Il mio ’68 e dintorni (gli anni del riscatto)
Nell’estate del ‘64,
a quattordici anni, terminai la Terza Media, anzi, la Terza Avviamento
Commerciale, perché la riforma della Scuola Media doveva ancora dispiegarsi
completamente, e quindi all’inizio degli anni sessanta, quando finii le
Elementari, esisteva ancora una scuola differenziata: i figli della borghesia,
alta, media e piccola, andavano, previo Esame d’Ammissione, alle Scuole Medie,
mentre i figli dei proletari andavano alle Scuole di Avviamento Professionale,
che a Sarzana aveva indirizzo Commerciale, invece alla Spezia aveva indirizzo
Industriale. Era una scuola senza senso, dove oltre alle materie tradizionali,
si praticavano materie quali la stenografia, dove io eccellevo, dattilografia,
calligrafia, e permetteva di iscriversi solo a Ragioneria, mentre erano
precluse le altre Superiori quali Liceo, Istituti Industriali, Nautico.
Si doveva decidere il
mio futuro e, per me, che avrei voluto continuare a studiare, la scelta era
obbligata: dovevo andare a lavorare perché mio padre era morto di tumore a
maggio, all’età di 53 anni, e con la paga di mia madre, operaia precaria, non
vi erano altre possibilità. Inoltre avevo tre fratelli , tutti più grandi di
me, anche loro con lavori sottopagati e precari.
Mio padre, Rizieri,
era saldatore all’INMA, dove era entrato dopo le epurazioni politiche
dell’inizio degli anni cinquanta in Arsenale, da dove erano stati cacciati
tutti i militanti di sinistra e che, assieme ai licenziati politici dell’OTO
Melara e delle altre imprese partecipate dallo stato, costituirono l’ossatura
del piccolo commercio provinciale. Molti però entrarono all’INMA, denominata
per molti anni il Cremlino spezzino per la quasi totalità di iscritti al PCI
fra i lavoratori. Il tasso di politicizzazione era molto alto, ed io lo
coglievo dai discorsi che lui faceva con i vicini, i compagni di fabbrica, gli
amici.
Devo a lui il mio
amore per la lettura e, soprattutto, la voglia di avventura che mi instillò
dandomi da leggere intorno ai dieci anni i libri di Salgari, con le stupende
descrizioni dei tropici, luogo elettivo delle avventure di Sandokan, o dei vari
corsari, nonché i gialli di Arsenio Lupin.
Quello spirito
romantico è poi rimasto in me, che ho poi trasfuso nei lavori che, trentenne,
ho iniziato a praticare in Africa ed altri luoghi.
La scelta sul mio
futuro si decise a settembre, quando uscì il bando per l’assunzione di Allievi
Operai della classe ’49 all’OTO Melara, dove esisteva una Scuola Allievi molto
qualificata.
Era il Posto sicuro,
quello che allora veniva comunemente chiamato il “Parastato”, e che garantiva
un salario certo, seppur basso, in un’azienda di prestigio, che aveva in quel
tempo circa 1.500 occupati.
Ma per entrare
all’OTO occorreva superare alcuni filtri, essenzialmente politici. L’azienda
assumeva dopo aver effettuato controlli, presso i Carabinieri ed il parroco,
sulle famiglie dei richiedenti. Nel mio specifico caso il parroco era Don
Schiasselloni, di Olmo e S. Caterina a Sarzana, notoriamente di destra a
dispetto del fratello partigiano. Conosceva bene gli orientamenti politici
della mia famiglia, ma conosceva anche la situazione in cui ci trovavamo dopo
la morte di mio padre: fu molto comprensivo e ci aiutò dichiarando il falso e
cioè che eravamo buoni cattolici e frequentavamo la chiesa. Lo disse lui stesso
a mia madre, che conosceva fin dall’infanzia. Gli fummo molto grati.
Fui accettato ed il
15 febbraio del 1965, insieme agli altri giovani selezionati, entrammo all’OTO.
