OCCHI ROSSI

 


Per la necessaria giornata del 25/11 pubblico un racconto inedito di EDOARDO GALATOLA.

OCCHI ROSSI

Abituarsi a una città di cinquecento anime non è stato facile. Mi mancava tutto: cinema, ristoranti, shopping, persino il traffico. Ma vedere Sara e Luca ritornare a sorridere mi riempiva il cuore. E c’erano altri vantaggi.
“Ciao Giovanna, come stai? Ancora nessuno in negozio?”
“Adele, buongiorno. Ho appena aperto. Hai accompagnato i ragazzi a scuola?” ha risposto la mia amica.
“Di solito vanno da soli, ma oggi avevo lezione alla seconda ora. È bello sentirli chiamare ragazzi.”
“Sono grandi. Sbaglio o la signorina farà la licenza elementare?”
“Crescono. Quando chiudi per la pausa, vuoi passare a mangiare un boccone da me? Ho del brasato che ho preparato ieri.”
“Volentieri, mio marito torna stasera, al solito.”
“Dimenticavo, mi dai il solito mangime e una confezione di crocchette per Tabitha? È una gatta con gusti difficili.”
“Non ti preoccupare, li porto io. Ci vediamo all’una.”
I rapporti qui sono molto più informali, purtroppo solo con poche persone. Certo non con la panettiera. Elisa mi guardava dietro quella montatura dorata dell’ottocento come se fossi una creatura del peccato, sola con due creature. Anche salire i gradini in pietra che portavano alla rivendita aveva un che di penitenziale. Ma avendo invitato Giovanna, il pane dovevo prenderlo.
Ho finito di far lezione a mezzogiorno, così ho potuto preparare la tavola per due, mentre i bambini sarebbero tornati nel pomeriggio. Avevo il tempo di riordinare e spolverare. Su una vetrinetta erano esposti i miei gingilli. E la prima sorpresa.
Nella collezione di puffi, il ciclista era sparito. Era un ricordo di mio marito, a cui tenevo, nonostante tutto quello che era poi successo. Strano non fosse più al suo posto.
Giovanna è arrivata puntuale. Era un sollievo scambiare due parole con qualcuno. Lei e suo marito non avevano figli e mi avevano aiutata sin dal primo giorno del trasferimento. Le ho raccontato della sparizione. Mi ha detto di smetterla di conservare tracce di quell’uomo.
Ho messo il mangime che aveva portato nella voliera e versato le crocchette in una ciotola. Poi ci siamo sedute a tavola. Mentre mangiavamo è squillato il telefono. Sono sbiancata e rimasta impietrita. Giovanna si è alzata e ha risposto.
“Pronto? La ringrazio, il contratto luce e gas in essere è di nostra totale soddisfazione. A non risentirci.”
Ho sorriso timidamente. “I soliti importuni, vero?”
“Non raccontarmi storie, hai ancora paura che sia lui?”
“Sì. Ci ho messo un po’ a capire che essere picchiata e minacciata non era accettabile.” Ho abbassato gli occhi. “E che devo smettere di giustificarlo.”
“Elimina il telefono fisso, cambia il numero del cellulare e avvisa la polizia.”
Quando è uscita ho chiuso la porta a chiave e ho cercato di rilassarmi. Ho pensato di mettermi del rossetto e sono andata in camera. Mi è sembrato di vedere un’ombra, ma non ci ho fatto caso. Ho cercato quello che piaceva a lui. Che stupida, mi sono detta, mio marito non esiste più. Avrei messo quel rossetto perché piaceva a me. Se lo avessi trovato. La mattina ero sicura di averlo visto. Chi poteva averlo portato via?
Finalmente, a metà pomeriggio, sono arrivati i bambini. Una gioia: riempivano la casa e mi facevano dimenticare le ansie. Oggi niente compiti. Ho preparato la cena e poi abbiamo giocato insieme.
Quando sono andati a letto è rimasto un po’ di tempo per me.
Niente televisione, meglio un buon libro; ero alle prese con “IT”. Così catturata dalla storia che quando ho sentito uno stridio mi sono raggelata.
Non volevo alzarmi, avevo troppa paura. Ma pensando ai bambini soli a letto sono ugualmente andata a vedere. Avvertivo una presenza che non faceva rumore. Avevo i battiti a mille. Ho aperto la porta e acceso la luce. Era Tabitha. Avevo dimenticato la gatta.
Ho tirato un respiro.
Lei si è voltata e mi ha squadrato, con degli spaventosi occhi rossi. Dopo un istante lunghissimo è scappata ed è uscita dalla finestra, lasciando per terra il pappagallino morto. Luca aveva sempre detto che non stava bene in gabbia. Avrei raccontato che era volato via. L’ho fatto sparire ed eliminato le tracce.
A parte i soliti incubi la notte è passata tranquilla. L’indomani la notizia della fuga verso la libertà è stata accettata senza domande, poi Sara e Luca sono andati a scuola insieme. Io avevo due ore di lezione e poi dovevo correggere i compiti. Tornando a casa camminavo sovrappensiero, quando ho notato dei felini arruffati.
Tre gatti si contendevano qualcosa. Erano i resti di uno scoiattolo.
Si sono fermati a osservarmi. Avevano occhi insanguinati e malevoli e tra loro c’era Tabitha. Si sono allontanati con noncuranza, mentre io davo di stomaco.
