Il nostro Vietnam, il mio Vietnam
di Federico Lucio Paganini
A cavallo degli anni ’60 e ’70 studiavo e la mattina,
alle otto, sentivo regolarmente il giornale radio che immancabilmente
annunciava: “…aerei americani hanno bombardato… “ questo o quell’obiettivo
vietnamita. Quell’annuncio, altrettanto immancabilmente, prima del disgusto mi
provocava una contrazione di qualche muscolo del ventre, forse una stretta
delle coronarie, poi subentrava la rabbia che prendeva i muscoli delle braccia:
era come se volessero muoversi, ma per l’impossibilità di dare uno sfogo fisico
alla rabbia e all’odio subivano per qualche istante una specie di tremito.
Aveva ragione Omero quando situava la sede delle funzioni intellettuali nei Φρήνεσ,
i precordi, e non nel cervello. Queste erano le mie emozioni di fronte alle
infamie dell’imperialismo americano. Naturalmente posso parlare solo per me per
quanto riguarda le sensazioni e i sentimenti più profondi. Quello che ho
descritto è il “mio Vietnam”, il Vietnam come l’ho vissuto io. Non so come
reagivano nel loro intimo i tanti giovani che come me odiavano quella guerra,
però li avevo attorno a me a centinaia in questa città e li vedevo in tv a
decine di migliaia quando le manifestazioni antimperialiste si svolgevano nelle
grandi città d’Italia e del resto del mondo. Vedevo Sartre in Francia, Joan
Baez e Jane Fonda e Cassius Clay e Angela Davis negli USA, vedevo Che Guevara
in Bolivia, Lelio Basso e il suo tribunale in Italia, battersi contro
l’imperialismo e quelli erano i miei eroi. Fossero loro toccati emotivamente
come me o la loro indignazione fosse soltanto razionale, li sentivo comunque
vicini. Mai più dopo di allora ho sentito per una massa indistinta di persone,
in manifestazioni di partito o di sindacato, lo stesso sentimento di amore e
comunanza. Durante le manifestazioni antimperialiste e antiamericane noi (io
facevo parte prima di un gruppo informale di comunisti che aveva lasciato il
P.C.I. nel ’68, poi di una formazione politica che si chiamava Lega dei
Comunisti) seguivamo il corteo organizzato dal Partito Comunista insieme ad
altri gruppi (per esempio Lotta Comunista). Questi gruppi erano più o meno
numerosi a seconda che aderissero anche gli studenti medi e facessero sciopero.
Ognuno aveva i suoi striscioni e le sue parole d’ordine. C’era però una parola
che unificava tutti e veniva urlata a squarciagola da tutti: HO CHI MINH! C’era
un giovane compagno del P.C.I. dalla voce particolarmente tonante: lui dava il
là col primo urlo, poi seguiva il coro di centinaia di voci che rimbombava
nelle strade piuttosto strette della città. Ricordo che una volta ci staccammo
dal corteo non per infrangere vetrine e fracassare automobili come fanno ora i casseurs,
ma per fare semplicemente un sit-in come avevamo imparato dai metodi del
movimento studentesco americano. Io portavo un cartello con un grande ritratto
di Ho Chi Minh. Un giovanotto tra di noi fece delle fotografie. Un poliziotto
si diresse verso di lui per prendergli il rullino e avere così le foto delle
nostre facce. Noi ci mettemmo a gridare e quando lui capì quello che stava
succedendo aprì la macchina fotografica, estrasse il rullino e lo espose alla
luce. Ci fu un tripudio di applausi. Mi dissero poi che era un turista
canadese. Quella sera stessa venne nella nostra “sede” (un fondo con un
ciclostile e due panche fatte con tavole rubate da un vicino cantiere in Viale
Aldo Ferrari), in un momento in cui eravamo particolarmente euforici per la
buona riuscita della nostra prima manifestazione pubblica (prima di allora
avevamo distribuito solo volantini agli studenti e uno ai marinai americani con
cui li s’invitava a disertare). Si vantò di sapere dove si nascondevano le armi
dei partigiani e ci propose di andare con lui a prenderle. Fu applaudito e
potemmo sognare per qualche giorno la lotta armata. D’altra parte il nostro
Paese passava da un allarme all’altro di un colpo di stato e armarsi non era
poi del tutto irrealistico. Dopo qualche giorno qualcuno si rese conto che si
trattava di un provocatore e la cosa finì lì. Non si presentarono più
provocazioni. In seguito fui portato qualche volta in questura per
identificazione e accertamenti, una volta per aver affisso un foglio
ciclostilato con l’immagine di Ho Chi Minh. Vent’anni dopo, avendo occasione di
fare una domanda in questura, scorsi quel ciclostilato, ora divenuto innocente,
in una cartella a mio nome. Io e il poliziotto ne sorridemmo entrambi.
Le immagini che seguono pubblicate sui giornali e viste
in TV soprattutto dal pubblico americano contribuirono certamente, insieme alle
58.000 bare di soldati americani sbarcati dagli aerei, alle manifestazioni
giovanili per la pace nello stesso centro dell’impero e infine allo scandalo
Watergate, a por fine all’aggressione americana. Per aver posto fine
all’aggressione dopo quindici anni, al Segretario di Stato americano Kissinger,
le cui mani si macchiarono poi anche del sangue dei cileni e degli argentini,
fu conferito nel 1973 il premio Nobel per la pace.
A cavallo degli anni ’60 e ’70 studiavo e la mattina,
alle otto, sentivo regolarmente il giornale radio che immancabilmente
annunciava: “…aerei americani hanno bombardato… “ questo o quell’obiettivo
vietnamita. Quell’annuncio, altrettanto immancabilmente, prima del disgusto mi
provocava una contrazione di qualche muscolo del ventre, forse una stretta
delle coronarie, poi subentrava la rabbia che prendeva i muscoli delle braccia:
era come se volessero muoversi, ma per l’impossibilità di dare uno sfogo fisico
alla rabbia e all’odio subivano per qualche istante una specie di tremito.
Aveva ragione Omero quando situava la sede delle funzioni intellettuali nei Φρήνεσ,
i precordi, e non nel cervello. Queste erano le mie emozioni di fronte alle
infamie dell’imperialismo americano. Naturalmente posso parlare solo per me per
quanto riguarda le sensazioni e i sentimenti più profondi. Quello che ho
descritto è il “mio Vietnam”, il Vietnam come l’ho vissuto io. Non so come
reagivano nel loro intimo i tanti giovani che come me odiavano quella guerra,
però li avevo attorno a me a centinaia in questa città e li vedevo in tv a
decine di migliaia quando le manifestazioni antimperialiste si svolgevano nelle
grandi città d’Italia e del resto del mondo. Vedevo Sartre in Francia, Joan
Baez e Jane Fonda e Cassius Clay e Angela Davis negli USA, vedevo Che Guevara
in Bolivia, Lelio Basso e il suo tribunale in Italia, battersi contro
l’imperialismo e quelli erano i miei eroi. Fossero loro toccati emotivamente
come me o la loro indignazione fosse soltanto razionale, li sentivo comunque
vicini. Mai più dopo di allora ho sentito per una massa indistinta di persone,
in manifestazioni di partito o di sindacato, lo stesso sentimento di amore e
comunanza. Durante le manifestazioni antimperialiste e antiamericane noi (io
facevo parte prima di un gruppo informale di comunisti che aveva lasciato il
P.C.I. nel ’68, poi di una formazione politica che si chiamava Lega dei
Comunisti) seguivamo il corteo organizzato dal Partito Comunista insieme ad
altri gruppi (per esempio Lotta Comunista). Questi gruppi erano più o meno
numerosi a seconda che aderissero anche gli studenti medi e facessero sciopero.