La scuola era un edificio molto grande di forma quadrata a due piani, a fianco
della pista di collaudo dei carri armati, che ci affascinò molto dato che quei
mezzi, che giravano ininterrottamente per ore, li avevamo visti solo al cinema!
L’OTO in quegli anni
era una specie di caserma con un gruppo dirigente marcatamente di destra, dal
Capo del Personale, Dusan Gostisa, ex ustascia croato (nazisti), al Direttore
Generale, Laffond. Non si scioperava lì da molti anni, e gli iscritti alla CGIL
erano pochissimi, quegli stessi che, quando questa dichiarava sciopero,
uscivano fra l’indifferenza della quasi totalità degli altri lavoratori. Fra
questi, ricordo con affetto Emilio Soli, storico dirigente del PCI e della
CGIL, figura integerrima di lavoratore di grande professionalità e rigore
morale. La gestione dei lavoratori era di tipo autoritario e si rifletteva
anche nella Scuola Allievi Operai dove imperava il direttore Mariotti, anche
lui dichiaratamene di destra, anche se devo ammettere che era persona seria e
capace, ma nella Scuola la disciplina era ferrea, direi militaresca; la Scuola
aveva personale docente di prim’ordine e formava operai di ottimo livello.
Molti di questi al termine dei tre anni scolastici, infatti, si iscrivevano
alla IV serale dell’ITIS e si diplomavano periti industriali. L’orario
scolastico era di otto ore di cui quattro mattutine dedicate alle lezioni
teoriche – matematica, fisica, tecnologia, disegno meccanico, italiano - e
quattro pomeridiane in officina. Io fui destinato ad apprendere il mestiere del
tornitore.
Per dare solo alcuni
flash sulla disciplina, ricordo che alle dodici, al termine delle lezioni
teoriche, ci si recava alla mensa ma in fila per tre a passo di marcia e ci si
sedeva solo quando Mariotti schioccava le dita. Il termine del pasto avveniva
quando lo stesso schioccava nuovamente le dita, indipendentemente o meno che
avessimo o no terminato il pasto. Oppure la paga da apprendista la si poteva
ricevere solo se i capelli erano corti, per cui alcuni giorni prima del giorno
di paga tutti si tagliavano i capelli. Se si commettevano alcune piccole
infrazioni, erano previste punizioni quali supplementi di pulizia
dell’edificio, e, se l’infrazione avveniva nell’ora di educazione fisica, la
punizione consisteva in molte flessioni o sollevamento di bilancieri.
Fra i molti fatti di
quel periodo, uno mi aveva molto colpito: l’arrivo, non ricordo se nel ’65 o
‘66, proprio di fronte alla palazzina della Scuola, là dove vi era la pista di
atterraggio degli elicotteri, di Robert McNamara, il potente Segretario alla
Difesa degli USA, prima con Kennedy e poi con Johnson. Molto probabilmente
veniva in OTO nell’ambito dell’accordo per la costruzione per le nostre Forze
Armate, del VTT (Veicolo Trasporto Truppe) M113, tristemente famoso per la
guerra del Vietnam. Ricordo noi allievi schierati in fila e lui che ci passava
in rassegna!
L’ingresso nella
produzione avvenne nell’estate del ‘67 e fu traumatico. Nell’azienda
imperversava il cottimo, che era parte preponderante della paga, e gli orari
erano di fatto ben superiori a 45 ore contrattuali: nel mio reparto, il ‘115’,
dove si costruivano ingranaggi, era obbligatorio, perché imposto dalla
Direzione, lo straordinario. Le 9 ore giornaliere erano articolate su due
turni, dalle 9 alle 15 e dalle 15 alle 24, ma il sabato, anche se il turno lo
finivi alle 24 del venerdì, dovevi tornare alle 6 del mattino e fino alle 12,
lo stesso la domenica, per cui alla fine della settimana le ore lavorate erano
57.
