. In tutto quell’isolato, ci disse, solo una famiglia possedeva un’auto. C’era ordine e pulizia, nella casa, pulita e ordinata. Il nostro amico falegname notò subito che gli armadi erano malfatti, sghembi, un lavoro tirato via da operai che non amavano il lavoro ben fatto. Eppure, così storti, le ante si chiudevano lo stesso. Igor ci mostrò i programmi televisivi e c’era una notevole frequenza di balletti folkloristici georgiani. Glielo facemmo notare e lui ci rispose che forse nel partito, ad alto livello, c’era un dirigente a cui piacevano molto. Poi ci fece sedere su un divanetto e mise due sedie vicine e ci mostrò una vecchia rivista che conservavano gelosamente. Era del funerale di Stalin e lui ci confessò che la sua famiglia aveva creduto in quel piccolo padre che per loro aveva fatto tanto bene al suo popolo. Se ora era venuta avanti la destalinizzazione, non erano migliorate le cose. 
Ci disse però che d’estate, a turno, le famiglie, i giovani, i ragazzi, le ragazze, i bambini, avevano la possibilità di fare le vacanze al mare, loro andavano a Sochi, dove potevano fare pure le cure termali, tutto a spese dello stato, così come la Sanità totalmente pubblica. 
Igor preferiva che i nostri incontri avvenissero nei parchi, nei quali era raro poter essere osservati in modo che qualcuno gli potesse fare delle spiate. Ripeto che gli stranieri erano visti con sospetto perché accusati di contagiare con il consumismo e l’ideologia occidentale la purezza dei loro giovani. Noi avevamo le cassette di De Gregori che ci facevano da accompagnamento nel nostro viaggio di 6300 chilometri. Ricordo l’ossessione di non capire il significato delle frasi poetiche della canzone Alice non lo sa. Un trauma ripetuto tutte le volte che la cassetta ritrovava quel punto del nastro. 
Invece Igor ci portò a pranzo, un giorno che tutti e sei eravamo insieme, in un ristorante sulle rive dello Dnjepr, dove avevamo preso il sole in costume e loro tre avevano fatto pure il bagno. Noi non ci eravamo fidati. Il ristorante somigliava alla casa di un mugnaio. C’era la ruota. C’era una zuppa a base di funghi cotta in un orcio di terracotta coperto da della pasta e cotta in un forno a legna. Mai più ho ritrovato in una zuppa un gusto così buono e mi rammarico di averla mangiata troppo ingordamente e di non saper individuare gli ingredienti che c’erano. Il coperchio di pasta era diventato pane e si sbocconcellava ad ogni cucchiaiata della zuppa. Lì c’era un juke-box e misero in nostro onore I Ricchi e Poveri e Bandiera Rossa, ma a noi (di più a me) piacque un brano che s’intitolava “Cascata”: era davvero bellissimo e anni dopo riascoltai in tv un motivo simile che me la ricordava tanto. 
Un giorno prima del nostro addio ai nostri amici, li portammo in un negozio Beriozka, un negozio statale che vendeva merci di lusso in cambio di valuta pregiata straniera. Per uno di loro era difficilissimo acquistarvi qualcosa. Regalammo a Natasha un bellissimo berretto di pelliccia di colore chiaro che le donava moltissimo. Era proprio adatto a lei. Irina fu molto contenta di ricevere una lunga collana d’ambra naturale molto preziosa e a Igor regalammo un orologio da polso che si adattava al suo tipo. 