Ognuno aveva i suoi striscioni e le sue parole d’ordine. C’era però una parola
che unificava tutti e veniva urlata a squarciagola da tutti: HO CHI MINH! C’era
un giovane compagno del P.C.I. dalla voce particolarmente tonante: lui dava il
là col primo urlo, poi seguiva il coro di centinaia di voci che rimbombava
nelle strade piuttosto strette della città. Ricordo che una volta ci staccammo
dal corteo non per infrangere vetrine e fracassare automobili come fanno ora i casseurs,
ma per fare semplicemente un sit-in come avevamo imparato dai metodi del
movimento studentesco americano. Io portavo un cartello con un grande ritratto
di Ho Chi Minh. Un giovanotto tra di noi fece delle fotografie. Un poliziotto
si diresse verso di lui per prendergli il rullino e avere così le foto delle
nostre facce. Noi ci mettemmo a gridare e quando lui capì quello che stava
succedendo aprì la macchina fotografica, estrasse il rullino e lo espose alla
luce. Ci fu un tripudio di applausi. Mi dissero poi che era un turista
canadese. Quella sera stessa venne nella nostra “sede” (un fondo con un
ciclostile e due panche fatte con tavole rubate da un vicino cantiere in Viale
Aldo Ferrari), in un momento in cui eravamo particolarmente euforici per la
buona riuscita della nostra prima manifestazione pubblica (prima di allora
avevamo distribuito solo volantini agli studenti e uno ai marinai americani con
cui li s’invitava a disertare). Si vantò di sapere dove si nascondevano le armi
dei partigiani e ci propose di andare con lui a prenderle. Fu applaudito e
potemmo sognare per qualche giorno la lotta armata. D’altra parte il nostro
Paese passava da un allarme all’altro di un colpo di stato e armarsi non era
poi del tutto irrealistico. Dopo qualche giorno qualcuno si rese conto che si
trattava di un provocatore e la cosa finì lì. Non si presentarono più
provocazioni. In seguito fui portato qualche volta in questura per
identificazione e accertamenti, una volta per aver affisso un foglio
ciclostilato con l’immagine di Ho Chi Minh. Vent’anni dopo, avendo occasione di
fare una domanda in questura, scorsi quel ciclostilato, ora divenuto innocente,
in una cartella a mio nome. Io e il poliziotto ne sorridemmo entrambi.
Le immagini che seguono pubblicate sui giornali e viste
in TV soprattutto dal pubblico americano contribuirono certamente, insieme alle
58.000 bare di soldati americani sbarcati dagli aerei, alle manifestazioni
giovanili per la pace nello stesso centro dell’impero e infine allo scandalo
Watergate, a por fine all’aggressione americana. Per aver posto fine
all’aggressione dopo quindici anni, al Segretario di Stato americano Kissinger,
le cui mani si macchiarono poi anche del sangue dei cileni e degli argentini,
fu conferito nel 1973 il premio Nobel per la pace.
Questa foto fu scattata l’8 giugno 1972 dal fotografo
vietnamita Nick Ut, sotto contratto con l’Associated Press. La piccola Kim
Phuc, 9 anni, fugge nuda, preceduta dal fratello, dal villaggio di Trang Bang,
vicino a Saigon, bombardato dall’aviazione sudvietnamita con bombe al napalm,
la pelle bruciata, in preda a un folle dolore. Ut scattò due foto, poi prese in
braccio la piccola e la portò in un piccolo ospedale. I medici la diedero per
spacciata ma Ut insistette per farla curare, facendo valere il suo status di
giornalista internazionale. Nick Ut temette che la foto non potesse essere
pubblicata perché c’erano rigide regole all’Associated Press per quanto
riguardava la nudità. Fu Horst Faas, il photo editor dell’agenzia, che ne
impose la pubblicazione, sostenendo che il valore di quell’immagine sovrastava
ogni altro ragionamento. La foto fu pubblicata tagliandone una parte per
mettere in evidenza la bambina: la foto fu pubblicata e per tutti i lettori nel
mondo fu un profondo shock.
A Ut fu riconosciuto il premio Pulitzer. La piccola Kim
fu chiamata Napalm Girl e la fotografia di Ut è considerata una delle più
celebri e sconvolgenti del XX secolo, un’icona del conflitto vietnamita. Kim fu
accolta poi in Canada, sottoposta a numerose operazioni. Studiò a Cuba poi si
trasferì in Canada divenendone cittadina. Nel 1997 fu nominata Ambasciatrice
dell’UNESCO e nel 2004 insignita della laurea ah honorem in Legge dalla Queen’s
University di Kingston per la sua attività in difesa dell’infanzia tramite la
Kim Phùc Foundation International. È curioso che ci sia stata recentemente una
nuova censura, questa volta da parte di Facebook per quanto riguarda la
Norvegia, che ha rimosso la fotografia più volte e ha anche sospeso gli utenti
che l’avevano caricata. Il più grande quotidiano norvegese, Haftenposten, ha
pubblicato una lettera aperta a Zuckerberg: "I media hanno la
responsabilità di considerare la pubblicazione in ogni singolo caso. Questa può
essere una pesante responsabilità... Questo diritto e dovere, che tutti gli
editori del mondo hanno, non dovrebbero essere indeboliti dagli algoritmi
codificati nel tuo ufficio in California". Il primo ministro norvegese,
Erna Solberg, il 9 settembre 2018 ha pubblicato questa foto iconica sulla sua pagina
Facebook per protestare contro la censura da parte del social network.
"Dico sì a un dibattito sano, aperto e libero su Internet. Ma io dico di
no a questa forma di censura.". La sua foto è stata in seguito
parzialmente rimossa da Facebook, che ne ha pubblicato una versione con la
nudità oscurata.
"Quello che fa Facebook rimuovendo immagini di
questo tipo, per quanto buone possano essere le intenzioni, è quello di
modificare la nostra storia comune", ha commentato la Solberg. In seguito
alla protesta, Facebook ha ripristinato la foto. In una dichiarazione, la
società di social media ha dichiarato: "Dopo aver ascoltato dalla nostra
comunità, abbiamo esaminato nuovamente come sono stati applicati i nostri
standard comunitari in questo caso”. La società ha affermato di aver riconosciuto
"la storia e l'importanza globale di questa immagine nel documentare un
particolare momento nel tempo". Quanto accaduto deve farci riflettere sul
potere dei social media sulla conoscenza della storia e nell’influenzare
l’opinione pubblica, poiché oggi il 47% degli Italiani s’informa sui social (il
20 % sui quotidiani).
