C’era una volta intorno alla Palmaria
Paolo Luporini
Il mio
primo natante fu varato al Carlo Alberto. Era un canotto arancione per bambini,
con i due remi, gonfiabile. Lo gonfiò mia mamma, con uno di quei soffietti a
pedale. Non ci mise poi molto. Io ci saltai sopra. La mamma m’impose il
cappellino, che io non volevo. Lei caricò mio fratellino con me, pure lui con
il cappellino come usava allora, con una piccola visiera e gli spicchi di tela
cuciti e con quel bottoncino in cima alla testa, e ci seguì a nuoto mentre io
mi esibivo nella famosa “Vogata in tondo” tipica di quel mezzo navale. Mi
avvidi subito che una pratica che sembra semplice può essere invece molto
complicata. Per di più, appena ci staccammo un po’ di più dagli scoglietti che
circondano l’area del nostro solito bagnetto, provai la velocità della corrente
del canale di Portovenere, che, senza un esperto controllo da parte dei remi,
ci avrebbe portati sino a un punto intermedio tra l’Olivo e il Bagno dei Sottufficiali
della Palmaria. Un intervento divino ci soccorse prontamente. Quella Dea si
chiamava Sandra, ma per noi era “La Mamma”. Si aggrappò a una cima che
circondava il canotto e ci trasportò a nuoto fuori dalla corrente, più vicino
alla spiaggia di sassi. Non eravamo più indipendenti, perché lei non si
azzardava a mollarci. Con i remi, la scontravo, e lei si lamentava che la
graffiavo. Rinunciai a quella voga inutile e mi rassegnai ad avere il sedere
bagnato di acqua salata e le spalle bruciate dal sole a picco. Mio fratello Claudio
non pareva sofferente come me e allora io presi la decisione di abbandonare il
natante, proprio come fanno i subacquei che indossano le bombole d’aria e si
lasciano cadere in mare di spalle dai loro gommoni di appoggio. La mamma si
trovò alleggerita e si dedicò solo al fratellino, bagnandogli le spalle, il
naso e le ginocchia. Io gli sguazzavo intorno ma poi mi stufai e tornai a riva
dichiarando terminata quell’esperienza per sempre. La mamma, avvicinandosi a
qualche sasso, non s’accorse che aveva bucato il piccolo gommone, che si stava
sgonfiando. Lo portò a riva, facendo scendere Claudio, che si tolse subito il
cappellino. Il mio, tutto bagnato, era rimasto nel canotto. La mamma lo mise ad
asciugare ma comparvero le macchie del sale. Si rimise a gonfiare il gommone,
ma così allargava il buco. Dopo molti tentativi, avendo osservato che si
sgonfiava molto in fretta, lo dichiarò inservibile per il momento, ma Egidio,
il marito, avrebbe saputo ripararlo come faceva da ragazzo a Viareggio con le camere
d’aria delle bici. Dopo una settimana, tornammo ad usarlo, il gommone, ma a San
Terenzo, dove non c’erano scogli né spine di ricci. Lì c’era solo una debole
risacca ed io divenni esperto della voga in tondo che mi appassionava molto,
ruotando in un punto dal quale gli altri bagnanti si tenevano lontani, a parte
la mamma, la Dea sempre pronta a venire in nostro soccorso.
Dopo il
gozzo di Armandino, che fu un’esperienza di voga preceduta da tanti altri
gommoni (uno all’anno), ci furono le esperienze di voga con la Società
Canottieri Velocior a cui mio padre m’iscrisse e che frequentai all’inizio con
intenzioni atletiche, salendo su uno skiff, su due senza, su due con e pure su
un canoino a quattro. Uno dei miei amici ebbe l’idea di farsi prestare dal
nostromo del circolo uno dei due gozzi di servizio, per un giro sino alla Diga
Foranea. Ci sfogammo in un’intera giornata di mare tuffandoci, nuotando,
asciugandoci al sole, scherzando tra noi e dimenticammo l’agonismo per
divertirci sempre con il gozzo. Al punto che ci diedero un soprannome: “Quelli
del gozzo”, con disprezzo o compatimento benevolo, nel migliore dei casi. Se
prima ci allenavamo con dieci giri di corsa intorno ai silos di cereali,
mescolando il nostro sudore con la polvere del frumento che si attaccava alle
parti scoperte dalle nostre canottiere e dai pantaloncini, ci limitavamo a
qualche esercizio con i pesi in palestra, dove ci cambiavamo velocemente per
correre al nostro gozzo. Un brutto scherzo che uno di noi inventò fu di abbandonare
uno di noi come naufrago (al pari di Ben Gunn, abbandonato dal pirata Capitan
Finn sull’Isola del Tesoro) su una delle boe sulle quali salivamo per tuffarci,
anche se erano sporche degli escrementi dei gabbiani. Poiché quello trovava
gusto pure nella ripetizione dello scherzo, se la prima volta mi parve
divertente, quando toccò pure a me: non mi divertii per nulla.