I tempi di
lavorazione erano indicati da tecnici specializzati, i tempisti, che
analizzavano, a volte per giorni consecutivi, i movimenti e le modalità con cui
si operava: nel mio specifico caso, il primo lavoro che svolsi mi obbligava a
sollevare due volte al minuto alberi di trasmissione di 18 kg ciascuno, per 60
pezzi all’ora per 9 ore, per un totale di quasi 20 tonnellate al giorno! Alcuni
di questi tempisti, che erano per noi una sorta di nemico, erano in realtà
persone di sinistra, che dopo il ’68 parteciparono attivamente alle lotte e
battaglie sindacali, ma in quel periodo erano obbligati a fare quel mestiere
ingrato anche per loro, oltre che per noi.
Non si poteva andare
in bagno neanche per urinare, perché al ritorno il capo ti aspettava per farti
la ramanzina, e nei bagni non si potevano chiudere le porte che erano a molla
tipo western, con un grande oblò cosicché i guardiani potessero controllare cosa
facevi. Ricordo alcune volte miei colleghi operai che piuttosto che prendersi
la lavata di testa, preferivano urinare nella vasca dell’olio emulsionato
(acqua e olio minerale per raffreddare gli utensili e aiutare la lavorazione
dell’acciaio). I guardiani erano una presenza costante ed occhiuta, anche loro
spesso con un passato di destra, ed erano odiati dagli operai per il ferreo
controllo che esercitavano su di noi. Li chiamavamo “i cani da guardia del
padrone”.
Il tempo del pasto
era di 15 minuti incluso il percorso per arrivare al locale mensa, dove vi era
una stufa che scaldava la gamella portata dal lavoratore.
Questa premessa era
obbligatoria, perché soltanto descrivendo la vita in azienda si può capire
perché, nonostante questo clima, anzi proprio a causa di questo clima, la
rabbia operaia esplose all’improvviso nell’estate del 1968. Furono i lavoratori
dell’OTO che alla Spezia anticiparono l’autunno caldo.
Il sindacato in
azienda era dominato dalla CISL, che fino a quel momento era stato sicuramente
un sindacato filo padronale. Ovviamente la selezione politica aveva fatto sì
che i lavoratori fossero di orientamento politico moderato, la maggior parte
democristiani, e fra questi molti attivisti e dirigenti del partito. Molti fino
al ‘50 erano stati comunisti e socialisti, ma quando iniziò l’epurazione, per
sopravvivere rinnegarono la propria appartenenza politica. Anni dopo alcuni
divennero capi e spesso erano i più cattivi, quelli che ti vessavano
continuamente. Per ridicolizzarli, dopo il ’69, quando fu possibile esprimere
il proprio pensiero, era uso dire che “avevano visto la madonna”, perché
qualcuno di questi, da comunisti atei erano diventati ferventi cattolici. Per
comprendere meglio cosa era la CISL in quegli anni, il livello delle relazioni
perverse fra la Direzione Aziendale e lo stesso Sindacato, ricordo che nella
prima, o in una delle prime buste paga da apprendisti della Scuola, trovammo
assieme al compenso, anche la tessera della CISL e delle ACLI, che ho
conservato a testimonianza di ciò. Ovviamente a 15 anni nessuno di noi sapeva
cosa fosse il sindacato e nessuno aveva fatto richiesta di iscrizione. Più o
meno nello stesso periodo, in occasione dell’elezione della Commissione
Interna (la rappresentanza sindacale aziendale che precedette i Consigli
di Fabbrica e che fu spazzata via dal bisogno di democrazia e reale
rappresentanza dei lavoratori), i formatori di officina della Scuola passarono
per indicare quale rappresentante della CISL dovessimo votare, cosa che
facemmo. La CISL, nonostante le massacranti condizioni di lavoro e le
vessazioni dei capi e dirigenti, non aveva indetto in tutti quegli anni uno
sciopero, mentre la UIL era pressoché inesistente, con pochi iscritti, e la
CGIL ugualmente, ma, a differenza della UIL, i pochi iscritti erano quadri
politici di livello.
Quando nell’estate
del 1968 scoppiò il primo sciopero spontaneo la sorpresa, non solo della
Direzione, ma anche dei tre Sindacati, fu enorme.