Didascalia
originale: (General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon)
Questa foto fu scattata l’8 febbraio 1968 durante
l’offensiva del Thet a Saigon dal fotografo americano Edward Thomas
"Eddie" Adams, il quale stava puntando la macchina fotografica sul
prigioniero vietcong quando improvvisamente il generale sudvietnamita Nguyễn Ngọc Loan estrasse la pistola e gli sparò alla tempia. Anche
in quest’occasione fu Faast a decidere la pubblicazione di questa foto
scioccante. Essa suscitò reazioni negative verso la guerra nell’opinione
pubblica americana. L’atteggiamento del fotografo fu opposto a quello di Ut:
lui considerava giusta l’esecuzione senza processo del prigioniero di guerra e
come il generale riteneva che l’assassinio sul campo di un guerrigliero senza
divisa fatto prigioniero fosse giustificato. Il generale alla fine della guerra
si rifugiò negli USA e fu spesso oggetto di minacce per il suo crimine. Adams
ricevette il premio Pulitzer e rimase amico del generale. Una fotografia,
soprattutto se è di guerra, è ambigua per sua stessa natura, anche se impone a
chi la osserva una condivisione o un rifiuto: gli americani schierati col
governo per la guerra non ne furono per niente dispiaciuti, anzi approvarono il
fatto, mentre i pacifisti ne furono sconvolti. Tale dicotomia d’interpretazione
verso questa foto perdura ancora negli USA. Nell’anno in corso, 2018, questa foto fu
pubblicata su Youtube con questa didascalia: “Execution of Viet Cong prisoner -
Eddie Adams/AP Photo - The graphic image stunned the public and politicians
alike, quickly adding to the mounting opposition to the war in Vietnam. Some
historians say it may have changed the course of the war itself”. I commenti
degli utenti furono molto diversi: SliceofHorse (Luglio 2018) sostiene che “The
man being executed in this picture was a war criminal. The man doing the
shooting was a war hero that eventually moved to United States and opened up a
restaurant.” Ruud Kruyswijk si spinge ancora più in là: "The executed man
was just caught. He was executed by the chief of the Saigon police. The man had
entered the private house of the same chief commissioner and stabbed both his
little children (between 4 and 6) with a bayonet in the underbelly. A method of
killing in which the victim dies a rather slow and cruel dead under
excruciating pains. There exist filmed documents of this, showing the children
in pain. I've seen the film images". Per il primo l’assassinato è un criminale
di guerra, il secondo precisa che avrebbe ucciso a colpi di baionetta i due
figli del generale. Le fonti al riguardo sono ambigue: su Wikipedia l’ufficiale
Viet Cong avrebbe ucciso alcuni familiari del generale, in un altro passo dello
stesso documento si dice che avrebbe ucciso un ufficiale sudvietnamita che si
rifiutò di spiegargli il funzionamento dei carri armati americani di cui i
Vietcong si erano impadroniti. Il franco tiratore che opera senza divisa e
commette crimini e non atti di guerra, secondo il diritto internazionale, può
essere condannato a morte, ma sempre dopo processo da parte degli organi
competenti. Il generale, a sua volta senza divisa, durante il rastrellamento si
macchiò dell’assassinio di centinaia di civili e guerriglieri. Ai feriti non fu
somministrata alcuna cura. La fotografia ebbe ed ha ancora dunque in USA
diverse interpretazioni a seconda dell’ideologia del fruitore, mentre
probabilmente nel resto del mondo, non coinvolto nel conflitto, fu interpretata
solo come dimostrazione degli orrori della guerra.
Questa foto fu scattata l’8 giugno 1972 dal fotografo
vietnamita Nick Ut, sotto contratto con l’Associated Press. La piccola Kim
Phuc, 9 anni, fugge nuda, preceduta dal fratello, dal villaggio di Trang Bang,
vicino a Saigon, bombardato dall’aviazione sudvietnamita con bombe al napalm,
la pelle bruciata, in preda a un folle dolore. Ut scattò due foto, poi prese in
braccio la piccola e la portò in un piccolo ospedale. I medici la diedero per
spacciata ma Ut insistette per farla curare, facendo valere il suo status di
giornalista internazionale. Nick Ut temette che la foto non potesse essere
pubblicata perché c’erano rigide regole all’Associated Press per quanto
riguardava la nudità. Fu Horst Faas, il photo editor dell’agenzia, che ne
impose la pubblicazione, sostenendo che il valore di quell’immagine sovrastava
ogni altro ragionamento. La foto fu pubblicata tagliandone una parte per
mettere in evidenza la bambina: la foto fu pubblicata e per tutti i lettori nel
mondo fu un profondo shock.
A Ut fu riconosciuto il premio Pulitzer. La piccola Kim
fu chiamata Napalm Girl e la fotografia di Ut è considerata una delle più
celebri e sconvolgenti del XX secolo, un’icona del conflitto vietnamita. Kim fu
accolta poi in Canada, sottoposta a numerose operazioni. Studiò a Cuba poi si
trasferì in Canada divenendone cittadina. Nel 1997 fu nominata Ambasciatrice
dell’UNESCO e nel 2004 insignita della laurea ah honorem in Legge dalla Queen’s
University di Kingston per la sua attività in difesa dell’infanzia tramite la
Kim Phùc Foundation International. È curioso che ci sia stata recentemente una
nuova censura, questa volta da parte di Facebook per quanto riguarda la
Norvegia, che ha rimosso la fotografia più volte e ha anche sospeso gli utenti
che l’avevano caricata. Il più grande quotidiano norvegese, Haftenposten, ha
pubblicato una lettera aperta a Zuckerberg: "I media hanno la
responsabilità di considerare la pubblicazione in ogni singolo caso. Questa può
essere una pesante responsabilità... Questo diritto e dovere, che tutti gli
editori del mondo hanno, non dovrebbero essere indeboliti dagli algoritmi
codificati nel tuo ufficio in California". Il primo ministro norvegese,
Erna Solberg, il 9 settembre 2018 ha pubblicato questa foto iconica sulla sua pagina
Facebook per protestare contro la censura da parte del social network.
"Dico sì a un dibattito sano, aperto e libero su Internet. Ma io dico di
no a questa forma di censura.". La sua foto è stata in seguito
parzialmente rimossa da Facebook, che ne ha pubblicato una versione con la
nudità oscurata.
