Il cielo sopra via Torino
Un incontro di oggi, con un protagonista sopravvissuto da una storia di tanti anni fa, così come la morte di don Renzo Cortese, che fece innumerevoli viaggi di soccorso in Bosnia, mi hanno spinto a pubblicare qui questo mio vecchio racconto di fantasia ispirato dalla storia vera di un gruppo di coraggiosi. Ne avevo già parlato qui.
L’angelo Arishael
L’unica scelta di un attimo eterno.
Non fu sulla Luna che si svolse questo
fatto che cercherò di descrivere, riguardante un angelo, ma nel
Paese-del-non-Dove.
Non si può definire un luogo dove
risieda un puro spirito, e l’angelo è un puro spirito, un’idea di Dio che mette
in comunicazione Dio e gli uomini. Si dice, infatti, che l’angelo sia il
messaggero di Dio.
Un’altra prerogativa dell’angelo è che
la sua attività è lodare e servire Dio, cantare la sua grandezza.
L’attività dell’angelo, la sua
esistenza, non si svolge nel tempo.
La sua immortalità non vede un inizio
senza mai avere fine, come possiamo pensare noi, sempre restando nel flusso
temporale che sempre si svolge, per l’uomo, in un prima, nell’attimo presente,
e in un dopo.
L’angelo esiste in un non-tempo,
nell’eternità di Dio, pur essendo stato da lui creato, ma con un continuo
presente, un attimo da cui si può vedere passato e futuro dell’uomo.
La vita dell’angelo si svolge in un
unico attimo eterno.
Mentre l’uomo, immerso e costretto dal
tempo, condannato ad una fine certa, è sempre obbligato ad operare continue
scelte del presente che ne condizioneranno il futuro, l’angelo ha un’unica
scelta tra il dovere e gioia di lodare e servire Dio e non essere più un
angelo.
L’angelo ha quest’unica eterna scelta,
la scelta di un attimo. In quest’attimo, Arishael provò la tentazione di
confondersi con gli uomini, provare la corporeità, essere in mezzo alla folla,
essere toccato, spintonato dagli altri, sentire il profumo degli altri vicino a
lui, oppure provare quel certo sentimento che si sperimenta in un’alba, quando
il giorno rinasce e la natura ne canta la resurrezione con il concerto degli
uccellini.
Provò la tentazione di scegliere e
magari sbagliare, con il risvolto tutto umano di pagare di persona per il
proprio sbaglio, e quindi soffrire, magari piangere, e poi sentire il sapore
che ha una lacrima.
Provò l’invidia per gli uomini che
gustano i sapori dei cibi, il dolce, il salato, l’amaro, il frizzante e i
profumi delle donne, il profumo del mare, il piacere di immergersi nelle onde e
farsi travolgere e sbattere sulla riva, lasciandosi poi asciugare dal sole
cocente e sentire i granelli di sabbia sulla pelle e tra le dita.
L’angelo ebbe la curiosità di esaminare
un granello di sabbia, la polvere, così come desiderò essere un puntino
minuscolo sotto l’immensa volta del firmamento notturno e vedere da questo
punto di vista così limitato ma unico la grandiosità di questo spettacolo.
L’angelo sapeva che tutto questo gli era
negato. Sentiva le sensazioni ed il dolore degli uomini, poteva capirne i
sentimenti e li proteggeva con la preghiera, intercedendo continuamente per
loro presso Dio, ma non poteva provare direttamente col corpo nessuna vera
esperienza umana.
In quell’attimo, scelse.
L’angelo scelse di essere uomo.
Arisha
nacque in un villaggio bosniaco mussulmano che doveva più tardi essere
cannoneggiato dai tank serbi.
Il
padre era combattente, la mamma morì nel bombardamento ed il bambino, che aveva
allora tre anni, fu trovato sepolto vivo tra le macerie dai soccorritori
scampati alle bombe.
Non
ricordava neppure il proprio nome, che perciò gli fu dato dall’uomo che lo
aveva estratto da sotto la trave che lo aveva protetto.
Si
chiamava Arisha.
Lo
portò con sé sperando di consegnarlo a qualcuno che potesse prendersene cura
più a lungo.