Fatto
sta che, con tutta questa voga, eravamo diventati pure molto veloci nonostante
il gozzo fosse piuttosto tozzo, ma restavamo sempre dentro la diga. Vicino alla
Società Velocior c’era il Circolo Velico che per noi era un luogo carico di
mistero perché era un posto adiacente ma separato dalla nostra vista. Ne
incrociavamo a volte le derive ma non c’era simpatia con loro. Uno dei miei più
cari amici, Riccardo, s’iscrisse ad un corso di vela con l’istruttrice Cristina
Montaldo. Dopo poco lo seguii, mentre mio papà continuava a pagare la retta
della Velocior. Imparai la teoria della Vela e la misi in pratica con lui salendo
sui Flying Junior che il Circolo ci metteva a disposizione e, un paio di volte,
su un Eau Vive, con la guida di Cristina. Ci feci iscrivere pure Massimo ed
insieme alle nostre ragazze facevamo delle gite a vela con gli Eau Vive. Lui
poi s’iscrisse alla Lega Navale, dove pagava di meno ed aveva maggiore libertà
perché c’erano più barche a disposizione e meno velisti. Così andavamo con lui io
e la mia ragazza come ospiti, nelle giornate di sabato e domenica, mentre alla
Velocior imparai ad andare in kayak e me ne appassionai. Poiché ne parlavo
entusiasticamente a Massimo, pure lui lo voleva provare, ma andò così: sospesi
i pagamenti delle rette del Circolo Velico e della Velocior giustificandomi con
la frequenza settimanale delle lezioni universitarie a Genova e limitai le mie
giornate di vela all’estate, ma un conoscente mi offrì l’acquisto del suo kayak
usato. Era visibilmente usato, era di resina, molto leggero, dipinto di nero di
sopra e lasciato del suo colore naturale nella chiglia. Era senza pedaliera né
timone. Mi adattai benissimo a questo modello che era molto slanciato e
veramente adatto al mare, soprattutto se calmo o con le onde lunghe. Avevo
avuto con il kayak pure la pagaia e mi dovetti comprare solo il paraspruzzi a
gonna che mi sarebbe servito per fare l’eskimo, che è quella manovra che, se
eseguita bene, permette di ruotare lateralmente e tornare verticali dopo un
intero giro sott’acqua. Ammetto che non mi esercitai mai abbastanza e che tutte
le volte che ci ho provato, l’ho fatto sempre vicino alla riva e rimanevo
sotto, non completavo il giro e dovevo sgusciare fuori dal pozzetto e svuotare
il kayak con più manovre alzando ora la prua ora la poppa, alternativamente,
per poi salirvi a cavalcioni dalla poppa e mantenendomi in equilibrio con la
pagaia. Eppure, mi lanciai in lunghi giri da solo partendo le prime volte da
San Terenzo, dove un amico mi lasciava tenere il mio kayak nel suo giardino,
poi a Tellaro in una rastrelliera riparata da un portico ed infine in un’altra
rastrelliera di proprietà di un amico milanese che aveva rilevato il negozio di
nautica a Portovenere. Cambiando questi posti come base di partenza, potevo
effettuare una grande varietà di escursioni in mare ma potevo anche decidere di
caricare il mio kayak sul portapacchi della UNO e scendere a Fiumaretta,
Marinella, Monterosso, Levanto. Provai ogni tipo di percorso e raggiunsi molte
destinazioni solitamente poco accessibili, spiaggiandomi e soffermandomi per
riposare e nuotare in quei luoghi magnifici. I canoisti spezzini o i ‘foresti’
che vengono dalle nostre parti per fare un po’ di canoa li conoscono, sono la
Baia Blu, la Venere Azzurra, Maralunga, la Caletta di Fiascherino, Fiascherino,
la spiaggia Vittoria di Tellaro, gli Spiaggioni, Punta Bianca, Punta Corvo, Bocca
di Magra, Fiumaretta, Marinella, oppure la Grotta Byron, Le Rosse, Le Nere, il
Canneto. Ho volutamente tralasciato le tre isole dell’Arcipelago spezzino, la
Palmaria, il Tino e il Tinetto, che perlustrai con un kayak nuovo, di schiuma
bianca, che mi propose l’amico milanese, un formidabile canoista. Aveva, il
kayak, la forma a banana adatta, per la maneggevolezza, ai corsi d’acqua torrentizi
e al mare mosso, che trovavo spesso intorno alla Palmaria. Feci la mia visita
alla Grotta Azzurra senza nessuno intorno e mi parve di tornare nel ventre
della Grande Madre, avvolto dal liquido amniotico dell’acqua di mare che si
