LA DUNKERQUE ALLA ROVESCIA




Rudi Veo
Pasqua 2022
17 aprile

LA PALMARIA

Era estate, un’estate un po’ avanzata, era agosto, passato ferragosto, quando incominci a fare i tuoi calcoli, sbirciando le ipotesi autunnali e magari avresti preferito voltare lo sguardo indietro, quando era primavera e tutto filava per il meglio. Eravamo nella seconda metà degli anni settanta, 
bighellonavo una mattina, quando avevo vent’anni e prendevo sul serio il mio umore, terribilmente instabile, forse era così che mi piaceva sentirmelo addosso, strana gente i ventenni.
 Quando hai quell’età è facile innamorarsi e nel caso la questione funzioni, ti ritrovi pieno di strane certezze, del tipo che se ti si presenta davanti un muro che vorrebbe fermare il tuo passo, pensi non ci voglia molto a superarlo, potresti farlo semplicemente camminandoci sopra. 
Cosa c’è di più naturale che zampettare su un bel muro verticale, assumendo una posizione orizzontale, spiazzando Galileo, Newton, la fisica classica, la forza di gravità, forse ho dimenticato qualcosa o qualcuno, ma il senso spero di averlo reso.
Quando invece non funziona- non intendo la fisica ma l’innamorarsi- è come traslocare in un parco giochi, che a mio parere già di suo non è il massimo dell’allegria, a cui per di più hanno tagliato la corrente elettrica ed è pure un giorno nuvoloso, uggioso e indisponente e nemmeno vorresti trovarti in un posto del genere.
Il mio stato d’animo era più o meno così quella mattina di estate avanzata, quando incontrai, dalle parti dei giardini, Dario, Dario Vergassola, che stava andando particolarmente di fretta. 
"Veo -mi ha sempre chiamato così -tutto bene ? Accompagnami al molo che prendo il vaporetto per il Pozzale. Sono in campeggio, siamo un  po’ di amici, ho fatto un po’ di spesa e adesso rientro. La Palmaria è un sogno, sì sta una meraviglia, perché non vieni ?  Dai c’e ..... " e a quel punto Dario srotolava una sequenza di nomi di suoi amici di Rebocco, amici che anche adesso sono gli stessi e lui continua ad enunciarli sempre nello stesso identico modo.
Non devo aver pensato a lungo alla sua proposta, perché alle cinque della sera, di quello stesso giorno, salivo su un traghetto, destinazione Pozzale.
Mi sembra di rivedermi mentre attraverso la passerella, zaino, sacco a pelo e qualcos’altro che non ricordo, dotazione minima, ma fondamentale, per i giorni d’estate, quando le possibilità ruotano gioiose come elettroni in un habitat caldo.
Non mi ci volle molto a trovare l’accampamento, di cui Dario mi aveva accennato le coordinate. Stava un po’ sopra al campeggio dell’aeronautica lungo lo sterrato che taglia in due la valletta che arriva fino al mare.
Lasciai zaino e il resto tra i fianchi di due tende contigue e di lì a poco cominciai, piano piano, a dimenticare quale fosse il mio umore. Sentii cedere la tensione che tendeva la piega dei miei muscoli facciali, e mi lasciai andare a quella situazione isolana, che era feriale e disimpegnata, pervasa dal suono della risacca, dalle risate dei gabbiani che scrutavano gli umani vacanzieri da lassù, dagli acuti di madri che richiamavano bambini, dalle canzoni che il vento allontanava o porgeva all’orecchio stanandole da radioline appoggiate su asciugamani o muretti.
Quando la luce del giorno, dopo i convenevoli dell’imbrunire e dopo aver  spennellato di rosa il marmo delle Alpi Apuane, che stanno lì davanti a confondere le idee riguardo altezza e profondità, montagne e mare, insomma quando il chiarore svanì del tutto, iniziò una notte che ancora adesso ricordo.
Calma un attimo, precisiamo : non accadde nulla di incredibile, sconvolgente o trasgressivo, anche se a volte capita che aggettivi del genere vadano a braccetto, credo divertendosi un mondo; no, nulla di eccezionale in quel senso.
Piccola digressione: attualmente, essendo un po’ avanti con gli anni, quando faccio incontri casuali, scambio due parole con sconosciuti, se fermo il mio sguardo per apprezzare il colore del cielo o delle foglie, quando contemplo la contiguità di muri di mattoni rossi con prati di color verde smeraldo e merli di un nero lucente, in occasioni del genere mi sembra di vivere  un’esperienza indimenticabile. 
Ogni esperienza dovrebbe esserlo, ogni momento dovrebbe apparirci così: unico e indimenticabile, non l'ho capito da molto, di sicuro non potevo comprenderlo allora, quando avevo vent’anni e un po’ me la tiravo per quanto riguarda umore ed esistenza. 
Torniamo a quella notte, che mi sembra di ricordare abbastanza bene.
Ad un certo punto si materializzò un gozzo, di legno, che a turno facevamo scivolare remando nella baia che circoscrive il Pozzale. Eravamo un gruppo estemporaneo di giovani che remavano a turno, andando ogni tanto alla deriva, e non era per niente riprovevole farlo in quell’angolo di paradiso. 