Sfuggendo
all’accerchiamento serbo si allontanò dal teatro di guerra finché trovò una
donna disposta a prendere il piccolo Arisha nella sua famiglia. Volle essere
pagata.
Arisha
crebbe abbastanza sano, come fanno quelle erbe che spuntano tra le rocce e
devono approfittare delle scarse risorse che la natura mette a loro
disposizione.
Anche
piccolissimo, ma più ancora dopo l’affidamento, Arisha sapeva catturare
l’attenzione, suscitare la pietà e approfittarne per ottenere ciò che gli
serviva o che desiderava.
Era
un bambino vivace e curioso che voleva sperimentare tutte le nuove esperienze.
Come
quella volta che si avvicinò alla stufa a legna, l’aprì, estrasse senza
bruciarsi un tizzone e l’avvicinò all’altro braccio, per toccare la brace rossa
che emanava una così forte luce ed un così grande calore.
Inevitabilmente
si bruciò e si ustionò, ma anziché piangere, fissava incuriosito la pelle che
sfrigolava, si gonfiava in vescichette umide di siero.
Un
osservatore avrebbe potuto intuire che Arisha, paradossalmente, faceva
esperienza ed imparava il dolore, le conseguenze del fuoco, il controllo di sé
e la risposta del corpo ad un attacco esterno.
Altre
volte assaggiava i frutti o le erbe del bosco ed aveva imparato quali frutti
avevano un gusto gradevole e si potevano mangiare e quali invece potevano
servire per ottenerne, spremendoli, un succo colorato per disegnare le rocce.
Da
solo, senza che gli fosse insegnato, il bambino inventò i graffiti primitivi e
disegnava soldati, fucili, missili e cannoni anticarro, proiettili e case
intatte vicino a case distrutte.
Quando
nessuno lo vedeva cercava di trattenere il respiro in un’apnea che lo portava
all’anossia e provava così una sensazione di svenimento e di debolezza in tutto
il corpo che si prolungava anche quando il cervello riceveva un po’ d’ossigeno
quando riprendeva il respiro.
In
tali occasioni Arisha aveva delle visioni ed immaginava colori, luci e forme
che gli apparivano nello schermo che aveva nel cervello e che poteva vedere
anche ad occhi chiusi.
Sembravano
macchie e gocce d’olio illuminate da una luce sfolgorante in cui si dibattevano
microbi e vermi argentei e rossastri.
Se
qualcuno si fosse accorto di questa sua attività solitaria, avrebbe potuto
osservare che Arisha era uno strano bambino e avrebbe dovuto preoccuparsi e
dedicargli cure che invece purtroppo non ebbe.
Abbandonato
dal destino della guerra, che gli aveva tolto i genitori, poi salvato da chi lo
aveva fatto rinascere da sottoterra, ma presto da lui separato, era nuovamente
abbandonato dalla madre adottiva che poco si curava di lui.
Non
era raro che in qualche notte d’estate Arisha rimanesse fuori all’aperto, per
provare la paura del buio, ascoltare il canto notturno degli animali, osservare
il cielo pieno di stelle, e sperare di vedere i bagliori delle cannonate
all’orizzonte.
Così
si trovava sveglio al rinascere del giorno ad ascoltare, tra il vento,
l’assordante risveglio degli uccelli e degli altri animali diurni.
L’incontro
con il camion degli aiuti italiani, che passò dal loro villaggio e si fermò per
qualche ora, fu un’esperienza eccezionale per Arisha.
Non
era pianificata quella fermata, né era previsto che i volontari portassero
qualche genere di conforto ai rifugiati in quella zona.
La
destinazione era un’altra, ma, vista tanta povertà e le condizioni dei bambini,
la fermata si prolungò ed i volontari fraternizzarono con i rifugiati per mezzo
di sigarette, caffè, sale, pacchi di pasta e, soprattutto per i bambini come
Arisha, per mezzo di decine di giocattoli scartati dai ricchi bambini italiani
e donati ai poveri bambini della Bosnia.
La
mano del volontario italiano, quando fu il turno di Arisha di ricevere il suo
giocattolo, s’infilò in uno scatolone ed estrasse un giocattolo a forma di
parallelepipedo incartato in carta colorata.