Rientrata, mi ha preso l’angoscia. Lo so che sono carnivori, ma c’era qualcosa che non riuscivo a spiegarmi. Alla fine non ho retto; dato che i bambini non avevano doposcuola sarei andata a prenderli all’uscita. Ecco Sara, vederla era una liberazione; l’ho baciata e abbracciata, ma lei si è ritirata scontrosa, facendo segno di non gradire effusioni davanti ai compagni.
Le classi uscivano una a una, ma di Luca non c’era traccia.
Quando l’ultimo bambino si è allontanato ero ridotta a una larva. Sara non l’aveva più visto da inizio lezioni. Non sapevo che fare, c’erano troppi segni premonitori e il vuoto mi stava inghiottendo.
Ho cercato di resistere.
Mentre andavo verso la stazione dei carabinieri ho provato a chiamare i genitori del suo miglior amico, Dario. Ho chiesto loro di Luca in modo confuso. Non ne sapevano nulla, ma mi hanno detto di provare con Fausto, l’altro compagno di cui avevo il numero. Mi ha risposto la mamma. Luca era lì. Mi sono accasciata per l’emozione. Era andato a prendere il materiale per una ricerca e si era trattenuto più del dovuto. Me lo ha passato. Prima ho urlato, poi mi sono scusata, alla fine gli ho detto di aspettarmi. Quando siamo arrivati tutti e tre a casa, ho guardato in giro dappertutto, ma della gatta non c’era traccia.
Mi sono barricata dentro, comunicando il mio spavento ai bambini, anche se non riuscivo a spiegarne il motivo. Poi ha prevalso il raziocinio e nel pomeriggio, dopo essermi raccomandata di non aprire per nessun motivo al mondo, sono uscita e sono andata a trovare in studio il veterinario, papà di una compagna di Sara. È stato gentile, mi ha ricevuto e tranquillizzata. Mi ha confermato che girava una forma di congiuntivite, ma era passeggera e sarebbe passata da sola. Se però volevo fargli visitare il nostro gatto, lo avrebbe fatto volentieri.
Rinfrancata, ho deciso di festeggiare prendendo un dolce dalla panettiera. Quando ero nei paraggi, ho scorto un capannello di persone agitate intorno a Elisa che perdeva sangue dalla tempia.
Era caduta dalle scale, piena di graffi e in evidente stato confusionale. Nessuno aveva visto come era successo.
Un’ambulanza l’ha portata via per accertamenti.
I miei nervi erano provati. Vedevo felini dappertutto. Sono tornata a casa e ho sprangato la porta. Ho telefonato a Giovanna e abbiamo chiacchierato a lungo. Poi mi sono lanciata in una full immersion di giochi. Un puzzle da mille pezzi, una partita a Scrabble e una gara di disegni a Visual game. Mi sono addormentata nella camera dei bambini. Ero inseguita da gatti mutanti di dimensioni enormi cavalcati dal mio ex marito. Io mi difendevo con le unghie e con i denti e lo scontro era brutale.
Mi sono svegliata in un bagno di sudore senza capire subito dove fossi. Poi ho alzato le serrande e sono stata investita dalla luce primaverile, come se gli incubi fossero rimasti alle spalle. Avevo corso troppo con l’immaginazione e l’autosuggestione. Non ero una sciocca. Sapevo che dovevo affrontare le mie paure e darci un taglio; dovevo smettere di pensare di non essere abbastanza forte.
Ho preparato una colazione sontuosa e sono uscita a prendere una boccata d’aria prima di suonare la sveglia alla truppa.
Qualcosa, però, non quadrava. Quella macchina parcheggiata davanti all’uscio era la sua, quella che mi spaventava tutte le volte che la vedevo arrivare e con la quale aveva anche cercato di investirmi.
Il mio ex marito era al posto di guida, col finestrino aperto, il collo pieno di graffi, il capo ruotato in modo innaturale appoggiato al volante e gli occhi sbarrati: lo sguardo congelato in un’espressione di orrore. L’autocontrollo per proteggere i bambini è venuto meno e sono collassata, stramazzando al suolo.
Mi sono svegliata in ospedale, con una flebo attaccata al braccio. Sentivo voci in lontananza. Qualcuno diceva a qualcun altro che mi ero destata. Ero troppo debole per aprire gli occhi. Mi hanno fatto un’iniezione e ho preso lentamente coscienza. Ho chiesto dei bambini. Erano a casa di Giovanna e stavano bene. Il resto non importava.
Si è seduto vicino a me il maresciallo dei carabinieri.
“Buongiorno professoressa, come sta?”
“Non lo so. Sono svenuta?”
“Non si preoccupi, la disturberò pochissimo, ci sentiamo con calma quando si è ripresa. Devo chiederle solo una formalità. Era suo marito la persona che abbiamo trovato vicino a lei in macchina?”
“Sì, ricordo vagamente. Come sta?”
“È morto, un infarto. Oltre a qualche graffio di origine ignota.”
“Ma non aveva il divieto di avvicinarsi?”
“Sì, stiamo cercando di capire la dinamica dei fatti. Mi venga a trovare quando si ristabilisce. Le porgo i miei ossequi.”
Finalmente sola, sono scesa dal letto e sono andata in bagno, portandomi la flebo al seguito. Per prima cosa mi sono lavata la faccia, mi sono asciugata e ho alzato lo sguardo allo specchio.
Mi scrutava un volto che subito non ho riconosciuto, con un sorriso beffardo e un paio di inquietanti occhi rossi.

________________________


Commenti

Post popolari in questo blog

"Allora, ero lì, in piazza Brin"

Martedì 9 aprile con i cuoriinfiamme

TEMPI DEI CUORI TRASPARENTI