"Quello che fa Facebook rimuovendo immagini di
questo tipo, per quanto buone possano essere le intenzioni, è quello di
modificare la nostra storia comune", ha commentato la Solberg. In seguito
alla protesta, Facebook ha ripristinato la foto. In una dichiarazione, la
società di social media ha dichiarato: "Dopo aver ascoltato dalla nostra
comunità, abbiamo esaminato nuovamente come sono stati applicati i nostri
standard comunitari in questo caso”. La società ha affermato di aver riconosciuto
"la storia e l'importanza globale di questa immagine nel documentare un
particolare momento nel tempo". Quanto accaduto deve farci riflettere sul
potere dei social media sulla conoscenza della storia e nell’influenzare
l’opinione pubblica, poiché oggi il 47% degli Italiani s’informa sui social (il
20 % sui quotidiani).
Didascalia
originale: (General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon)
Questa foto fu scattata l’8 febbraio 1968 durante
l’offensiva del Thet a Saigon dal fotografo americano Edward Thomas
"Eddie" Adams, il quale stava puntando la macchina fotografica sul
prigioniero vietcong quando improvvisamente il generale sudvietnamita Nguyễn Ngọc Loan estrasse la pistola e gli sparò alla tempia. Anche
in quest’occasione fu Faast a decidere la pubblicazione di questa foto
scioccante. Essa suscitò reazioni negative verso la guerra nell’opinione
pubblica americana. L’atteggiamento del fotografo fu opposto a quello di Ut:
lui considerava giusta l’esecuzione senza processo del prigioniero di guerra e
come il generale riteneva che l’assassinio sul campo di un guerrigliero senza
divisa fatto prigioniero fosse giustificato. Il generale alla fine della guerra
si rifugiò negli USA e fu spesso oggetto di minacce per il suo crimine. Adams
ricevette il premio Pulitzer e rimase amico del generale. Una fotografia,
soprattutto se è di guerra, è ambigua per sua stessa natura, anche se impone a
chi la osserva una condivisione o un rifiuto: gli americani schierati col
governo per la guerra non ne furono per niente dispiaciuti, anzi approvarono il
fatto, mentre i pacifisti ne furono sconvolti. Tale dicotomia d’interpretazione
verso questa foto perdura ancora negli USA. Nell’anno in corso, 2018, questa foto fu
pubblicata su Youtube con questa didascalia: “Execution of Viet Cong prisoner -
Eddie Adams/AP Photo - The graphic image stunned the public and politicians
alike, quickly adding to the mounting opposition to the war in Vietnam. Some
historians say it may have changed the course of the war itself”. I commenti
degli utenti furono molto diversi: SliceofHorse (Luglio 2018) sostiene che “The
man being executed in this picture was a war criminal. The man doing the
shooting was a war hero that eventually moved to United States and opened up a
restaurant.” Ruud Kruyswijk si spinge ancora più in là: "The executed man
was just caught. He was executed by the chief of the Saigon police. The man had
entered the private house of the same chief commissioner and stabbed both his
little children (between 4 and 6) with a bayonet in the underbelly. A method of
killing in which the victim dies a rather slow and cruel dead under
excruciating pains. There exist filmed documents of this, showing the children
in pain. I've seen the film images". Per il primo l’assassinato è un criminale
di guerra, il secondo precisa che avrebbe ucciso a colpi di baionetta i due
figli del generale. Le fonti al riguardo sono ambigue: su Wikipedia l’ufficiale
Viet Cong avrebbe ucciso alcuni familiari del generale, in un altro passo dello
stesso documento si dice che avrebbe ucciso un ufficiale sudvietnamita che si
rifiutò di spiegargli il funzionamento dei carri armati americani di cui i
Vietcong si erano impadroniti. Il franco tiratore che opera senza divisa e
commette crimini e non atti di guerra, secondo il diritto internazionale, può
essere condannato a morte, ma sempre dopo processo da parte degli organi
competenti. Il generale, a sua volta senza divisa, durante il rastrellamento si
macchiò dell’assassinio di centinaia di civili e guerriglieri. Ai feriti non fu
somministrata alcuna cura. La fotografia ebbe ed ha ancora dunque in USA
diverse interpretazioni a seconda dell’ideologia del fruitore, mentre
probabilmente nel resto del mondo, non coinvolto nel conflitto, fu interpretata
solo come dimostrazione degli orrori della guerra.
Getty Images
Getty Images
Le due fotografie qui sopra furono prese durante
l’offensiva nordvietnamita sulla città di Quang Tri (Marzo 1972) da Ennio
Jacobucci, free lance che collaborava con Associated Press, United Press e il
settimanale Time. In seguito alla pubblicazione di queste foto Jacobucci
dovette nascondersi in casa di amici a Saigon (fonte: sito Abruzzolink,
articolo “Il Vietnam di Ennio Jacobucci”, Paola Smaglica, 14 ottobre 2015.)
Didascalia:
Photo taken by United
States Army
photographer Ronald
L. Haeberle
on March 16, 1968 in the aftermath of the My Lai
massacre
showing mostly women and children dead on a road. Fonte Wikipedia).
Il massacro di My Lai, 16 marzo 1968: 584 civili
sudvietnamiti, vecchi, donne e bambini, molte donne torturate e stuprate infine
uccise. I due soldati (Lawrence Colburn e Glenn Andreotta) che fermarono il
massacro puntando le mitragliatrici contro i commilitoni di una compagnia della
23esima Divisione di fanteria, furono decorati con la Soldier Medal, la massima
onorificenza per atti di coraggio che non coinvolgono il nemico. Un giornalista
investigativo indipendente, Seymour Hersh, scoprì la storia di
My Lai il 12 novembre 1969. Importanti testate
come Life e Look rifiutarono però di pubblicare i
risultati della sua inchiesta, che divennero di pubblico dominio solo quando
Hersh riuscì a scrivere un articolo per la Associated
Press, col quale metteva in dubbio il numero reale dei morti e
svelava l'accusa mossa dal tribunale militare nei confronti del sottotenente
Calley di avere ucciso più di cento vietnamiti. Il 20 novembre il quotidiano di
Cleveland The Plain Dealer pubblicò fotografie
esplicite dei cadaveri delle persone uccise a My Lai e la storia fu
ripubblicata su diverse testate come Time, Life e Newsweek. Il massacro di My
Lai sarebbe passato sottaciuto se non fosse stato per un altro soldato che,
indipendentemente da Glen, inviò una lettera al suo rappresentante al
Congresso.