Ci fermavamo qua e là, incrociando minuscole spiagge e approdi, mentre stavamo nel mezzo di discorsi proferiti così, come le risate dei gabbiani, che  standosene lassù colgono meglio il fluire delle cose del mondo.
Disquisivamo di tutto e di niente, raccontavo a Dario e lui si confidava con me riguardo amori, che non potevano che essere incredibili, semplici e unici. Il teatro di quella  nostra rappresentazione tragica, magica e ironica-ci mancherebbe non ci fosse l'ironia-era la baia del Pozzale. Girava una chitarra, accordi accompagnavano canzoni cantate senza troppe pretese ma sembravano perfette, nel loro risuonare nel silenzio interrotto dal respiro del mare. 
Quando il Tempo ci richiamò all'ordine, proprio dietro alle pareti di marmo delle stesse Alpi Apuane che poche ore prima risplendevano di un rosa perfino eccessivo, iniziò ad apparire l'Aurora e poi sbucò il sole e a quel punto gli occhi ci facevano male, perché una notte senza chiudere occhio è impegnativa, anche quando hai vent'anni.
Dormii qualche ora all’aperto e poi salutai ringraziando per l’ospitalità.
Quel breve intervallo di tempo, trascorso vivendo la sensazione di essere fuori dal mondo, pur trovandomi a pochissime miglia dal mondo di sempre, mi fece un gran bene. Ritornai alla realtà, e a tutto ciò che comporta, con dentro un umore migliore e anche i giorni e i mesi a venire, a quel punto m'incuriosivano più che darmi timore.
Trent'anni dopo quell'estate avevo una figlia di dieci anni, un figlio di sette e uno di quattro.
Avevamo preso la buona abitudine, appena possibile, di trascorre il pomeriggio alla Palmaria. Andavamo nel lato opposto rispetto al Pozzale, in quel filo di costa che sta davanti a Portovenere, chiamata Carlo Alberto. 
Portavamo con noi maschere e boccagli, dotazione minima per esplorare  il tratto di mare che ci stava davanti. Man mano che prendevamo confidenza, spostandoci sempre un po' più in là, al largo, sfidando quel fluire di correnti e sensazioni primordiali, un pomeriggio arrivammo a scoprire un groviglio di enormi alghe che sembravano capelli di una dea venuta da altri pianeti o forse pensavamo trattarsi di una vegetazione sfuggita ad un’isola abitata da creature gigantesche.
In realtà si trattava di Posidonia, un ecosistema marino che i miei figli, informati e istruiti da solerti e ineccepibili maestre di scuola primaria, conoscevano benissimo, io invece non proprio.
La posidonia sta là, ad una certa profondità, almeno a tre metri sul fondo, e noi nuotavamo in superficie e il sole a quell’ora del pomeriggio stampava il nostro profilo ondulante sulle alghe e sul fondale, così quando allargavamo le braccia era come vedere la silhouette di aeroplani che procedono in formazione, il nostro galleggiare s'imparentava, a quel punto, con l’ebrezza del volo.
Un bel giorno, mentre volteggiavamo sulla superficie del mare, raggi di sole intercettarono qualcosa tra la vegetazione là in fondo, rimandando piccoli lampi che pulsavano come innumerevoli arcobaleni. Guardando meglio ci accorgemmo che si trattava di pesci, il cui dorso rifletteva la luce e ne risultavano strie e riflessi di mille colori. Erano salpe, un pacifico branco di salpe, che mordicchiavano la vegetazione,  per nulla spaventati dalla nostra presenza.
Fu un momento indimenticabile, continuavamo a scambiarci sguardi, magnificati dal vetro delle maschere subacquee, e poi tornavamo a guardare quei pesci dal profilo quasi piatto.
Scoprimmo altre meraviglie quell’estate, in quel piccolo tratto di costa: stelle marine, pesci più piccoli diffidenti e veloci, un piedistallo di cemento adatto per  un grosso ombrellone, poi finito chissà come sul fondale... per noi diventò una botola, che apriva ad un rifugio segreto di misteriose creature anfibie che avevano di certo conosciuto Capitan Nemo.
Quell’estate però all’improvviso mi portò anche la notizia, imprevista e  inaspettata, di una operazione chirurgica che avrei dovuto affrontare entro un breve periodo di tempo.
Non si trattava, peraltro, di cosa da poco. Per fare un esempio, immaginate di avere la patente, senza aver mai guidato, e a un certo punto arriva un tipo che vi dice: - Mi dovresti parcheggiare quel Tir col rimorchio in quella stradina, dove a malapena ci transitano due Panda, intese come mezzi di trasporto a quattro ruote.                                         
Provai momenti di sgomento, di paura e incredulità, ma non smisi di andare, quando possibile, a Carlo Alberto, accorgendomi che quando ero lì, con maschera e un boccaglio e i miei figli vicino, dimenticavo angosce e paure e anzi sentivo crescere la certezza che tutto sarebbe andato per il meglio. 
In effetti, andò esattamente così, per il meglio.

