QUALCOSA CHE MI È ACCADUTO CINQUANTA ANNI FA


QUALCOSA CHE MI È ACCADUTO CINQUANTA ANNI FA
Rudi Veo

Avevo diciassette anni e stando a quanto  dice Arthur Rimbaud, a quell'età non fai veramente sul serio, ma nel mio caso non sono così certo sia andata così.
Era capodanno, festa di liceali, amici di amici di amici.
Lei non l'avevo mai vista prima ma qualche amico di amico e di amica doveva conoscerla.
Non era di qui, anche se aveva qualche aggancio e parentela in città, la nonna credo. Abitava a Roma, un anno meno di me, studiava in un qualche famoso Liceo Classico.
Dobbiamo esserci riconosciuti dall'atteggiamento o ancor meglio dall'abbigliamento che lasciava capire che quello non era la nostra priorità.
Lei Montgomery blu, sciarpa rossa e un maglione multicolore che poteva uscirci con sua sorella minore dentro e risultare ancora una taglia medio-larga. 
Camicia a quadri, maglione di qualche isola a nord della Scozia e jeans era la mia mise per la festa di fine anno.
Ci fu uno scambio di pareri riguardo libri, musica, posti dove sarebbe stato bello vivere. Ci rivelammo i metodi preferiti per trasformare il mondo e dintorni in una magica comune libertaria, dove far sorgere una nuova umanità.
Qualche bicchiere di sangria, un ballo con le hit del momento, poi lei mi mise in guardia. 
Disse che stava con un tipo più grande, forse vent'anni-che ti sembrava una età inimmaginabile, al limite dell'essere adulto- e con lui aveva litigato, forse perché il ventenne si era preso un tempo di libertà che lei non avrebbe potuto avere. 
Alla mezzanotte ci baciammo, uscimmo all'aperto stretti a guardare le stelle.
Non ricordo se e cosa potrei averle promesso : una poesia lunga una notte, una canzone che avrebbe lasciato senza fiato una folla immensa ad un festival tipo quello di Woodstock.
Forse, semplicemente, potrei averle promesso che sarei andato a trovarla spesso nei fine settimana e gli altri giorni, le avrei scritto lettere, telegrammi e cartoline
Il Tempo, come sempre succede in certe occasioni, aveva una particolare fretta di dileguarsi e se la serata era una celebrazione di cambi di date, stagioni e annate,  di sicuro non vedeva l'ora di finirla quanto prima.
L'accompagnai fino a casa della nonna, non molto lontano da dove avevamo festeggiato.
-Ci vediamo, ma non domani che è il primo.
-Va bene dopodomani ?
- Va bene
-Statua di Garibaldi. Cinque mezza.
Allora feci presente al Tempo, che era stato così frettoloso in quelle ore di inizio giorno e anno, di usare la stessa misura per il divenire e che facesse volare le ore, che cacciasse via i minuti in una frenetica dispersione di attimi.
Finalmente  arrivò il secondo giorno dell'anno e soprattutto arrivarono le cinque e mezza.
Lei arrivò quasi in orario, ma a una decina di metri da me mi accorsi che qualcosa non era più come prima.
Lo dicevano i suoi occhi che sembravano cercare altrove, lo diceva il suo sguardo che sembrava volesse porre dei limiti precisi, prima di raggiungermi. Tutto parlava un linguaggio senza parole ma molto palese, preciso e inesorabile.
Poi vennero le parole e  mi disse che si era sentita col ventenne e non sapeva bene cosa pensare- ma era come dicesse che lo sapeva molto bene-e poi domani sarebbe partita e chissà cosa poteva venire fuori a causa della distanza e altre cose che si dicono, strazianti cose di circostanza, per non farti pesare un rifiuto.
 Ci lasciammo all'inizio di via Prione, dopo aver circumnavigato le aiuole dei giardini più volte, tra silenzi e accenni all'impossibile.
Ricordo la punta del suo naso che era gelido quando mi baciò sulla guancia, di sicuro ci siamo sorrisi lasciandoci.
Avevo diciassette anni e a differenza di come pensa  Rimbaud mi stavo prendendo molto sul serio. 
Avrei voluto svanire, avrei voluto sognare, avrei voluto svegliarmi e che tutto fosse come non molto prima.
Risalii via Prione con la sensazione che quella non fosse una mia decisione o meglio  che non avevo per niente decisioni da prendere e la rotta era una questione che riguardava le mie gambe. 
Le mie gambe avevano preso il controllo.
Ricordo solo una strana capacità di guardare lateralmente, nonostante avessi lo sguardo dritto all'orizzonte, forse l'orizzonte apparente, difficilmente quello terrestre.
Fu all'altezza della scalina Quintino Sella che le mie gambe si fermarono, svoltarono di novanta gradi a manca e  mi ritrovai dentro  Biso, dentro il negozio di musica, di strumenti e dischi.
Tra gli scaffali che esponevano gli LP, cercai alla lettera D, venne fuori un disco di Dylan che ancora non avevo.
Entrai in quelle bellissime cabine di ascolto, dotate di piatto, amplificatore e casse, insonorizzazione e una sedia;  un modello perfetto di capsula spaziale, che permetteva di scansare il quotidiano e ti catapultava nelle meraviglie del possibile.
La puntina sfrigolò e partì Queen Jane Approximately e piano piano tutto tornò ad avere un senso, anche se avevo diciassette anni, mentre le note del piano dialogavano con l'organo Hammond e Dylan cantava 
" Quando sono stanco di tutto questo ripetersi
Perché non vieni  a trovarmi Queen Jane ?"
Mi bastò quella canzone, era il disco che volevo!
Anche Mario, il commesso del negozio, si stupì della velocità di decisione che mostrai quel giorno.
Uscii e le premesse che sembravano oscurare, pochi minuti prima, l'orizzonte, il mio, quello apparente e forse anche quello geografico, non erano più così importanti.
Anche oggi come quel giorno è il due di Gennaio. 
Molte cose ad un certo punto se ne vanno. 
Non voglio usare il verbo finire, perché se vengono raccontate, intendo le cose, le storie, le persone, credo continuino a gironzolare, tra noi che ci conosciamo e anche tra noi che non ci conosciamo, e dunque, in un certo senso, ci sono ancora.
Raccontare, cantare, piangere una perdita permette di rivedere tutto in un altro modo, come riesce, a volte, una passeggiata imprevista,  una canzone che lascerebbe senza fiato una folla immensa ad un festival tipo quello di Woodstock, come una poesia che dura una notte, come un fado o un blues che ti sembra di aver già sentito ma ti fa star bene una volta di più.

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