Seguivo giornalmente la guerra, così impari da essere un
massacro, e vedevo queste fotografie. Allora i giornalisti erano ben accetti
dal governo americano perché documentavano quello che per i capi militari era
una passeggiata militare contro un popolo indifeso di contadini, ma questo
libero accesso sul campo delle operazioni militari si ritorse contro di loro:
fotografie e filmati cominciarono a mostrare, insieme alla sfilata di corpi di
contadini massacrati, anche i loro soldati feriti, spaventati, impauriti,
esanimi. Dopo di allora nessun giornalista fu più ammesso sul campo durante le
guerre dell’imperialismo statunitense. Ora giornalisti e fotografi sono
“embedded”: dal 2003 sono letteralmente “arruolati” nell’esercito e le loro
informazioni sottoposte a censura. Non arrivano più a noi le immagini delle
stragi commesse dagli sgherri dell’imperialismo americano, che ora sono tutti
mercenari, anche se non tutti americani. Ora ci sono vari tipi di soldati: di
mestiere, specializzati e con ferma lunga, nelle varie armi. Soldati
decisamente mercenari chiamati contractors, dipendenti da società come
la Blackwater, e persone di nazionalità diversa (centramericani per gli Usa,
indiani per la Gran Bretagna) che ottengono la cittadinanza dopo un periodo di
ferma lunga e comportamento con onore. Gli eserciti imperiali dei nostri
giorni, quindi, non fanno che copiare quello che faceva l'impero che li ha
preceduti, l'impero romano. Dobbiamo considerare mercenari solo gli ultimi due
gruppi? O solo i contractors? O tutti e tre? Non saprei. Tutti
effettivamente ricevono uno stipendio. Si può chiamarli tutti mercenari se
diamo una valutazione negativa (non sono giovani di leva chiamati a difendere
la nazione ma specialisti della guerra ben pagati). Da un punto di vista
tecnico mi sembrano mercenari più gli altri due; il primo perché non è
sottoposto alla disciplina militare e ai suoi tribunali e quindi in territorio
di guerra è più libero di uccidere, e poi gli stipendi molto più consistenti;
il secondo perché ha abbandonato la patria e combatte solo per soldi e
benefici. Certo questa tipologia militare tende ad aumentare. Quanto sarà
grande l'offerta per gli USA: un esercito di stranieri con ufficiali USA! Poi
un esercito di stranieri con ufficiali stranieri. Poi, chissá! Comunque tra non
molto una nuova schiera di soldati si aggiungerà alle altre: robot e automi.
Questa fotografia è presente nell’archivio “Getty Images”
didascalia: Settembre 1967. Una ragazza nordvietnamita punta il fucile contro
il pilota dell’Aviazione USA Gerald Santo Venanzi mentre cammina tra la
vegetazione davanti a lei. Venanzi era il copilota di un aereo che fu abbattuto
nel Settembre 1967. Porta la divisa da volo e l’elmetto. (foto dell’Hulton
Archive/Getty Images)
L’immagine di questa minuta giovane nordvietnamita che
tiene a bada con un fucilino il gigantesco sgherro dell’Impero, che era fino a
poco prima alla guida di una macchina di morte dal costo di molti milioni di
dollari, mi riempì di gioia.
Fonte: Storiadigitale Zanichelli linker. Fotografia di
Marc Riboud del 1967
come pure la foto di questa giovane americana che
fronteggiava le baionette. Anche questa foto è un’icona dell’opposizione
giovanile alla guerra vietnamita.
Così pure la notizia della presenza di Joan Baez ad Hanoi
durante i bombardamenti dei B52 del 1972.
E infine una grande gioia: vedere gli ultimi americani
presenti in Saigon il 30 aprile 1975 scappare come ladri sui loro elicotteri e
aeroplani.
Il fotografo olandese Hugh Van Es riprese il 29 Aprile
1975 la fuga degli ultimi americani da Saigon. ll tetto immortalato non era
quello dell’ambasciata americana ma di un edificio al numero 22 di Gia Long
street usato da quartiere generale dalla Cia e le decine di persone che si
accalcavano sulla scaletta erano il personale dell'agenzia che veniva evacuato.
E gli americani buttare in mare i loro stessi elicotteri
dalle portaerei per far posto ai nuovi arrivi.
Fonte: sito USNI News, articolo: Riflessioni di un marine
sulla fine della guerra del Vietnam del Gen. Joseph P. Hoar,
USMC (Ret.) 30 aprile 2015 10:53
L’atteggiamento aggressivo dell’imperialismo americano, e
ora arriviamo ad oggi perché il passato si giudica col metro dell’oggi, non
mutò neppure dopo l’attacco suicida alle torri gemelle. E quest’operazione
bellica fu per niente “vile”, come disse il Presidente Bush: è necessario molto
coraggio e molto odio invece per andare a schiantarsi e morire. Mai nessuno era
arrivato, prima di Atta e i suoi compagni, a bombardare il centro stesso
dell’imperialismo americano, abbattendone quello che era il loro simbolo. È
molto probabile, però, che il governo americano fosse informato dell’attacco e
volesse lasciarlo eseguire (quel giorno le forze aeree erano state tutte
impegnate, tranne solo quattro caccia in esercitazioni in zone lontane da New
York) per avere un motivo per occupare l’Afghanistan, zona da sempre
strategica, contesa prima tra l’Impero Russo e l’Impero Britannico, poi tra
Impero Sovietico e Impero Usa che agiva per interposta persona attraverso la
creazione dello jihadismo. D’altra parte i governi USA sono adusi a creare casus
belli, come aver permesso ai giapponesi l’attacco a Pearl Harbour,
lasciando in porto le vecchie corazzate varate nel 1916 e allontanando però le
nuove portaerei, per portare l’opinione pubblica isolazionista a chiedere la
guerra. Altrettanto avvenne col sabotaggio e l’esplosione della vecchia e
obsoleta corazzata Maine nel porto dell’Avana per attaccare la Spagna e
impadronirsi di Cuba, con il finto “incidente del Tonchino” per cominciare a
bombardare il Nord Vietnam, con la colossale balla delle “armi di distruzione
dei massa” nelle mani di Saddam per mettere le mani sul petrolio irakeno, e con
la balla dell’emergenza umanitaria in Kossovo per stabilire una enorme base
militare, Camp Bondsteel, descritto come una piccola Guantanamo dall'inviato
per i diritti umani del Consiglio d'Europa Alvaro Gil-Robles, nel bel mezzo dei
Balcani. E ora veniamo al momento in cui il “nostro Vietnam” diventa “il mio
personale Vietnam”. Sono ben lontani i tempi in cui mi sentivo parte di un
movimento mondiale pacifista: ora semmai la sensazione è di essere solo, e
quello che provo guardando i filmati su Youtube che mostrano i soldati
americani che eliminano, seduti in poltrona adoperando lo stesso joystick che
si usa per i giochi, i “terroristi” con la stessa fatica e minuziosità con cui
si schiaccerebbero delle formiche inopportune, è solo stanchezza,
scoraggiamento, rassegnazione al nuovo ordine mondiale.
Gli Stati Uniti, che erano stati capaci di assassinare in
quattro soli bombardamenti (Dresda, Tokio, Hiroshima e Nagasaki) un milione di
esseri umani, non hanno ben imparato dalla lezione impartitagli dal popolo del
Vietnam: hanno acquisito una superiorità militare tale da poter continuare a
spargere dappertutto morte e distruzione, lanciati verso il controllo e il
dominio sul mondo intero grazie alle spese militari spropositate, con migliaia
di basi militari strategiche sparse su tutta la terra e responsabili, con il
consumo di combustibili fossili e di qualsiasi altro genere di risorsa,
altrettanto sproporzionato, dei cambiamenti climatici che determineranno tra
non molti decenni la fine del mondo così come ora lo conosciamo.