Si dice che il merito
fu della nostra generazione, ma se questo è vero, lo fu indirettamente. Qualche
giorno prima dello sciopero, ricordo che cominciò a circolare il passaparola
che ci saremmo fermati ad una certa ora di uno dei giorni successivi, e tale
passaparola, anziché arrivare dai giovani, arrivò da molti lavoratori, anziani
o maturi, anche moderati, che però non ce la facevano più. Io ricordo che a
parlarmene fu il mio preparatore (il tecnico che prepara le macchine per le
lavorazioni), uomo di grande intelligenza e cultura, sicuramente moderato. Noi
eravamo troppo giovani, e se io ed alcuni del mio corso avevamo partecipato ad
incontri ed assemblee con studenti nel mese di maggio e giugno, nei quali
parlavamo delle condizioni degli operai e dell’autoritarismo che accomunava la
loro condizione alla nostra, non saremmo stati in grado di organizzare uno
sciopero spontaneo in una grande azienda con un livello di repressione così
alto.
Penso che comunque la
nostra generazione, quella che a quel tempo aveva fra i diciotto ed i
vent’anni, quella del maggio francese e delle lotte studentesche
iniziate fra il ’67 e ’68, ma anche quella che nelle fabbriche aveva portato la
voglia di ribellione di quel decennio, e che aveva iniziato a partecipare al
dibattito politico, principalmente diventando interlocutrice di quella che
veniva definita al tempo la “sinistra extraparlamentare”, abbia influenzato in
maniera significativa anche quei lavoratori che non si riconoscevano in quelle
istanze, ma esprimevano il bisogno di un diverso modo di vivere ed operare
nelle aziende: volevano un lavoro più umano, un maggiore rispetto della loro
persona e della loro dignità.
Io nel ’67 avevo
iniziato a conoscere, alla biblioteca di Sarzana (il leggere molto rispondeva
alla mia voglia di riscatto di un ragazzo che era stato obbligato ad andare in
fabbrica), alcune persone che poi sarebbero diventate i miei compagni di
viaggio nella politica ma anche nella vita, Andrea Ranieri, Anna Maria
Vassalle, Mario Grassi, Pino Lena ed altri che avevano costituito un piccolo
gruppo che produceva un giornale, fatto con pochi mezzi, che tentava di dare
voce agli operai che voce, in quel periodo, non ne avevano per nulla: La Voce
Operaia. Questo gruppo, in aperto dissenso col PCI, che noi giudicavamo
conservatore, aveva capito, insieme al magma che si agitava in maniera spesso
convulsa, divisiva, a volte iperideologica, aveva però il merito di cogliere la
tensione, la rabbia, la voglia di riscatto che attraversava vasti settori della
società. Occorre ricordare che quella società era profondamente conservatrice,
e questa condizione era trasversale, attraversava tutti i partiti, inclusi
quelli di sinistra. Questi infatti furono colti di sorpresa sia dalla rivolta
studentesca che da quella operaia. Nello specifico la fermata spontanea che
bloccò l’azienda non era stata concordata con nessun sindacato, neanche con la
CGIL, dato che la stragrande maggioranza non aveva molta fiducia in istituzioni
che non erano riuscite a far nulla in quegli anni per migliorare la condizione
di lavoro nelle fabbriche.
Ricordo la sorpresa,
e lo sconcerto, dei sindacalisti il giorno dello sciopero spontaneo, e
l’assemblea che fu organizzata davanti agli uffici della direzione, vicino ad
uno dei cancelli d’ingresso. Arrivarono Paita, che era il Segretario Generale
della CISL spezzina, ma anche Morelli, lo storico dirigente della FIOM
spezzina, uomo moderato, ma intelligente e soprattutto, non troppo settario.
Aveva grande rispetto per i lavoratori, anche per quelli che come non erano del
PCI o del PSI.
Paita, che era
totalmente spiazzato, parlò a lungo riuscendo a non dire nulla d’importante,
mentre Morelli capiva che si sarebbero riaperti tutti i giochi e che, molto
probabilmente iniziava una stagione nuova anche per la CGIL, e quindi, da
tribuno qual era, tuonò contro la direzione, i padroni, lo sfruttamento dei
lavoratori, e per il diritto a migliori condizioni di lavoro e di vita. Da lì
inizio una nuova era anche per la CGIL.
