C’ERA UNA VOLTA LA VELA ATTORNO ALLA PALMARIA
Paolo Luporini
Pochi
sanno che nella mia vita ho molto sofferto per lunghi acuti periodi e, ad un
grande male, sono necessarie grandi cure. Quello zio pavese che mi mise a
disposizione la sua barchetta “Gobbi” per molte estati fece il grande passo di
abbandonare quel genere di imbarcazioni e passare invece alla Vela. Stava
ancora solo osservandosi intorno per fare un buon investimento e veleggiava su
grosse barche a vela di suoi amici, qui nel nostro Golfo, che è un Paradiso
della Vela. Un giorno mi avvisò con pochissimo anticipo che mi avrebbe portato
con lui sulla barca di un amico. Rifuggendo all’abitudine domenicale di una
giornata senza scopo, che avrei passato ad ascoltare i miei CD, sempre gli
stessi, e a crogiolarmi nella sottile sofferenza di Renato Zero o Bruce
Springsteen, nonostante fosse una giornata invernale con il cielo coperto ma
non piovosa, contrariamente alla mia indole, accettai, con l’approvazione di
mia mamma, che mi disse: “Vai!”.
Avevo
dei mocassini da barca perché, sebbene non salissi più da anni su una barca, di
nessun tipo, non avevo smesso l’abitudine di comprare quel tipo di scarpe. Non
avevo una cerata ma un pile, che credevo sarebbe stato sufficiente. A Lerici,
trovai mio zio sul molo davanti a un grandissimo ketch a due alberi, il “Seawolf”,
che in seguito avrei conosciuto bene, diventandone ospite frequente. Quel
giorno, l’amico di mio zio lo trasferiva a Lavagna perché stava per cederlo e
avrebbe voluto acquistare una grossa imbarcazione a motore più adatta per la
sua famiglia. Aveva dei figli. Quando questo amico vide il mio “pile” mi disse:
“Ma tu non puoi mica venire così! Sei troppo leggero e non ti ripareresti dal
vento, che sarà forte e molto freddo. Ti do una mia cerata.”
Essendo
la prima volta che lo vedevo, accettai e ringraziai. Ci staccammo dal molo e,
con il motore e poi a vela, traversammo le bocchette di Portovenere e costeggiammo
le Cinque Terre, ma, con l’aiuto della bussola e del Loran, facemmo rotta sul
porticciolo di Lavagna, portandoci più al largo. Io ero come un sacco da
marinaio appoggiato a lato del pozzetto, dalla parte opposta al timone, e non
partecipavo ai discorsi di mio zio e del suo amico. C’erano pure altri a bordo
che si occupavano delle vele. Io non facevo niente e me ne stavo muto, sino a
quando decisi di alzarmi e di spostarmi sul ponte della barca, un po’ più verso
prua. Mi agganciai con la cerata su una galloccia fissata sulla resina della
tuga. Le produssi un vistoso sette che lasciava entrare nel fianco il vento
gelido. Mortificato, lo dissi al suo proprietario, che me l’aveva così
imprevidentemente prestata, che mi disse: “L’avevo comprata a Bastia, quella
cerata. E adesso, come facciamo? Bisogna ricomprarla.” Tremavo, perché non
avevo idea di quanto l’avesse pagata, in franchi, e quanto avrei dovuto
rimborsargli. Aveva un tono che mi parve severo e sicuro di sé e mi aspettavo
proprio che avrebbe preteso che gliela pagassi, quella cerata che sbadatamente
gli avevo distrutto. Continuò: “Toccherà andare sino in Corsica, per
ricomprarne una così.” Gli sorrisi stupidamente e lui mi disse: “Ne ho un’altra,
nell’armadio di una delle cabine. In barca bisogna sempre avere due di tutto!
Non si sa mai!” Mio zio disse: “Non ti preoccupare, lui è ricco, di cerate!
Valla a cercare e mettitela!” Dopo una lunga traversata, io sempre in silenzio,
arrivammo a Lavagna dove ci dividemmo ed io e mio zio tornammo a Spezia in
treno, dove lui venne a far visita a sua sorella. Poi si comprò un bellissimo
COMET 420, con il nome di Ephemeris, da Effemeridi, non da Effimera, la
farfalla che vive meno di un giorno. Fu la sua bella barca per molti anni e io
ne conobbi ogni sua parte, essendo quasi ogni domenica o fine settimana a
bordo, o con suoi ospiti o facendo regate nel Golfo, perché era questo che mio
zio voleva farci, vincerne qualcuna, e l’attrezzò con vele sportive che gli
fornì la migliore veleria della provincia, con l’intermediazione di Attilio Cozzani,
che venne a farci da skipper per farci vincere la nostra prima regata, in un
Campionato Invernale con l’arrivo attorno a un’ultima boa piazzata a una pari
distanza tra il Terrizzo e l’Olivo. Il tempo atmosferico quel giorno era
pessimo, pioveva forte e c’erano lampi nel cielo, noi eravamo tesi a strappare
all’orza ogni minimo angolo di bolina che ci avrebbe consentito di fare il
nostro giro di boa prima di un’altra fortissima barca che ci minacciava
tallonandoci di pochissimo. Pochi istanti prima di arrivare vicino alla boa,
quando assaporavamo, tutti soffrendo, l’umidissimo sapore della vittoria,
sentimmo un esplosivo “CRACK!”. Era venuta giù la carrucola in testata d’albero
della drizza della randa. Ci sentivamo perduti, almeno io mi sentivo così.