L’antimperialismo moderno deve avere l’obiettivo di salvare il pianeta e i
popoli dalle guerre e l’estinzione, stabilendo un equilibrio tra le genti su
basi di equità e libertà di scelta, con un nuovo regime di decrescita
armoniosa. Ricordiamo, però, che quello americano è un governo, liberamente
eletto da una minoranza del suo popolo, che ha commesso e commette pure crimini
come questi che pochi hanno visto e che non sono andati sui quotidiani e in TV:
eccone gli effetti sui bambini e i neonati dovuti all’agente Orange
sparso in abbondanza sul Vietnam per distruggerne le foreste. Bilancio:
4.800.000 persone esposte, 800.000 morti, 500.000 bambini vietnamiti nati con
deformità (dati forniti dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica del
Vietnam).
Le due fotografie qui sopra furono prese durante
l’offensiva nordvietnamita sulla città di Quang Tri (Marzo 1972) da Ennio
Jacobucci, free lance che collaborava con Associated Press, United Press e il
settimanale Time. In seguito alla pubblicazione di queste foto Jacobucci
dovette nascondersi in casa di amici a Saigon (fonte: sito Abruzzolink,
articolo “Il Vietnam di Ennio Jacobucci”, Paola Smaglica, 14 ottobre 2015.)
Didascalia:
Photo taken by United
States Army
photographer Ronald
L. Haeberle
on March 16, 1968 in the aftermath of the My Lai
massacre
showing mostly women and children dead on a road. Fonte Wikipedia).
Il massacro di My Lai, 16 marzo 1968: 584 civili
sudvietnamiti, vecchi, donne e bambini, molte donne torturate e stuprate infine
uccise. I due soldati (Lawrence Colburn e Glenn Andreotta) che fermarono il
massacro puntando le mitragliatrici contro i commilitoni di una compagnia della
23esima Divisione di fanteria, furono decorati con la Soldier Medal, la massima
onorificenza per atti di coraggio che non coinvolgono il nemico. Un giornalista
investigativo indipendente, Seymour Hersh, scoprì la storia di
My Lai il 12 novembre 1969. Importanti testate
come Life e Look rifiutarono però di pubblicare i
risultati della sua inchiesta, che divennero di pubblico dominio solo quando
Hersh riuscì a scrivere un articolo per la Associated
Press, col quale metteva in dubbio il numero reale dei morti e
svelava l'accusa mossa dal tribunale militare nei confronti del sottotenente
Calley di avere ucciso più di cento vietnamiti. Il 20 novembre il quotidiano di
Cleveland The Plain Dealer pubblicò fotografie
esplicite dei cadaveri delle persone uccise a My Lai e la storia fu
ripubblicata su diverse testate come Time, Life e Newsweek. Il massacro di My
Lai sarebbe passato sottaciuto se non fosse stato per un altro soldato che,
indipendentemente da Glen, inviò una lettera al suo rappresentante al
Congresso.
Seguivo giornalmente la guerra, così impari da essere un
massacro, e vedevo queste fotografie. Allora i giornalisti erano ben accetti
dal governo americano perché documentavano quello che per i capi militari era
una passeggiata militare contro un popolo indifeso di contadini, ma questo
libero accesso sul campo delle operazioni militari si ritorse contro di loro:
fotografie e filmati cominciarono a mostrare, insieme alla sfilata di corpi di
contadini massacrati, anche i loro soldati feriti, spaventati, impauriti,
esanimi. Dopo di allora nessun giornalista fu più ammesso sul campo durante le
guerre dell’imperialismo statunitense. Ora giornalisti e fotografi sono
“embedded”: dal 2003 sono letteralmente “arruolati” nell’esercito e le loro
informazioni sottoposte a censura. Non arrivano più a noi le immagini delle
stragi commesse dagli sgherri dell’imperialismo americano, che ora sono tutti
mercenari, anche se non tutti americani. Ora ci sono vari tipi di soldati: di
mestiere, specializzati e con ferma lunga, nelle varie armi. Soldati
decisamente mercenari chiamati contractors, dipendenti da società come
la Blackwater, e persone di nazionalità diversa (centramericani per gli Usa,
indiani per la Gran Bretagna) che ottengono la cittadinanza dopo un periodo di
ferma lunga e comportamento con onore. Gli eserciti imperiali dei nostri
giorni, quindi, non fanno che copiare quello che faceva l'impero che li ha
preceduti, l'impero romano. Dobbiamo considerare mercenari solo gli ultimi due
gruppi? O solo i contractors? O tutti e tre? Non saprei. Tutti
effettivamente ricevono uno stipendio. Si può chiamarli tutti mercenari se
diamo una valutazione negativa (non sono giovani di leva chiamati a difendere
la nazione ma specialisti della guerra ben pagati). Da un punto di vista
tecnico mi sembrano mercenari più gli altri due; il primo perché non è
sottoposto alla disciplina militare e ai suoi tribunali e quindi in territorio
di guerra è più libero di uccidere, e poi gli stipendi molto più consistenti;
il secondo perché ha abbandonato la patria e combatte solo per soldi e
benefici. Certo questa tipologia militare tende ad aumentare. Quanto sarà
grande l'offerta per gli USA: un esercito di stranieri con ufficiali USA! Poi
un esercito di stranieri con ufficiali stranieri. Poi, chissá! Comunque tra non
molto una nuova schiera di soldati si aggiungerà alle altre: robot e automi.
Questa fotografia è presente nell’archivio “Getty Images”
didascalia: Settembre 1967. Una ragazza nordvietnamita punta il fucile contro
il pilota dell’Aviazione USA Gerald Santo Venanzi mentre cammina tra la
vegetazione davanti a lei. Venanzi era il copilota di un aereo che fu abbattuto
nel Settembre 1967. Porta la divisa da volo e l’elmetto. (foto dell’Hulton
Archive/Getty Images)
L’immagine di questa minuta giovane nordvietnamita che
tiene a bada con un fucilino il gigantesco sgherro dell’Impero, che era fino a
poco prima alla guida di una macchina di morte dal costo di molti milioni di
dollari, mi riempì di gioia.
Fonte: Storiadigitale Zanichelli linker. Fotografia di
Marc Riboud del 1967
come pure la foto di questa giovane americana che
fronteggiava le baionette. Anche questa foto è un’icona dell’opposizione
giovanile alla guerra vietnamita.
Così pure la notizia della presenza di Joan Baez ad Hanoi
durante i bombardamenti dei B52 del 1972.
E infine una grande gioia: vedere gli ultimi americani
presenti in Saigon il 30 aprile 1975 scappare come ladri sui loro elicotteri e
aeroplani.
Il fotografo olandese Hugh Van Es riprese il 29 Aprile
1975 la fuga degli ultimi americani da Saigon. ll tetto immortalato non era
quello dell’ambasciata americana ma di un edificio al numero 22 di Gia Long
street usato da quartiere generale dalla Cia e le decine di persone che si
accalcavano sulla scaletta erano il personale dell'agenzia che veniva evacuato.