Il pomeriggio successivo fu proprio quello del commiato e Igor portava ad una panchina di un parco uno scatolone. Eravamo tranquilli, nessuno ci disturbava, ricevemmo uno alla volta i loro regali più adatti a ciascuno di noi. Non riesco, pur sforzandomi, a ricordare i regali ricevuti dai miei due compagni di viaggio ma io ricevetti regali che conservo tuttora: una copia di un libro in inglese dal titolo “Coonardo”, una cartolina stereoscopica nella quale l’immagine di un palazzo appariva tridimensionale e con un senso di profondità  e prospettiva accentuato da due grossi alberi fioriti in primo piano sui due lati, poi un rasoio elettrico russo con il cavo e la spina (da noi erano rari e costosi), la chiave di San Pietroburgo, come se fossi un cittadino onorario di Leningrado: era un souvenir di famiglia riciclato per me. Di tutti questi regali, quello che ho più caro è proprio questa grossa chiave che riporta nell’anello pieno la pianta di una fortificazione antica, I miei posteri la regaleranno a un rigattiere. Io, per me, in quel viaggio mi ero comprato una serie completa ma molto piccola di Matrioske, un colbacco grigio dell’Armata Rossa, con un distintivo che non vi era mai abbinato ma che a me piaceva di più (ce l’ho ancora!) e una dozzina di piccoli “pins”, piccoli distintivi celebrativi di eventi di partito dei quali i ragazzi pionieri o del Komsomol si fregiavano riempiendosene il petto come il generale Figliuolo con le sue medaglie. Fu un addio molto sereno che mi ricorda una scena di Hair nella quale Sheila accompagna all’auto il suo Claude che deve sostituire l’amico George Berger che invece parte per il Vietnam e muore al posto suo. Se m’immagino una tragedia simile per uno di quei tre amici con cui per un po’ ho allacciato una corrispondenza in inglese, essendoci scambiati gli indirizzi, mi commuovo e provo pena, come per quei tanti che nella vita ho incontrato, ci siamo scambiati parole d’ordine preziose, lasciapassare che ci hanno fatto tornare alla base ma che ho perso di vista e non ritroverò mai più. 
L’ultimo giorno di Kiev fu un giorno di calore bollente e volevamo visitare la Grande esposizione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Vi erano esposti i record da Guinness dei Primati sovietici, che facevano una gara impossibile da vincere con i record americani, che hanno tutto più grande, più alto, più piccolo, più lungo, più tutto! C’erano macchinari che mi dettero l’impressione di obsolescenza ma che erano presentati come realizzazioni eccezionali. Io non ne capivo né la natura né l’uso. L’unico ricordo di un record che capii benissimo anche da lontano avvicinandomici, fu il maiale più grosso che io abbia visto su questa Terra, sebbene non ne sia un cultore esperto. Non era Breznev, come qualche spiritoso potrebbe dire adesso che è innocuo e sotto alcune palate di terra o in un fottuto mausoleo come di solito compete a quelli come lui, ma un vero animale ancora vivo (che non mi parve molto in salute), sdraiato nel suo strame, nauseabondo ed indifeso, recintato da una stretta staccionata che ce lo lasciava vedere ma che lo conteneva a malapena. Non era in grado di muoversi e non lo sarebbe stato comunque. Ebbi pena per quell’essere vivente che, come studiai l’anno dopo, aveva un cuore molto simile a quello umano, talmente identico che gli studenti di medicina se ne comprano uno per studiarne l’anatomia comparata (e poi se lo fanno cucinare dalla mamma, che ci nutre tutta la famiglia). 
Il CUORE IN FIAMME che è in me ha pietà di quel maiale, ma di più per le vittime di questi giorni, anche di quei russi mandati a invadere, a far morire e a morire loro stessi per conto terzi, per l’interesse di oligarchi che, se la decisione presa diventa controproducente, sono pronti a detronizzare Putin e a fare passi indietro perché una scelta differente potrebbe rendere loro di più. 
All’uscita dalla Grande Esposizione tornammo alla 124 sport rossa e scoprimmo il furto perpetrato da un braccio infantile che si era infilato dal lunotto posteriore lasciato aperto perché non bollissero gli interni. Aveva sfilato un giubbotto e, Last but not the least, all’interno di una delle tasche di tela di jeans, c’era il portafoglio dell’autista-meccanico FITRAM, con i suoi dollari, i Traveler's cheque, i documenti. Per fortuna, il passaporto lo aveva nella tasca dei pantaloni che stava indossando. Facemmo una denuncia alla Polizia russa, che ci fece attendere ore per far arrivare un’interprete adatta. Sino a quel momento abbiamo tentato di spiegarci in italiano con un poliziotto che parlava spagnolo e che però desistette e ci convinse a una partita di dama giocata alla russa, però. Con una pedina strisciò tutta una diagonale e andò a mangiarsi una Dama all’altro capo della scacchiera. Alla nostra sorpresa, rise di gusto perché, così facendo, vinceva tutte le partite. 