I rapporti di forza
in azienda cambiarono a partire da quello sciopero spontaneo. Diminuì, ma non
cessò, la pressione sui lavoratori, furono accettate alcune richieste di
miglioramento delle condizioni di lavoro, ma la vera spallata a quel sistema
aziendale cambiò realmente solo dopo l’autunno caldo nel 1969.
Per tutto quell’anno,
dall’estate del ’68 al novembre del ’69, il confronto, la discussione, il
dibattito politico-sindacale che era mancato, da 16/17 anni fra i lavoratori,
fra questi ed i sindacati e con la controparte, esplose in mille modi. Era come
una pentola che sotto la pressione del vapore avesse fatto saltare il
coperchio. I sindacati, i partiti di sinistra ed anche la sinistra
extraparlamentare presero piede e fecero proselitismo, costruendo la loro
presenza in OTO, trovando simpatizzanti e militanti.
Certo, occorrerebbe
molto tempo e molto spazio per descrivere le battaglie che poi facemmo negli
anni successivi, la fantasia che venne profusa per individuare ed attuare forme
di lotta che colpissero duramente l’azienda e non penalizzassero troppo i lavoratori.
Nel ‘69, ancora prima
dell’autunno continuarono le proteste, le assemblee, il dibattito fra i
lavoratori e con i Sindacati. Maturò la consapevolezza che era necessario
cambiare la forma (e la sostanza) della rappresentanza dei lavoratori in
azienda: la vecchia Commissione Interna aveva fatto il suo tempo.
Bisognava costruire la partecipazione democratica dei lavoratori, non solo
degli operai, ma anche quella degli impiegati, che fino al ’68 erano stati
assenti da qualsiasi rivendicazione o partecipazione, ma che ora volevano riscattare
anni ed anni di totale sudditanza alla Direzione. Erano stati privilegiati ma
ora si rendevano conto che erano stati ricattati per molti anni, l’acquiescenza
in cambio di migliori condizioni di lavoro e retributive.
Ed in questo clima si
arriva all’autunno del ’69. Il quadro politico nazionale, scosso dall’invasione
sovietica della Cecoslovacchia, era in fermento, ma le lotte operaie avevano
colto di sorpresa non solo i tre sindacati, ma anche la sinistra storica, che
non aveva capito cosa stesse succedendo nel mondo delle fabbriche.
Infatti FIM, FIOM ed
UILM, guidati allora da tre sindacalisti di grande spessore e qualità, Carniti,
Trentin e Benvenuto, che sarebbero poi diventati segretari Generali delle tre
Confederazioni, in quegli anni svolsero un ruolo di sussidiarietà della
politica, nell’affrontare temi e rivendicazioni che uscivano dallo specifico
aziendale per investire molti nodi sociali e politici. I diritti sociali, la
scuola, la democrazia reale, il rapporto fra il mondo del lavoro e la cultura
(non dimentichiamo cosa rappresentarono le 150 ore per un pezzo del Paese che
era in ritardo di formazione scolastica). Fu quella che alcuni storici
definiscono l’onda alta della storia, quando tutto cambia e si rinnova, e apre
grandi speranze per vasti strati della popolazione.
Il mio autunno caldo,
che ebbe momenti altissimi di partecipazione, dibattito, elaborazione politica
e sindacale, termina il 19 novembre di quell’anno con la partenza per il
militare, in Marina, destinazione CAR di Taranto. Ma in quegli ultimi giorni da
persona “libera”, faccio in tempo a partecipare alla fondazione, il 2 novembre
a Pisa, alla costituzione di Lotta Continua, il gruppo politico della sinistra
radicale che aveva un considerevole seguito e attrattiva nel nostro territorio,
anche in OTO, dove in quell’anno ero riuscito a costruire un gruppo di persone,
operai ed impiegati, che si riconoscevano nella proposta politica di LC.