rifletteva sulla volta della grotta. La sensazione fu di esserne completamente
circondato sopra e sotto. Un giorno di fine novembre in cui erano previsti sole,
tempo bello, mare calmo, chiesi ferie al lavoro e, molto presto la mattina,
partii per Portovenere, misi in mare il Kayak con uno zainetto tra le cosce
contenente bottigliette d’acqua, due panini e una mela. Pagaiai senza sforzo
fuori dalle Bocchette di Portovenere e costeggiai il lato sud-ovest della
Palmaria che avevo ammirato dalla barca a vela ma che non avevo mai visto da un
punto di vista così basso, proprio al livello del mare. Mi fermai in un’insenatura
prima della fine di quel lato di Palmaria dove le rocce sono molto alte e a
strapiombo sul mare, dove i colori delle ere geologiche disegnavano chiese
liguri a strati alternati di grigi e bianchi, con rocce azzurre e, sotto, il
blu intenso del mare profondo. Superai il Tino guardando in su alle bocche dei
cannoni che una volta fecero da set cinematografico al film “I cannoni di
Navarone”. Mi riposai accostandomi al Tinetto dove mi facevano compagnia dei
minacciosi gabbiani, unici abitatori dell’isolotto, che mi vedevano come un
inopportuno intruso. Aggirai il Tino e puntai su Torre Scola, deciso a farmi un’unica
tirata per riposarmi ancora un attimo arrivato là, ma fui superato da dietro da
un altro kayak di un solitario come me. Rallentò sino a farmi affiancare. Aveva
una lenza in mare. Gli chiesi la domanda più ovvia: “Pesca alla traina?”. E
quello: “Ne ho già presi due. Sono due begli sgombri. Ci farò cena.”. Allora mi
disse che era un chirurgo del reparto del Sant’Andrea e aveva la sua giornata
libera e aveva scelto come me di passarla così. Effettivamente, fu una giornata
formidabile. Mi propose di scendere alla Spiaggia dei Gabbiani, che era proprio
davanti a noi. Mi piacque molto quella spiaggia, quel giorno deserta, e quell’incontro
fu speciale. Ci fu una conversazione interessante anche senza approfondire la
nostra conoscenza. Però io dovevo tornare e lui decise di restare ancora un po’.
Io mangiai i miei panini e la mela a Torre Scola, che è un rudere incredibile
che solo dal suo interno può dare l’impressione di cosa doveva essere quel
posto per la quarantena degli equipaggi delle navi con la bandiera gialla.
Ancora una pagaiata e fui alla Piscina di Mare, il mio punto di approdo a
Portovenere, dove riposi nella rastrelliera il mio kayak di schiuma legandolo
con la catena e il lucchetto. Segnalai il mio arrivo all’amico milanese del
negozio di nautica, che così non avrebbe dato l’allarme alla Capitaneria di
Porto per iniziare le mie ricerche. È una norma di prudenza che pochi adottano
ma la ritengo indispensabile.
I kayak
che avevo a disposizione erano in realtà due. Un amico canoista esperto, avendo
visto la particolare forma del mio primo kayak, quello usato, mi chiese di
farsene uno stampo. In cambio, mi avrebbe ripagato con una copia realizzata con
quello stampo. La dipinse di rosso sopra, e sotto di bianco. Era molto più
bello del mio ma lo regalai a Massimo e io mi tenni il mio nero. Per un po’ li
tenemmo nel suo giardinetto a Fabiano ed era poco pratico spostarli per
muoversi per una nuova escursione in mare. Il mio amico Vittorio, la cui
famiglia aveva una casa estiva a Tellaro con un giardino, aveva anche lui il
suo kayak e ci propose di spostarli lì, i nostri, così saremmo andati in tre,
tutti insieme, sia dalla parte verso Lerici sia verso Bocca di Magra. Ci
calavamo dalla grotta sotto il suo giardino. Era un po’ come rinascere da un
grembo, ogni volta, per ritornarvi e riposarci, magari con una bibita fresca o
un toast. Tutto finisce, e finì anche il kayak, tralasciato lì per molti anni,
sporcato dai gatti, dalle foglie, dalla sabbia alzata dallo scirocco. Una
passione va mantenuta viva, altrimenti quell’amore muore. Come l’Amore degli
spezzini per la Palmaria, che mi dicono nei loro commenti che sentono il dovere
di tornarci ogni anno, per confermare che c’è sempre!
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