Ho ricordato queste mie esperienze personali legate all’isola Palmaria perché ho avuto sentore del tentativo di stravolgerne la sua natura, il suo perfetto habitat, la fruizione che molti di noi che abitiamo nel golfo, ma anche di chi, venendo da lontano, l’ha visitata, ha camminato lungo i percorsi segnati, di sicuro apprezzandola per come è e per come, credo, debba continuare ad essere.

ps: Nel caso il progetto di stravolgere la Palmaria, intasandola di superyacht, resort e indecenze del genere, debba mai attuarsi, proporrei una Dunkerque alla rovescia. Avete presente le centinaia di imbarcazioni che andarono a salvare i soldati inglesi nelle spiagge del nord della Francia, dopo l'avanzata a sorpresa delle truppe tedesche nel 1939?  
Voglio immaginare che chiunque nel golfo abbia un'imbarcazione si renda disponibile per trasportare sull’isola il maggior numero di persone che con la loro presenza possano impedire che la Palmaria diventi qualcosa di innaturale, che si pongano barriere o recinti, qualcosa che possa alterare il respiro dei venti che l'attraversano e muovono le foglie dei lecci, dei fichi, e tengono immobili, sospesi nel cielo i gabbiani. E i gabbiani, di certo, apprezzerebbero il nostro dissenso.

Commenti

  1. La Pasqua ti fa bene. È come la Posidonia per il mare. Lo placa e vi nasconde sorprese, le luccicanti salpe, che sono come le uova colorate che il misterioso coniglietto ha disseminato nei prati del mondo perché bambini di tutti i colori li trovino. Quando farete lo sbarco, portatemi!

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