Rientro in OTO ai
primi giorni di gennaio del 1971, in congedo anticipato a causa delle precarie
condizioni economiche di mia madre, rimasta sola dopo che anche mio fratello
era uscito di casa nell’aprile del ’70 per emigrare in Canada, e raggiungere
mia sorella che era partita col marito nell’autunno del 1964.
Inizia così quel
decennio che avrebbe visto straordinari cambiamenti nella società italiana ed
anche nel mondo del lavoro.
In OTO le lotte
avevano lasciato il segno. Erano cambiati i dirigenti ed anche la fabbrica era
cambiata molto, e molto cambierà ancora con le lotte che continuano in
quell’inizio dei settanta e si protrarranno ancora negli anni successivi, e le
condizioni cambieranno ulteriormente. Una nuova mensa dove si mangiava molto
bene, meno controllo dei capi, minore incidenza del cottimo, premio di
produzione (la quattordicesima), libertà di pensiero politico.
Devo soffermarmi su
quest’aspetto: i partiti costituiscono le loro sezioni o cellule di fabbrica,
nasce il Comitato Unitario della Resistenza, formato dai partiti che hanno
organizzato la loro presenza in azienda, e nei giorni precedenti il 25 aprile
si commemora la liberazione in azienda, con la partecipazione dei
rappresentanti del Comitato Unitario Provinciale della Resistenza, a fronte del
monumento ai Caduti della Resistenza che era stato realizzato, attraverso un
bando, dalla scultrice Petacchi, che era peraltro dipendente dell’azienda. La
cosa che aveva dato grande soddisfazione era che, in accordo con la Direzione,
era stato posto di fronte all’ingresso principale della palazzina della
Direzione stessa.
Questa nuova
coscienza antifascista si esprime con forza con la partecipazione di molti
lavoratori dell’OTO alle proteste contro Covelli ed Almirante a Sarzana e La
Spezia durante la campagna elettorale del ’72. Nel frattempo anche il gruppo
dirigente era molto cambiato: erano subentrati nuove figure, certamente non più
cosi marcatamente di destra, e con i nuovi responsabili del personale inizia un
dialogo proficuo: il Presidente era Gustavo Stefanini, il Direttore Generale
Piero Boracchia, ed il Capo del Personale il dott. Colla. Io vengo eletto dal
mio reparto, nel 1975, in Consiglio di Fabbrica, il ‘105’, quello dei
torni paralleli, e subito dopo nell’Esecutivo dello stesso, ed inizio una
pressante attività sindacale che decido di praticare uscendo dalla FIM-Cisl ed
aderendo alla FIOM-CGIL, e con me molti lavoratori aderiscono alla FIOM. La FIM
era cambiata, non certamene come era avvenuto radicalmente in altre aree del
Paese, come Milano e Torino, dove molti dirigenti di quel sindacato, da ex
democristiani e cattolici, avevano intrapreso un percorso politico che era
coerente con molte istanze del cattolicesimo democratico e di base, figlio di
una profonda trasformazione del ruolo dei cattolici nella società, che l’onda
lunga degli anni sessanta, con i protagonisti di quel decennio, da papa
Giovanni XXIII ed il Concilio Vaticano II, a Don Milani, a Danilo Dolci, ma
anche alla corrente di Forze Nuove della DC, che, seppur in modo
contradditorio, aveva provato, specialmente con la rivista “Settegiorni”, ad
individuare forme e contenuti che rompevano con la staticità del partito dei
cattolici. Ho in mente sindacalisti come Alberto Tridente, Pippo Torri, Adriano
Serafini, Fabrizio Bentivogli, ma anche Pierre Carniti, tutti della Fim e della
Cisl, che avevano rotto con la DC e militavano nel Pdup, o si erano avvicinati
al PCI.
Alla Spezia, salvo
rarissime eccezioni, la FIM era sostanzialmente conservatrice ed ancora legata
a filo doppio con la DC. Le elezioni del CdF vedevano ancora prevalere la FIM,
anche se la sinistra esprimeva molti delegati, ed anche con alcuni delegati della
FIM esisteva un rapporto di elaborazione politico-sindacale con quelli che
facevano riferimento alla sinistra extraparlamentare, che aveva in OTO un
discreto seguito.