E gli americani buttare in mare i loro stessi elicotteri
dalle portaerei per far posto ai nuovi arrivi.
Fonte: sito USNI News, articolo: Riflessioni di un marine
sulla fine della guerra del Vietnam del Gen. Joseph P. Hoar,
USMC (Ret.) 30 aprile 2015 10:53
L’atteggiamento aggressivo dell’imperialismo americano, e
ora arriviamo ad oggi perché il passato si giudica col metro dell’oggi, non
mutò neppure dopo l’attacco suicida alle torri gemelle. E quest’operazione
bellica fu per niente “vile”, come disse il Presidente Bush: è necessario molto
coraggio e molto odio invece per andare a schiantarsi e morire. Mai nessuno era
arrivato, prima di Atta e i suoi compagni, a bombardare il centro stesso
dell’imperialismo americano, abbattendone quello che era il loro simbolo. È
molto probabile, però, che il governo americano fosse informato dell’attacco e
volesse lasciarlo eseguire (quel giorno le forze aeree erano state tutte
impegnate, tranne solo quattro caccia in esercitazioni in zone lontane da New
York) per avere un motivo per occupare l’Afghanistan, zona da sempre
strategica, contesa prima tra l’Impero Russo e l’Impero Britannico, poi tra
Impero Sovietico e Impero Usa che agiva per interposta persona attraverso la
creazione dello jihadismo. D’altra parte i governi USA sono adusi a creare casus
belli, come aver permesso ai giapponesi l’attacco a Pearl Harbour,
lasciando in porto le vecchie corazzate varate nel 1916 e allontanando però le
nuove portaerei, per portare l’opinione pubblica isolazionista a chiedere la
guerra. Altrettanto avvenne col sabotaggio e l’esplosione della vecchia e
obsoleta corazzata Maine nel porto dell’Avana per attaccare la Spagna e
impadronirsi di Cuba, con il finto “incidente del Tonchino” per cominciare a
bombardare il Nord Vietnam, con la colossale balla delle “armi di distruzione
dei massa” nelle mani di Saddam per mettere le mani sul petrolio irakeno, e con
la balla dell’emergenza umanitaria in Kossovo per stabilire una enorme base
militare, Camp Bondsteel, descritto come una piccola Guantanamo dall'inviato
per i diritti umani del Consiglio d'Europa Alvaro Gil-Robles, nel bel mezzo dei
Balcani. E ora veniamo al momento in cui il “nostro Vietnam” diventa “il mio
personale Vietnam”. Sono ben lontani i tempi in cui mi sentivo parte di un
movimento mondiale pacifista: ora semmai la sensazione è di essere solo, e
quello che provo guardando i filmati su Youtube che mostrano i soldati
americani che eliminano, seduti in poltrona adoperando lo stesso joystick che
si usa per i giochi, i “terroristi” con la stessa fatica e minuziosità con cui
si schiaccerebbero delle formiche inopportune, è solo stanchezza,
scoraggiamento, rassegnazione al nuovo ordine mondiale.
Gli Stati Uniti, che erano stati capaci di assassinare in
quattro soli bombardamenti (Dresda, Tokio, Hiroshima e Nagasaki) un milione di
esseri umani, non hanno ben imparato dalla lezione impartitagli dal popolo del
Vietnam: hanno acquisito una superiorità militare tale da poter continuare a
spargere dappertutto morte e distruzione, lanciati verso il controllo e il
dominio sul mondo intero grazie alle spese militari spropositate, con migliaia
di basi militari strategiche sparse su tutta la terra e responsabili, con il
consumo di combustibili fossili e di qualsiasi altro genere di risorsa,
altrettanto sproporzionato, dei cambiamenti climatici che determineranno tra
non molti decenni la fine del mondo così come ora lo conosciamo.
L’antimperialismo moderno deve avere l’obiettivo di salvare il pianeta e i
popoli dalle guerre e l’estinzione, stabilendo un equilibrio tra le genti su
basi di equità e libertà di scelta, con un nuovo regime di decrescita
armoniosa. Ricordiamo, però, che quello americano è un governo, liberamente
eletto da una minoranza del suo popolo, che ha commesso e commette pure crimini
come questi che pochi hanno visto e che non sono andati sui quotidiani e in TV:
eccone gli effetti sui bambini e i neonati dovuti all’agente Orange
sparso in abbondanza sul Vietnam per distruggerne le foreste. Bilancio:
4.800.000 persone esposte, 800.000 morti, 500.000 bambini vietnamiti nati con
deformità (dati forniti dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica del
Vietnam).
Fonte: articolo pubblicato da: Enzo Sciarra a Milano sabato, febbraio 28, 2015
Fonte delle sei fotografie qui sopra: volume “Agent
Orange: 'Collateral Damage'” in VIETNAM pubblicato nel 2003 dal fotografo
gallese Philip Jones Griffiths. In questo libro l’autore ha riunito tutto il
suo materiale inedito che documenta gli effetti dell’Agente
Arancio, un erbicida utilizzato dall’esercito americano durante
la guerra. Il lavoro di Griffiths ci mostra come tutto ciò che temiamo — cose
noiose come la bancarotta, le malattie sessualmente trasmissibili e la
tristezza — non siano che una minuscola puntura di spillo, in confronto al
finimondo in cui si sono ritrovati i vietnamiti. (da sito non meglio
identificato “VICE CHANNELS”).
Non diverso tutto ciò rispetto ai nati dopo il
bombardamento americano di Falluja del 2004.
Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito
“comedonchisciotte”)
Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito
“comedonchisciotte”)
Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito
“comedonchisciotte”)
Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito
“comedonchisciotte”)
Nella battaglia di Falluja, combattuta tra l’8 Novembre e
il 25 dicembre 2004, le truppe USA bombardarono la città con napalm, fosforo
bianco e bombe MK-77 contenenti 340 kg di una miscela di kerosene e benzene,
tutte armi proibite dalle convenzioni internazionali. Gran parte della
popolazione, 300.000 persone, fu evacuata prima dei combattimenti, ma subì in
seguito le conseguenze dello spargimento delle sostanze chimiche teratogene.
Secondo un testimone, l'ex soldato statunitense Garret Reppenhagen, la maggior
parte delle uccisioni di civili, circa 800, avvenne intenzionalmente e non come
conseguenza dei combattimenti con gli insorti. La mortalità infantile a Falluja
ancora oggi è dell’80/1000 (quella italiana è 2,9/1000).
Anche queste foto sono state viste da pochi, anche se tutti
potevano e possono vederle, basta volerlo.