Il
volontario lo scartò e gli disse, porgendoglielo:
“E’
una bellissima autopompa rossa dei pompieri, che fortuna!”
Arisha
allungò il braccio ustionato e prese la stupenda macchina, senza però sapere di
che macchina si trattasse, perché lui non sapeva chi fossero i pompieri.
Il
volontario accompagnò il dono con una carezza sulla testa ed un bellissimo
sorriso.
Era
più di quanto Arisha avesse avuto sinora dalla madre adottiva e da chiunque nel
villaggio.
Un
amico più grande gli assicurò che i pompieri sono degli uomini, come soldati,
ma anziché ammazzare le salvano le persone, dal fuoco, dai terremoti, dalle alluvioni,
dagli incidenti più diversi.
Così
Arisha, guardando la sua bruciatura e ripensando al racconto che la madre
adottiva gli faceva per fargli capire che non era figlio suo, ripensando a come
lui era stato ritrovato sotto le macerie, e consegnato a lei da quell’uomo che
lo aveva salvato, pensò e desiderò in cuor suo che quello dovesse essere un
pompiere e che se fosse stato presente quando aveva estratto quel tizzone dal
fuoco lui lo avrebbe salvato anche quella volta.
Un
giorno un suo piccolo amico giocava insieme con lui e con altri bambini,
intorno ad un laghetto che era una cava di terra abbandonata.
Era
ancora lì, semisommersa dal fango e dall’acqua, una draga arrugginita. I
bambini ed i ragazzi la conoscevano molto bene ed avevano fatto esperienza di
evoluzioni spericolate tra i bracci e le pale della draga, da cui si tuffavano
in acqua.
Quel
giorno alcuni pescavano con improbabili canne fatte di bastoni di legno, lenze
di spago sottile ed ami costruiti da loro battendo con un martello del fil di
ferro.
Incredibilmente,
dei piccoli pesci dal corpo piatto e di forma lenticolare, colorati di giallo
ed azzurro, abboccavano. L’acqua a riva era trasparente ed era sufficiente, per
i ragazzi che pescavano, avvicinarsi alla riva e portare l’amo davanti alla
bocca di questi pesci che ingoiavano l’amo senz’esca, incuriositi dal leggero
movimento e dal luccichio.
L’amico
di Arisha si era allontanato dal gruppo ed aveva fatto rotolare un tronco nel
laghetto.
Era
sua intenzione salirci a cavalcioni e traghettarsi in mezzo alla cava ad un
nido di germani su un isolotto.
Arisha
lo aveva perso di vista, intento a seguire la pesca dei suoi amici. Il piccolo
era salito sul tronco, ma questo aveva ruotato su se stesso, facendolo cadere e
ferendolo con un ramo.
Cercando
di salire o di aggrapparsi al tronco e di recuperare la riva, aveva intorbidito
l’acqua e smosso il fondo fangoso.
Arisha
sentì prima degli altri una sensazione di allarme e si girò a cercare il suo
amico, vide l’acqua muoversi intorno al tronco, in anelli concentrici. L’amico
era sotto, avvinghiato con i piedi nel fondo fangoso.
Arisha
decise che lui doveva salvarlo, era un pompiere e doveva salvare il suo amico,
ma doveva stare attento al fango.
Si
tuffò senza aspettare indugi e, in apnea, sott’acqua, nel torbido, liberò
l’amico e, afferratolo saldamente, lo trascinò in un punto dove c’erano delle
rocce e dove lui poteva agevolmente portarlo all’asciutto.
Uno
dei bambini era andato a chiamare le donne al villaggio.
Arisha
ebbe la gloria ed i festeggiamenti riservati ad un salvatore, ad un eroe.
La
mamma adottiva aveva avuto i ringraziamenti dalla madre del piccolo; così
Arisha quella sera poté assaggiare del liquore di prugne fatto da lei.
Un
giorno passarono dal villaggio dei combattenti, una piccola pattuglia che
cercava vettovaglie.
Tutti
erano scappati nei boschi, portandosi coperte e cibo e conducendo con sé gli
animali.
I
soldati sfondarono porte, ruppero finestre, saccheggiarono i pollai e le
cantine in cui poterono trovare qualche bottiglia, si ubriacarono e per fortuna
si limitarono a bruciare un pagliaio, per sfogare la paura di anni di guerra
ballando intorno al falò.