Finalmente arrivo una signora che sapeva l’italiano e potemmo farci tradurre la nostra denuncia e la nostra richiesta di un anticipo di denaro per il viaggio di ritorno da restituirsi da parte nostra alla loro ambasciata di Roma. Poiché nessuno di loro capiva l’inglese e soltanto uno parlava tedesco (che noi non capivamo), a parte il giocatore di dama parlante castigliano, tutti capirono il russo dell’interprete che noi speravamo avesse interpretato il nostro italiano e tradotto correttamente in russo ciò che le avevamo detto. In ogni caso, presto ci presentarono dei documenti simili a verbali tutti in alfabeto cirillico che furono firmati dal derubato. I soldi che gli anticiparono non gli servirono perché i soldi del viaggio li pagammo noi altri due.
Volevamo passare al ritorno dall'Ungheria e il guidatore sfrecciava in una strada che attraversava l'aperta campagna. Io, che seguivo i nostri progressi sulla cartina, avvisai gli altri due che mancava poco al confine, così l'auto rallentò e osservammo, in una curva della strada, un albero ombroso sotto al quale sostavano due bambine con un bambino piccolo. Giocavano con dei fili d'erba. La più grande, con un casco di capelli biondissimi e il viso e le braccia abbronzate, gli occhi celesti, reggeva con una mano un girasole bellissimo. L'autista bloccò la macchina e scese, seguito da noi. Quella bambina era bellissima e fiera ma serena. Il falegname le propose lo scambio del girasole con tutti i pacchetti di chewing-gum rimasti. Lei accettò e continuava a salutarci con la mano quando ripartimmo ringraziandola con la parola russa più bella: spassibo. Mentre scrivo, la rivedo salutarci dal lunotto posteriore della 124 sport rossa, un'auto che fece molta impressione in chi la vide in Ucraina come se fosse una Ferrari. Noi, salutando quella bambina e trattenendo il suo girasole, ci sentimmo molto poveri perché possedevamo le cose ma avevamo perso lo stupore di cose belle ma senza un prezzo, addirittura gratuite, come un sorriso, un saluto, l'amicizia e la simpatia profonda tra stranieri che riuscivano a riconoscersi, nelle diversità, di un'unica appartenenza.
Diretti in Italia, dopo il pernottamento in una camera presso una vecchina di Budapest che doveva essere la nonnina di un procacciatore abusivo incontrato in un mercato all’aperto, e che ricompensammo con una mancia. Quel genere di bed & breakfast, con una colazione con salame piccante alla paprika, era un’attività tollerata dalla polizia che però voleva essere avvisata delle generalità degli ospiti. Avemmo così anche noi una notte a Budapest, che percepimmo come una città bella ma di gente triste che risentiva ancora dell’oppressione sovietica della loro rivolta del ’56 e, per simpatia, della fine tragica della Primavera di Praga. Ci fermammo un’altra notte a Lubiana, mi sembra, e arrivammo a Spezia dove i miei genitori mi fecero leggere l’articolo di giornale di uno dei due quotidiani spezzini del 5 agosto, in cui compariva il mio nome insieme a quello di altri quattro fermati su altre auto con ogni genere di arma uscita da qualche arsenale di guerra clandestino, trasportato in auto come il mio coltello da campeggio. Nello stesso giornale era riportata la notizia della rivendicazione della strage dell’Italicus da parte dell’organizzazione terroristica neofascista Ordine Nero. 
La mia Ucraina è finita in un’assoluzione e in tutti questi ricordi che vi ho raccontato. 
Certamente ora è molto diversa. Moltissime cose sono cambiate dal crollo dell’impero sovietico. Ora la Federazione russa non è meglio. Per le scarse informazioni che possiedo, l’Ucraina di oggi è diversissima da quella che ho conosciuto io. Spazio e Tempo hanno rotto un continuum ma le molte vite in pericolo in Europa non sono argomento di opinione. Occorrono scelte ragionevoli da parte di tutti gli attori sulla scena. Un gesto o una battuta recitata male potrebbero far saltare tutto lo spettacolo.

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