C’ERA UNA VOLTA UN DORY IN PALMARIA

 



Paolo Luporini

 

Anche questa volta il titolo non è preciso. Avrebbe potuto essere un Boston Whaler. Dory e Boston Whaler erano i due modelli di natante di quel tipo simile che al Salone della Nautica di Genova avevano sempre intorno folle di aspiranti marinai che non potevano permettersi spese superiori. Tra questi c’era mio zio Vittorio, che è un pavese di provincia, che, avendo soggiornato per due o tre anni negli anni cinquanta a Portovenere con le sorelle, d’estate, si era appassionato al mare e sognava di pilotare un bellissimo Riva, il motoscafo dei divi del cinema, un bolide del mare che concede tuttora al lusso e all’eleganza un mito che gli viene dall’essere sempre stato il taxi dei divi, a partire da Hemingway per arrivare al più recente Festival del Cinema di Venezia, arrivato alla sua settantottesima edizione lo scorso settembre. Non potendo coronare quel sogno (ha sempre sognato in grande), acquistò un “Gobbi”, ma avrebbe anche potuto essere un “Cranchi”, al nome della marca ci passò sopra, per il prezzo più modesto rispetto ai modelli simili più in voga. Aveva uno scafo sagomato nel modo più adatto per il moto ondoso fuori diga del nostro golfo, qualche comodità come il prendisole e i materassini, il volantino e i comandi dalla parte destra. Ci accoppiò un Evinrude da 25 CV, un buon motore. Il posto barca era al Circolo “La Rotonda” di Lerici, una boa alla quale si arrivava con un barchino a remi che doveva essere riportato ogni volta ai piedi dei gradini di fronte alla omonima piazza dei giardini di Lerici, contornata da altissimi pini.

Mio zio mi vuole un gran bene. Io sono un suo nipote che abita a Spezia e mi prestavo a fargli qualche commissione a distanza relativa alla barca, con la sua delega. Mi aveva concesso di usarla come se fosse a mia completa disposizione, passando sopra a raccomandazioni, regole, rotture di palle, ma lasciandomi libero di goderne come se fosse mia. Approfittai molto, in sua assenza, di questo natante, per scorrazzare in compagnia di amici e ragazze per tutte le spiagge raggiungibili con un pieno del serbatoio. Gli facevo sempre ritrovare un’abbondante quantità di miscela per un suo prossimo utilizzo. Molte volte andavamo io e lui o con qualche suo amico delle sue parti, ed entrai nel suo giro di amici simpatici con i quali mi adattavo a conversare nel loro dialetto, che era pure quello di mia madre. Alcuni li conoscevo già, per essere stato ospite, nelle vacanze estive, invernali e pasquali, del loro paese. Con alcuni di loro ho un legame di simpatia più che quarantennale, sono amici di 47 anni fa. Avevo vent’anni quando portai in barca la mia prima fidanzata, il mio amico Massimo e la sua, che è da tanti anni sua moglie, dopo un lungo fidanzamento. In seguito a quel battesimo del mare, fummo persino soci di una barca a vela di 6,5 m con un motorino ausiliario. Ne ho già parlato in altri racconti immaginari e forse ne riesumerò il ricordo in un prossimo racconto “C’era una volta la Vela attorno alla Palmaria”. Il Dory, o meglio il “Gobbi”, aveva una buona planata non appena si dava un po’ più di gas al motore. In poco tempo raggiungevo da Lerici le nostre spiagge preferite, senza zigzagare a vanvera come fa la barca a vela, che è una metafora più aderente al mio tipo di vita. Una barca a motore di quel tipo è per chi ama la velocità, non teme gli schizzi e il sale che ti resta sulla pelle, per chi ama nuotare nell’acqua alta o per chi apprezza le spiagge meno affollate. Non eravamo portati, allora, per la pesca, che è un’attività a cui molti marinai di quel tipo spezzino si dedica in ogni stagione dell’anno e in ogni ora del giorno e della notte. Diventeremo pescatori entusiasti della pesca alla traina, con la lenta velocità della barca a vela, che mio zio scoprì essere la sua vera passione, che felicemente mi contagiò, perpetuando un dono di esperienze bellissime, tra diporto, agonismo e lunghe crociere.

La Palmaria c’entra, perché la sua posizione, il carattere insulare, la ricchezza di bellissime spiagge, ne fece la meta di moltissimi giorni di mare e di sole. Il ricordo più bello è però della volta in cui andammo, i soliti quattro: io, Massimo e le fidanzate, sino alla spiaggia delle Nere, soffermandoci per un tuffo tra le rocce delle Rosse. Fu una godibilissima giornata in quel posto incredibile che solo qui abbiamo, io con un occhio all’ancoraggio della barca e la preoccupazione di non riuscire a salparne l’ancora. Fu un sottile tarlo per parte del giorno, almeno di tutte le volte che la inquadravo distraendomi dai giochi amorosi consentiti dal luogo che non era del tutto solitario ma molto intimo per la notevole distanza dagli altri bagnanti, i più vicini.

Stava per tramontare il sole, ma si alzò un poco il vento e temevo che avrei consumato troppa miscela al ritorno, perché il moto ondoso stava aumentando. Così ce ne partimmo, e il tragitto sino a Portovenere fu lungo e impegnativo, sia per il motore, sia per il vento contrario. Aggirata la punta di San Pietro, mi sentii più tranquillo, agevolato dalla corrente del canale che mi spinse sino al distributore dove ci rifornimmo facendo una colletta delle poche lire che avevamo con noi. Arrivammo alla Rotonda con poca luce e feci i nodi al tatto e a memoria per legare il barchino del circolo all’anello di ferro saldato nel più basso gradino. Le mamme aspettavano per la cena. La Grazia, che abitava a Pisa, era ospite della famiglia di Massimo, con cui condivideva la stanza.

Quando con la mia fidanzata non ci vedemmo più, dopo un viaggio catartico in Calabria ritornai a Spezia più forte e più sicuro di me stesso e feci amicizia con tre ragazze più giovani di me, tre amiche. Una era la sorella di un mio amico. Lei mi piaceva molto. Mi ricambiava la simpatia. Le nostre gite al mare o in auto erano botte di vita, fuochi d’artificio più belli di quelli del Palio del Golfo dell’anno scorso (non si dice sempre così?), ma un giorno le portai con la mia auto a passare una notte a Manarola. Conoscemmo tre tipi sconvolti di Genova. Loro li trovavano simpatici. Fu così che loro tre si misero con loro e la nostra amicizia finì perché loro s’incontravano con quelli a metà strada con il treno.

Foa ‘n sà, foa ‘n là, la me foa la se n’è andà!


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