Le
donne e gli anziani del villaggio e così Arisha e gli altri bambini, vedendo i
bagliori del fuoco, pensarono che bruciasse il villaggio, anche se non era
così.
Loro
non potevano vedere il villaggio dalla loro posizione e perciò decisero di
mandare ad osservare da vicino il loro eroe, Arisha, con due suoi compagni che
lui stesso avrebbe scelto.
Per
Arisha era certo un onore e così non pensò alla paura, mentre certamente la
provarono i due che scelse.
La
prudenza estrema e la paura dei due compagni rallentarono moltissimo la
missione, ma, alla fine, scoperto che non c’era più d’aver paura perché i
soldati se n’erano andati ed il danno era limitato, i tre, trovate delle
bottiglie lasciate dai soldati vicino al pagliaio bruciato, pensarono di
scolarsele per allontanare la paura rimasta, e così fecero.
Si
ubriacarono e fu per tutti la prima volta.
Li
scoprirono addormentati le donne che, preoccupate perché non ritornavano, erano
sopraggiunte circospette alla loro ricerca.
La
considerazione del villaggio per Arisha dopo questo increscioso episodio
diminuì notevolmente sino a far dimenticare il salvataggio.
Ma
per Arisha l’esperienza dell’impresa rischiosa e dell’ubriacatura era stata,
tutto sommato, divertente.
Non
perdeva occasione per portare alla bocca qualsiasi liquido che fosse poco o
molto alcolico.
Presto
quest’abitudine divenne un problema, perché Arisha era arrivato al punto di
fare qualsiasi lavoro gli fosse richiesto in cambio di un po’ d’alcool.
Rubava
persino, per bere.
Rubò
ai vicini, vendette del ferro che ricavò da certe installazioni della cava e
persino dalla draga.
Infine
rubò alla madre adottiva, che lo scoprì e lo cacciò da casa.
Mortificato
dalle parole che la donna gli aveva scagliato contro, non osò presentarsi
nuovamente alla sua porta, disposto al pentimento e alle scuse. Preferì, alle
false promesse che avrebbe potuto farle, la via della fuga. Passò la notte nel
bosco, come tante volte aveva fatto, ma non poté vedere le stelle, perché il
cielo autunnale era coperto.
Faceva
piuttosto freddo ed Arisha si rimediò un giaciglio con le foglie di un castagno
sotto il quale si era sdraiato.
Non
mancavano persino le punture dei ricci.
Al
mattino mangiò alcune castagne crude, che furono l’unico pasto del giorno,
poiché decise di incamminarsi nel bosco: voleva andar via dal paese che lo
aveva cacciato.
Certo,
se l’era voluta, la colpa era sua, ma l’odio verso la gente del suo paese ed in
special modo verso la madre adottiva era grande ed insanabile. Sarebbe andato
via, lontano, dove avrebbe potuto dimenticare quel luogo e la gente che lo
abitava.
D’altronde,
lui non era di lì, c’era stato portato quando la mamma vera era morta.
Era
senza nessuno, era solo, era triste, ma era anche completamente libero: di
costruire la sua nuova vita, da solo oppure con altra gente, in un altro luogo.
Era
stufo di una vita senza speranze, in un paese in guerra in cui la gente lottava
per il cibo e per tutto ciò che era indispensabile.
L’Italia,
il bel paese ricco e generoso, avrebbe potuto essere il suo rifugio, la sua
terra promessa.
Si
diresse a Nord senza incontrare paesi, sulle montagne, e camminò per due giorni
digiunando.
Giunse
ad un villaggio alle pendici della parete dell’ultimo monte che aveva
scavalcato, dove trovò un po’ di cibo: polenta e formaggio.
Ripartì
sempre a piedi attraversando una valle, superò un altro monte, sempre adattandosi
a ciò che la Provvidenza gli presentava.
Si
attrezzò in modo rudimentale per la caccia, munendosi di una lama, costruendosi
un arco; non dimenticò di farsi dare dei preziosi fiammiferi. Così poté, non
senza insuccessi, riuscire a mangiare la carne.