In quegli anni,
l’azienda passò da circa 1.500 a 2.500 addetti, senza contare l’indotto, fatto
di piccole imprese per lo più del territorio spezzino, che dava lavoro a
migliaia di addetti.
Erano gli anni della
grande espansione dell’azienda che coincideva con la crescita dei bilanci della
Difesa per il settore armamenti, e che era figlia del protrarsi della Guerra
Fredda. Fra gli aspetti, non dico positivi, ma interessanti e formativi di questa
realtà, vi erano senza dubbio quelli di operare in un’azienda che aveva
relazioni internazionali importanti, e come clienti molti stati in Europa ed in
altre parti del mondo: Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti, Canada, Nigeria,
Venezuela, Perù ed altri, per le produzioni navali (cannoni antiaerei ed
antinave da 76 e 127 mm.), e per l’artiglieria terrestre. Questa attività
imponeva il fatto che molti tecnici della Manutenzione ed Assistenza Tecnica
viaggiassero in quei paesi, facendo importanti esperienza, ma anche che fossero
presenti in azienda, spesso, delegazioni di molti paesi, per contratti o
visite. Questa presenza internazionale ha sempre fatto sì che questo quasi ci
obbligasse ad interessarci delle questioni internazionali.
Abbiamo vissuto in
quegli anni una realtà cosmopolita che ha formato molti quadri sindacali e
politici che si sono poi occupati negli anni successivi di relazioni
internazionali.
Una situazione a
volte paradossale come quella che, molto probabilmente per un qualche disguido,
oppure per motivi che a noi sfuggivano, fossero presenti nella stessa giornata
missioni di paesi belligeranti o in forte attrito fra loro.
Non ricordo
precisamente in che anno, fra la fine dei settanta e l’inizio degli ottanta, ma
ricordo esattamente chi visitò l’azienda: era l’ammiraglio Massera, uno dei tre
capi della Giunta Militare Argentina, che su invito del Capo di Stato Maggiore
della Marina Militare Italiana venne in Oto per comprare gli Otomat, i missili
antinave costruiti in partenariato con la Matrà francese. L’Argentina si
apprestava ad invadere le Falklands-Malvinas, e aveva bisogna di missili
(infatti poi acquistò gli Exocet francesi), e non potendo, Andreotti,
che era lo sponsor reale dell’operazione, invitarlo personalmente, lo fece
invitare dalla Marina. Ma la visita terminò bruscamente quando gli operai del
reparto ‘N’, il più grande dell’azienda, con 700 operai, si fermò per uno
sciopero spontaneo da me organizzato, dopo che un mio informatore in Direzione
mi avvisò di quanto stava accadendo. L’ammiraglio Massera fu rapidamente
portato via dagli agenti di scorta e questo evitò che fossimo complici della
Giunta degli assassini golpisti argentini.
Gli anni settanta
sono anche gli anni in cui la dirigenza sindacale dell’OTO guarda fuori
dell’azienda. La “piaga” dell’indotto, perché così occorre chiamarla,
coinvolgeva decine e decine di aziende, per lo più di carpenteria pesante, che
producevano per l’OTO. Le condizioni di lavoro erano durissime e lo
sfruttamento dei piccoli industriali proprietari di queste aziende era
evidente. Il Cdf impose alla Direzione, in una delle tante vertenze, il diritto
dello stesso di entrare in queste aziende per verificare le condizioni di
lavoro. Cosa che fu fatta e che portò ad istituire con la FLM un coordinamento
per l’indotto che migliorò notevolmente le condizioni di lavoro in quelle ditte.