Al termine di questa discussione sui temi politici degli
anni ’70 vorrei fare un’osservazione su un problema che ha le radici in un
periodo ben precedente quegli anni: l’occupazione israeliana della Palestina e
l’attuale piaga purulenta di Gaza che ne è seguita, senza la cui soluzione
positiva per il popolo palestinese non ci sarà mai pace tra mondo musulmano e
Occidente. Come rimanere indifferenti di fronte a questo enorme lager, un
ghetto di due milioni di persone che non ha nulla da invidiare a quello di
Varsavia prima della soluzione finale? Un piccolo pezzo di terra dove si
accalcano due milioni di palestinesi, poverissimi, circondati da muraglie alte
4 metri sormontate da filo spinato, continuamente sottoposti a bombardamenti e
assassinii mirati, sorvolati da aerei dello Stato Ebraico che superano il muro
del suono per terrorizzarli col loro Bang, in cui è vietato introdurre
marmellata e cioccolata e cemento per ricostruire quello che l’esercito dello
Stato Ebraico continua a distruggere, scuole e ospedali compresi. 1.740
palestinesi assassinati nel 2008 durante l’operazione Piombo Fuso, 2.300
assassinati nel 21014 nell’operazione Margine di Protezione, 203 di cui
molti bambini dal Marzo 2018 a oggi durante le manifestazioni pacifiche contro
l’occupante. Mentre queste cose accadono, noi occidentali, veri sepolcri
imbiancati, volgiamo gli occhi da un’altra parte, non vogliamo vedere. Andiamo
a vedere i film americani sullo sterminio degli ebrei e magari ci commuoviamo
anche, ricordiamo lo sterminio con la Giornata della Memoria, e non muoviamo un
muscolo per il lento sterminio che avviene a Gaza e nei Territori Occupati. Ci
meravigliamo allora se un musulmano per ritorsione e rabbia investe con l’auto
qualcuno di noi occidentali? Non siamo noi corresponsabili dei crimini commessi
dall’imperialismo americano in Iraq, Afghanistan, Siria (dove sono state rase
al suolo due città per distruggere lo Stato Islamico che esso stesso aveva
contribuito a creare armandolo di armi modernissime, per poi schiacciarlo
quando era divenuto ingombrante?). Non ci sono forse anche i nostri soldati in
Iraq e Afghanistan? E quelli francesi, tedeschi, inglesi, eccetera? Siamo
davvero vittime innocenti, quando uno di noi muore nel momento stesso in
cui in Medio Oriente muoiono a centinaia?
Il mio Vietnam non è finito nel 1975.
Ora e sempre lotta antimperialista!
Federico Luciano Paganini,
Lucio
per i compagni e gli amici.
Fonte: articolo pubblicato da: Enzo Sciarra a Milano sabato, febbraio 28, 2015
Fonte delle sei fotografie qui sopra: volume “Agent
Orange: 'Collateral Damage'” in VIETNAM pubblicato nel 2003 dal fotografo
gallese Philip Jones Griffiths. In questo libro l’autore ha riunito tutto il
suo materiale inedito che documenta gli effetti dell’Agente
Arancio, un erbicida utilizzato dall’esercito americano durante
la guerra. Il lavoro di Griffiths ci mostra come tutto ciò che temiamo — cose
noiose come la bancarotta, le malattie sessualmente trasmissibili e la
tristezza — non siano che una minuscola puntura di spillo, in confronto al
finimondo in cui si sono ritrovati i vietnamiti. (da sito non meglio
identificato “VICE CHANNELS”).
Non diverso tutto ciò rispetto ai nati dopo il
bombardamento americano di Falluja del 2004.
Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito
“comedonchisciotte”)
Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito
“comedonchisciotte”)
Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito
“comedonchisciotte”)
Fonte: Robert Fisk, indipendent.co.uk (dal sito
“comedonchisciotte”)
Nella battaglia di Falluja, combattuta tra l’8 Novembre e
il 25 dicembre 2004, le truppe USA bombardarono la città con napalm, fosforo
bianco e bombe MK-77 contenenti 340 kg di una miscela di kerosene e benzene,
tutte armi proibite dalle convenzioni internazionali. Gran parte della
popolazione, 300.000 persone, fu evacuata prima dei combattimenti, ma subì in
seguito le conseguenze dello spargimento delle sostanze chimiche teratogene.
Secondo un testimone, l'ex soldato statunitense Garret Reppenhagen, la maggior
parte delle uccisioni di civili, circa 800, avvenne intenzionalmente e non come
conseguenza dei combattimenti con gli insorti. La mortalità infantile a Falluja
ancora oggi è dell’80/1000 (quella italiana è 2,9/1000).
Anche queste foto sono state viste da pochi, anche se tutti
potevano e possono vederle, basta volerlo.
Al termine di questa discussione sui temi politici degli
anni ’70 vorrei fare un’osservazione su un problema che ha le radici in un
periodo ben precedente quegli anni: l’occupazione israeliana della Palestina e
l’attuale piaga purulenta di Gaza che ne è seguita, senza la cui soluzione
positiva per il popolo palestinese non ci sarà mai pace tra mondo musulmano e
Occidente. Come rimanere indifferenti di fronte a questo enorme lager, un
ghetto di due milioni di persone che non ha nulla da invidiare a quello di
Varsavia prima della soluzione finale? Un piccolo pezzo di terra dove si
accalcano due milioni di palestinesi, poverissimi, circondati da muraglie alte
4 metri sormontate da filo spinato, continuamente sottoposti a bombardamenti e
assassinii mirati, sorvolati da aerei dello Stato Ebraico che superano il muro
del suono per terrorizzarli col loro Bang, in cui è vietato introdurre
marmellata e cioccolata e cemento per ricostruire quello che l’esercito dello
Stato Ebraico continua a distruggere, scuole e ospedali compresi. 1.740
palestinesi assassinati nel 2008 durante l’operazione Piombo Fuso, 2.300
assassinati nel 21014 nell’operazione Margine di Protezione, 203 di cui
molti bambini dal Marzo 2018 a oggi durante le manifestazioni pacifiche contro
l’occupante. Mentre queste cose accadono, noi occidentali, veri sepolcri
imbiancati, volgiamo gli occhi da un’altra parte, non vogliamo vedere. Andiamo
a vedere i film americani sullo sterminio degli ebrei e magari ci commuoviamo
anche, ricordiamo lo sterminio con la Giornata della Memoria, e non muoviamo un
muscolo per il lento sterminio che avviene a Gaza e nei Territori Occupati. Ci
meravigliamo allora se un musulmano per ritorsione e rabbia investe con l’auto
qualcuno di noi occidentali? Non siamo noi corresponsabili dei crimini commessi
dall’imperialismo americano in Iraq, Afghanistan, Siria (dove sono state rase
al suolo due città per distruggere lo Stato Islamico che esso stesso aveva
contribuito a creare armandolo di armi modernissime, per poi schiacciarlo
quando era divenuto ingombrante?). Non ci sono forse anche i nostri soldati in
Iraq e Afghanistan? E quelli francesi, tedeschi, inglesi, eccetera? Siamo
davvero vittime innocenti, quando uno di noi muore nel momento stesso in
cui in Medio Oriente muoiono a centinaia?
Il mio Vietnam non è finito nel 1975.
Ora e sempre lotta antimperialista!
Federico Luciano Paganini,
Lucio
per i compagni e gli amici.
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