Si
adattò alle carni più insolite e meno prelibate, anzi direi le più disgustose,
ma si alimentò anche là dove non poteva vivere della carità di chi incontrava.
Rafforzò
il suo carattere il pensiero che riusciva a farcela e che proseguiva nel suo
cammino verso l’Italia.
Il
pensiero che doveva fare a meno dell’alcol lo faceva soffrire, ma la decisione
che aveva adottato di farne a meno per sempre, visto che l’alcol lo aveva
portato a quel frangente, era rafforzata dalla Necessità, che lo costringeva a
farne a meno.
Quando
un valligiano gli offrì, insieme con un piatto di minestra di fagioli, un
bicchiere di vino rosso, riuscì a rifiutare, con una notevole lotta tra vizio e
volontà.
Attraversò
poi segretamente due confini, aiutato dalla fortuna e dalla scarsa sorveglianza
che c’è in montagna.
Non
si legò a gruppi di profughi che, come lui, tentavano la sorte con un nuovo
lancio di dadi in uno dei paesi d’Europa.
Aveva
deciso che la sua nuova vita sarebbe cominciata in Italia, dove sarebbe
completamente cambiato: senza più bere, sarebbe diventato migliore e avrebbe
realizzato i suoi sogni.
Sarebbe
potuto diventare qualsiasi cosa: si pensava ricco, potente e famoso, ma buono e
generoso.
La
sorte sarebbe stata generosa anch’essa con lui, perché lui si disponeva
favorevolmente di fronte al futuro.
I
suoi buoni propositi però si scontravano giornalmente con le necessità
quotidiane.
Nel
suo pellegrinaggio solitario ed essenziale aveva imparato che si poteva fare a
meno persino del necessario, almeno per qualche tempo.
Il
rispetto umano ed il timore di offendere la propria dignità, chiedendo agli
altri il cibo o l’ospitalità, erano superati da una spontanea umiltà e dalla
giustificazione che si dava, convinto di chiedere solo ciò che era necessario.
Ma
spesso, oltre al cibo, erano necessari pure i soldi e così Arisha tornò a
rubacchiare.
Riuscì
sempre a cavarsela senza essere mai preso dalle sue vittime né dalla polizia.
Così
in Italia cominciò la sua attività come ladro.
Si
cibava alle mense popolari per bisognosi o dai parroci dei paesi che incontrava
nel suo peregrinare.
Finì
nella nostra città.
Dormiva
per strada, nei giardini o sotto una tettoia od un portico quando pioveva.
Rimediò
un sacco a pelo da un barbone che gli morì accanto.
Aveva
pure dei cartoni che nascondeva di giorno in un angolo di un cortile o per
terra sotto ad una macchina che nessuno muoveva mai.
Con
i cartoni si costruiva una scatola intorno al sacco a pelo, sopra, specialmente
sotto, e di lato, per ripararsi dal vento e dal freddo.
Si
stabilì per un lungo periodo sotto la tettoia della chiesa degli evangelici,
mangiava dai francescani ed alla mensa di Via Torino, gestita dal gruppo missionario
cattolico.
Sulla
strada imparò tutti i trucchi della piazza, i suoi traffici, ai quali si
mischiò con successo, ma mantenendo sempre un basso profilo.
Si
astenne dall’eroina e continuò a perseverare nel proposito di non bere, ma
cominciò a fumare tabacco e hascisc.
I
suoi magri introiti andavano al fumo e alle riviste pornografiche che Arisha
consumava con la stessa bramosia.
Per
il tabacco fece una deroga alla regola che si era dato: chiedere solo il
necessario.
Cominciò
quindi senza ritegno a scroccare le sigarette a chiunque gli capitasse a tiro.
Con
la simpatia si conquistò alcuni amici sia nel suo ambiente sia tra i volontari
della mensa che frequentava alla sera, che parlavano volentieri con lui, così
piccolo e già sulla strada, sbattuto dalla Storia in una condizione così
difficile e pericolosa per la sua età, ma già risoluto e ricco di carattere,
capace di difendersi dagli altri.
Specialmente
con un volontario, un certo Fabrizio, c’era da parte di Arisha rispetto e
gratitudine.