Attilio tenne duro e strappò la vittoria per tutti noi. Fu l’esperienza più
emozionante di tutte le regate che feci, persino delle imponenti manifestazioni
veliche delle regate di MARIPERMAN.
Preciso
che la proprietà della barca era in società, perché lui e il suo socio la
pensavano così: “Una cosa bella è meglio averla in due che non averla per
niente!”. E il mio punto di vista era ancora più privilegiato. Quel tipo di
cura dalla mia malattia mi risanò quasi del tutto gratuitamente, perché, a
parte qualche spesa di attrezzatura personale, di trasporto terrestre o qualche
rara spesa per la cambusa di bordo, fui per la maggior parte delle volte ospite
non pagante di mio zio. Quella barca mi diede molte soddisfazioni, oltre alla
mia rinascita a una nuova vita. Feci molte conoscenze, tra le quali quella di
Mauro Melis, che è tuttora un grande amico, e molti altri spezzini atleti della
vela e amici che venivano dal pavese ospiti di mio zio, persino uno skipper
russo! Con il Seawolf, acquistato dal nostro amico Gianni e dalla Lucy, la sua
compagna, facemmo alcune delle nostre più grandi imprese: la Crociera della
circumnavigazione della Corsica di cui trattai nel mio libro “La Crociera dell’Ephemeris”,
disponibile anche in Kindle Amazon, e la partenza delle Colombiadi, la Regata di
Colombo del 1992, per i 500 anni dalla scoperta delle Americhe, la cui partenza
fu davanti alla costa di Camogli, a cui parteciparono navi e barche a vela
molto importanti e note di quel periodo. Uno spettacolo indimenticabile e
bellissimo, quando quei grandi velieri di tutte le nazioni ci sfilarono sopra
con la velatura spiegata, provenienti da Genova per virare in un punto ideale di
fronte a Camogli e partire per una traversata atlantica che durò molti giorni
di navigazione. Manco a dirlo, la più grande e la più bella era l’”Amerigo
Vespucci”. Un nostro amico di Marina era invece a bordo dell’Orsa Polare.
Ricambiò il nostro saluto alla partenza.
Pur
potendo godere senza pagare della barca di mio zio, un velista che aveva la sua
barca a Lerici e che spesso saliva a bordo dell’Ephemeris come uomo esperto
dell’equipaggio, mi disse che la sua barca, alla quale aveva imposto il
soprannome che lui dava a sua moglie, la metteva in vendita per comprarne una
più nuova. La barca aveva 16 anni e il prezzo era basso, le condizioni in mare
sufficientemente buone. Io avevo vinto il sorteggio di un posto barca alla
catenaria comunale. Ne parlai al mio amico Massimo e diventammo soci facendo l’affare.
Io avevo dei risparmi, ma due Buoni Ordinari del Tesoro non mi avrebbero mai
dato le soddisfazioni che la nostra barca, che ribattezzammo “Nord-Ovest” come
il nostro riparto scout, al prezzo di un BOT ciascuno, ci ripagò
abbondantemente, anche se la spesa fu un po’ superiore perché affittammo un piccolo
spazio in un capannone alla Marina del Canaletto con l’aiuto di Mauro Melis, e
ci rifacemmo rifare la carena e lavorammo a ripristinare a legno il pagliolato
in tek e le altre parti in legno come il portello delle cabine e i corrimano.
Le altre parti e le vele erano ancora buone e, come ultima cosa, applicammo
sullo specchio di poppa una decalcomania computerizzata con il nuovo nome.
Dicono che cambiare il nome a una barca porti sfortuna. Il motivo proviene dall’usanza
d’inciderlo sulla parte più importante della chiglia. Senza quella parte, non
esisterebbe più neppure la barca. Perciò il nome un tempo non si cambiava mai.
Noi sfidammo la superstizione dei marinai e ci divertimmo, con quei sei metri e
mezzo di scafo, con le sue vele e il motore ausiliario di cinque cavalli. Massimo
un’estate affittò un appartamentino estivo a Portovenere, sulla costa dopo l’ultima
spiaggia di Portovenere. Ne fui ospite e, poiché aveva portato la barca proprio
a una boa lì sotto, e veleggiammo per due giorni intorno alla Palmaria, ma il
secondo giorno il vento aumentò d’intensità e il moschettone si staccò
improvvisamente ed io, mentre la barca filava velocissima con tutta la randa spiegata,
con il fiocco che sbatteva e mi colpiva le gambe e le braccia, in piedi davanti
all’albero, cercavo di dominare la paura e di rimetterci la scotta. Mi feci
male e provai il terrore di cadere in mare. Non mi era mai successo prima. Fu
un trauma momentaneo che rese vani tutti i tentativi di risalire a bordo di una
barca a vela e perciò decisi di sciogliere la nostra società offrendogli di
rilevare la mia parte con la stessa quota con cui ciascuno di noi l’aveva
comprata, senza considerare tutte le spese per la manutenzione straordinaria
che avevamo affrontato, mettendoci pure molte nostre ore di lavoro manuale.
Massimo fu comprensivo, nonostante avesse fatto tutti i suoi tentativi per
farmi cambiare idea, e mi restituì la mia parte. Quell’antica barca è ancora in
mare e io non sono più in mare già da molti anni. La Vela, la Palmaria, il
Golfo di Spezia, ebbero per me effetti di guarigione e passai momenti
meravigliosi e privilegiati che qualcuno potrebbe pure invidiarmi non capendo
la gravità di quanto prima avevo passato. Dalla Vela ebbi di nuovo un fisico
prestante e allenato, autostima, agonismo, socialità, amicizie che erano tutte
partite dal dono da parte dello zio di questa opportunità di rinascita.
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