Nel 1975 si tenne la Conferenza
di Produzione, voluta sostanzialmente dal PCI, che coinvolse per molte ore
tutti i lavoratori dell’azienda in un’enorme assemblea (il Contratto di Lavoro
aveva previsto dieci ore pagate di assemblea all’anno), nella quale alla
presenza di molti invitati politici e sindacali, conclusa da Alberto Tridente,
Segretario Nazionale della FLM e responsabile delle relazioni internazionali,
che pose in maniera forte la questione della rincorsa agli armamenti fra Est ed
Ovest, e della necessità di pensare a diversificare la produzione perché tale
rincorsa era inevitabilmente destinata ad interrompersi , e quindi causare una
crisi del settore Difesa, oppure a provocare una guerra mondiale! Il suo
intervento provocò molto dibattito e qualche contestazione, però fece in modo
che la discussione su questo tema proseguisse negli anni successivi, fino a
portarci a presentare in una vertenza aziendale la richiesta (ma anche una
proposta concreta), di diversificare la produzione. Alla fine tutto ciò mise in
moto la nascita della Ototrasm, azienda del gruppo che avrebbe continuato nella
produzione di ingranaggi, ma avrebbe anche avuto lo scopo di trasferire nel
civile le tecnologie militari.
Sono anni di grande
fermento politico e sindacale, che portano poi alla fine del decennio ad una
vertenza che si inquadrava in una politica di livello nazionale guidata dalla
FLM, per l’occupazione dei giovani. Grazie a questa politica fu varata una legge,
la 285, che prevedeva la possibilità di assumere giovani nelle aziende,
e che portò ad assumere varie decine giovani di ambo i sessi in OTO, in ruoli
operai. Era la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale che venivano chiamate
a lavorare alle macchine utensili delle donne, e l’impatto fu sufficientemente
spiazzante per entrambe le parti.
Insomma furono
“formidabili quegli anni”, intrisi di elaborazione politica e sindacale, ma
anche intellettuale. Si pensi cosa significò la richiesta delle 150 ore
e quanto contribuì a migliorare la scolarità italiana, e a far uscire i temi
del mondo del lavoro e dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori, e
che impatto provocò nel mondo della scuola, portando queste tematiche fra
migliaia di professori che insegnavano ai lavoratori che frequentavano per il
diploma di terza media! Rimane famosa la frase di Bruno Trentin, al tempo
Segretario Generale della FIOM-CGIL, che rispondendo ad un dirigente di
Confindustria che faceva ironia sui lavoratori che magari volevano imparare a
suonare il violino, rispose “perché no?”!
In questo senso penso
che in quella dozzina di anni il sindacato, ma anche la sinistra in generale,
anche quella che la sinistra tradizionale chiamava in forma disprezzativa, i
gruppettari, che invece era semplicemente la “Nuova Sinistra” carica di
idee, di speranza, di voglia di riscatto del mondo del lavoro, non stalinista,
abbia elaborato un’idea di società fra la più avanzate dell’occidente,
costruendo un modello ugualitario, informato, democratico, partecipato, che
purtroppo si interruppe successivamente. In quegli anni il sindacato, con tutte
le sue debolezze e contraddizioni, elaborò idee e prassi che in qualche modo
sopperirono alle deficienze dei partiti, anche di sinistra, che erano molti
conservatori, fermi, paralizzati dalla paura delle novità, bloccati ancora
dalla “Guerra Fredda”, incapaci di costruire un’idea diversa di società. In
quel periodo, molto breve in verità, anche noi dell’OTO partecipammo con idee e
progetti, a volte anche velleitari, all’elaborazione di queste idee e proposte,
portando il nostro piccolo tassello al mosaico più generale che in quegli anni
fu costruito.
Io per mio conto,
capendo che quella esperienza era di fatto terminata, nell’Aprile dell’82, in
accordo con la FLM Nazionale, iniziai a Milano un’attività di sostegno, presso
una ONG collegata al sindacato, a progetti di formazione frutto di un accordo di
cooperazione fra la stessa FLM e l’OTM - Organizaçao dos Trabalhadores de
Moçambique (l’organizzazione sindacale del Mozambico), che mi portò
successivamente a trasferirmi lì per alcuni anni, ed iniziare una nuova fase
della mia vita, carica di problematiche e difficoltà, ma molto interessanti,
che ancora oggi mi vedono impegnato in tale ambito.
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