Fabrizio
osservava Arisha con un particolare riguardo, perché voleva preservarlo da
eventuali pericoli, e metterlo in guardia da amicizie non troppo indicate per
lui.
Un
altro volontario aveva messo una pulce nell’orecchio di Fabrizio a riguardo di
un’amicizia pericolosa per Arisha: un cinquantenne molto gentile e pulito con
un berretto di stile Navy, un giubbotto blu senza maniche con molte tasche ed
un borsello a tracolla.
La
gentilezza e la confidenza che questo aveva per Arisha erano sospetti.
Arisha
ricevette da quest’uomo molti regali: prima una medaglia ed una collanina, poi
giornaletti pornografici di cui i volontari non poterono accorgersi, poi una
radiolina con registratore portatile con cuffia, infine addirittura un
telefonino, forse rubato.
Arisha
si pavoneggiava di questi oggetti, che riempivano il suo narcisismo
esibizionista.
I
due non celavano una notevole intimità, che trapelava dagli sguardi che si
scambiavano quando s’incontravano nel giardino della mensa.
Un
giorno, però, i due si sedettero come il solito fianco a fianco ma, dopo alcuni
minuti che chiacchieravano, scoppiarono in un improvviso litigio, passando
presto alle mani con pugni diretti al viso.
Arisha,
rabbiosamente, tirava colpi senza guardare dove colpiva, mentre l’altro tirava
al mento e agli zigomi, con la forza di tutto il corpo, di notevole massa,
attribuendo ai colpi un effetto devastante.
Fabrizio
aveva assistito sorpreso alla gragnola di colpi scambiati dai due ed appena
comprese che avevano colpa entrambi gridò:
“Fuori!
Tutti e due!”
Arisha,
rintronato dai colpi subiti, non se lo fece ripetere ed uscì subito, gridando
però male parole all’altro, che lo seguì per rincorrerlo.
Usciti
fuori, continuarono a provocarsi, mantenendo una breve ma prudente distanza,
mentre tutti, volontari ed ospiti della mensa, erano accorsi al cancello per
vedere gli sviluppi della lite.
Vedendo
che tutti lo guardavano e che lo avrebbero giudicato per il suo comportamento,
Arisha scelse di mantenere un contegno provocatorio con il suo avversario,
mentre l’altro cercava davvero di avvicinarsi ad Arisha per dargli una pesante
lezione, forte della sua superiorità.
E
più Arisha insultava l’altro, più l’altro lo inseguiva e lo faceva retrocedere,
finché lo raggiunse e gli affibbiò un diretto ed un gancio che fecero cadere
Arisha in terra, ma gli lasciarono la prontezza per sgusciare con agilità e
scappare di corsa a diversi isolati di distanza.
Nonostante
fosse già lontano, l’inseguitore si diresse con sollecitudine nella direzione
in cui Arisha era scappato e sparì alla vista anch’esso.
Fabrizio
mise in moto il meccanismo di espulsione per entrambi chiedendo a Gabriella, la
capogruppo, di ratificarlo.
Diedero
mandato ad un terzo volontario di avvisare i volontari del giorno dopo del
provvedimento di esclusione emesso contro i due, che avrebbero dovuto essere
descritti per la loro identificazione.
Qualcosa
non funzionò, e fu così che qualche giorno dopo entrambi tornarono,
riappacificati tra di loro, a mangiare alla mensa.
Ma
Arisha era incrudito ed incattivito, perciò, dopo due settimane, quando
Fabrizio era assente ed era sostituito da Mauro, litigò con un
tossicodipendente zoppo che lo picchiò con la stampella.
Arisha
ci dette dentro con cattiveria e tecnica da picchiatore.
Entrambi
si conciarono per le feste, come si dice, e stavolta furono espulsi: lo zoppo
per un mese ed Arisha per sempre.
Fabrizio
lo rivedeva ogni tanto per la città, una volta con in braccio un televisore,
altre a bordo di una bicicletta, qualche volta intorno alla mensa.
Fabrizio,
la prima volta che lo rivide nei pressi della mensa, gli chiese se voleva
mangiare un po’ di pane ed il tonno, ne aveva diritto, anche se non poteva
entrare a mangiare con gli altri, ma Arisha, orgoglioso, rifiutò sprezzante e
se ne andò.
