L’ALTRA RESISTENZA: GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI NEI LAGER NAZIFASCISTI


Marco Brando 

Mio padre Pietro era nato nel 1921. Mi raccontava che per lui - bambino, adolescente e giovane uomo - il fascismo, "cresciuto" negli stessi anni, era la normalità.

 

Ricordava che da ragazzino, a La Spezia, era un commesso in un negozio di abbigliamento, dove indossava il classico camice nero da lavoro: qualche volta, quando il regime chiamava alle adunate nelle piazze, per fare prima infilava il camice nei pantaloni, trasformandolo in una camicia nera.

 

Le leggi razziali fasciste non lo colpirono troppo, anche perché a Spezia c'erano pochissimi italiani ebrei. E sembrava quasi vero - a un giovane di allora - che l'Italia fosse una grande potenza con una "purezza" da proteggere. Poi venne la guerra: lui e i suoi coetanei erano ventenni quando scoppiò. Finirono tutti "abili e arruolati" e in gran parte non tornarono. 

 

Quando le armi tacquero, raccontava, cercò gli amici, gli ex compagni di scuola, e non ritrovò quasi nessuno. Nel frattempo era stato prigioniero, con il fratello gemello Paolo, per quasi due anni in Germania, come Imi (internato militare italiano): uno dei tanti ex soldati che preferirono i lager all'arruolamento nell'esercito della Repubblica sociale di Mussolini. 

 

La realtà - dopo che la propaganda nazifascista era stata spianata da morti, sofferenze, fame e distruzioni - appariva un incubo. Anche perché ogni ora trascorsa nel campo di concentramento poteva essere l'ultima.

 

Un giorno, in Germania, vicino a Lipsia, scoprì anche qual era stato il risultato delle leggi razziali: in mezzo alla neve, di ritorno nel suo campo dopo i lavori forzati, vide una colonna di uomini e donne macilenti e coperti di stracci, spinti da soldati tedeschi; chi rallentava o cadeva veniva ucciso e buttato sul cassone di un camion. Erano ebrei e altri candidati (rom, omosessuali, prigionieri politici, eccetera: 15 milioni in tutto le vittime) alla "soluzione finale", cui il fascismo stava collaborando.

 

Quando me lo raccontava, anche negli ultimi anni della sua vita (se ne è andato a 83 anni nel 2004), non riusciva a non piangere. Io me lo ricordo. E lo ricorderò a suo nipote Pietro (nato quasi un secolo dopo il nonno) che lo ricorderà, spero, ai suoi figli, un giorno.

 

  • Perché la memoria è un dovere e anche un dono; tanto più in quest'epoca in cui divisioni, muri, paure propinate con premeditazione, nazionalismi e razzismi stanno diventando ancora gli slogan di leader politici senza scrupoli.

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