Si
fece rivedere, ma senza intenzione di chiedere nulla, pareva che cercasse
qualcuno; dopo un fuggente sguardo all’interno del giardino, se n’andò.
Né
Fabrizio né nessun altro dei volontari della mensa rivide più Arisha, ma questi
non aveva lasciato la città.
Frequentava
gli zingari del campo nomadi, che gli davano ospitalità, cibo ed amicizia, a
volte qualche incombenza connessa con il suo mestiere di ladro.
Mantenne
però i contatti con l’ambiente della piazza, per il vizio del fumo della
cannabis e per altri traffici che aveva con i tossicodipendenti.
Un
giorno due tossicodipendenti, una coppia che frequentava la mensa da diversi
anni, da quando fu aperta da Don Bruno, furono trovati morti entrambi, alcuni
giorni dopo la loro morte, in una casupola che avevano occupato.
Erano
entrambi molto compromessi nella salute a causa dell’uso di eroina e di ogni
altra sorta di medicinali e stupefacenti, ma la causa fu chiara per tutti:
overdose per una dose tagliata male.
Arisha
era in grado, anche se piccolo, di capire queste cose: se ne parlava,
nell’ambiente della piazza, ed anche lui espresse il suo parere.
Come
aveva fatto lui con l’alcol, avrebbero dovuto fare anche i tossici: smettere
completamente, tutti insieme.
Inventò
lo sciopero dall’eroina.
Paradossalmente,
i tossici della città presero in seria considerazione il suggerimento, si
riunirono, nel loro punto di ritrovo, la piazza, si organizzarono, affidandosi
a due medici volenterosi del Centro d’Igiene Mentale e giurarono di non farsi
più.
Eressero
una tenda nella piazza e scrissero dei cartelloni per spiegare ai cittadini ciò
che avevano deciso.
Era
un modo per impegnarsi di fronte a tutta la città e costringersi a non mollare.
Per
questo motivo cercavano di stare sempre insieme.
Vennero
i giornalisti che li intervistarono.
Una
televisione riprese la tenda ed i cartelloni ed intervistò i due medici ed un
rappresentante dei tossicodipendenti, che fu ripreso di spalle e con la voce
camuffata elettronicamente.
Un
partito politico appoggiò lo sciopero, ma il comitato degli ex tossicodipendenti
rifiutò ogni strumentalizzazione.
Le
famiglie li sostenevano con l’invio di minestra calda, panini e dolci.
La
città osservava diffidente, ma con una certa speranza, il tentativo di quei
ragazzi.
Lo
sciopero continuava da otto giorni, quando tre spacciatori fecero la posta ad
Arisha, in una stradina buia da cui doveva passare per andare a dormire nel
campo nomadi.
Senza
dovergli spiegare nulla, lo acciuffarono, lo ridussero all’impotenza e gli
iniettarono una dose mortale.
Il
giorno successivo fu trovato il suo cadavere, fu eseguita l’autopsia ed i
giornali scrissero che lo sciopero dalla droga era fallito.
Tra
i tossicodipendenti, che sapevano che Arisha non aveva mai assunto eroina, fu
chiaro che il messaggio era forte e diretto a tutti loro.
Il
comitato si dissolse, i due medici fecero di tutto per convincere un certo
numero di ragazzi a non mollare, a non cedere alle provocazioni.
Tutti
sapevano che nessuno di loro era protetto e, scoraggiati, quasi tutti ripresero
a farsi d’eroina.
Anche
chi aveva resistito, pur da solo, ricadde nel vizio, riacciuffato dagli
spacciatori.
E
così la storia della droga nella nostra città continua nel modo che vediamo
adesso: c’è chi spaccia, chi si droga, chi ne esce, chi ne muore, chi si
ammala, chi ruba, chi si prostituisce; dappertutto c’è sofferenza, per tutti
c’è una piccola speranza: il Centro, dove, con un forte impegno personale, si
può ricominciare una vita senza droga, riempiendola di volontà e motivazioni.
Arisha,
nel momento in cui il cuore cessò di battere e gli mancò il respiro, tornò in
cielo, il cielo sopra Via Torino.
Ma
l’angelo pianse.
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