C’era una volta su e giù per la Palmaria
Paolo Luporini
Chi
invidia la mia “formidabile” memoria non sa che invece scriverne è pure uno
sforzo. Ricordare, specialmente i momenti davvero felici del passato, contiene
pure una sofferenza del presente e la preoccupazione del futuro, nella
consapevolezza che certe esperienze avventurose non le potremo più fare, per
gli anni, per il fisico, talvolta per lo spirito. Eppure, altre soddisfazioni
affiorano, come il piacere della condivisione di ricordi comuni a tanti,
talvolta la gratitudine di chi legge, addirittura gratis, ampi stralci di vita
spezzina che richiamano alla gioventù, che è quasi per tutti una stagione della
vita molto felice.
Consapevole
di aver scritto delle ovvietà per molti, taccio su questo argomento e torno
alla nostra Palmaria genuina, quella delle nostre esplorazioni, che oggi le
agenzie di viaggio vendono come trekking. Noi partivamo per le nostre
escursioni su e giù per l’isola addirittura con le infradito, incoscientemente.
Non fatelo! Se lo avete fatto una volta, certamente non lo rifarete e vi
raccomanderete con i vostri nipoti perché indossino degli scarponcini o
perlomeno delle scarpe da ginnastica. Una delle prime ‘scarpinate’ che facemmo
fu quella per raggiungere quell’edicola votiva che si può ancora vedere a mezza
costa proprio di fronte alla chiesetta di San Pietro, oltre il canale di
Portovenere. È un percorso da capre e, da quando ne hanno popolato l’isola, se
ne può pure incontrare qualcuna. Me lo ricordo come un percorso difficile e
aspro e qualche ragazza tornò presto indietro. Noi, orgogliosi scout,
proseguimmo e ci soffermammo per qualche attimo ad ammirare la punta di San
Pietro rammaricandoci di non avere con noi una macchina fotografica. Peraltro,
oggi Internet è piena d’immagini riprese da questo punto e anche ai nostri
tempi e prima di noi i pittori riprendevano quella veduta da quel punto di
vista allora raro.
Un’altra
passeggiata che ci era molto comune, sempre partendo dallo stabilimento del
Dopolavoro Dipendenti Marina (D.D.M.) che si trova a metà tra il Terrizzo e la
spiaggia della Batteria Carlo Alberto, era semplicemente per arrivare al Bagno
dei Sottufficiali, dove avevamo qualche amico e potevamo conoscere qualche
ragazza nuova. Con qualche sotterfugio eravamo presto dentro e ci confondevamo
con quei privilegiati, persino pranzando alla loro mensa o consumando al bar
proprio come loro. Se il D.D.M. aveva come lavoranti dei dipendenti
dell’Arsenale che erano temporaneamente destinati lì per la stagione estiva,
dai sottufficiali c’erano marinai di leva a fare tutti i lavori, persino il
cuoco e i camerieri, oltre ai bagnini, lo erano. Se per loro c’era qualche
vantaggio pratico come quello di abitare sull’isola, il lavoro era gravoso e la
condizione, che stavo per definire umiliante, era perlomeno poco dignitosa,
perché persino delle bambine li potevano comandare e chiedere loro di servirle
nei loro capricci, come spostargli un ombrellone o sistemargli la sdraio.
Parlando con alcuni di loro, decidemmo per solidarietà di non imbucarci più dai
sottufficiali e d’ignorarne completamente l’esistenza, anche se un’altra delle
nostre passeggiate comprendeva il passaggio sulla strada carrareccia che
portava al forte ottocentesco abbandonato che noi chiamavamo forse
impropriamente “Le Carceri”, che allora era recintato da una rete e segnalato
come zona militare. Eppure, c’erano dei buchi, segno che qualcuno ci si era
inoltrato, ma noi non vi entrammo mai. Era troppo bello proseguire sino alla
Spiaggia dei Gabbiani, che preferivamo. Un anno, ci campeggiammo proprio al di
sopra, montando la tenda sotto l’ombra di un paio di alberi, dove potevamo
rinfrescarci al pomeriggio dopo l’ultimo bagno della mattina, per prepararci
qualcosa da mangiare con i fornelletti, stando molto attenti a non causare
incendi. Eravamo tutti scout, ragazzi e ragazze, eravamo forse solo cinque,
oppure sei, e nella tenda stavamo stretti. Ci godevamo i bagni in mare molto di
più che nello stabilimento perché non avevamo né regole né orari. Ci svegliavamo
quando il sole, come dappertutto, sorgeva a est molto presto, come tutte le
estati, ma sempre un po’ più tardi, dopo il solstizio, come studiavamo sui
nostri libri scout, dove si trattava un poco pure di astronomia. E così ci
facevamo un primo freschissimo bagno ancor prima della colazione. Il campeggio
selvaggio, che poi venne subito proibito in tutta l’isola, fu un’esperienza di
totale libertà e dispiace che sia vietato dappertutto, persino gli scout devono
tener presenti alcune regole perlomeno di opportunità e di sicurezza. Anche noi
eravamo molto previdenti, ma altri forse non lo furono e così la Marina
Militare e il Comune di Portovenere, che ha la giurisdizione sull’arcipelago
delle isole spezzine, lo vietò. Un pomeriggio molto assolato, su quella parte
dell’isola, un po’ lontano dalla nostra tenda, scoppiò un incendio spontaneo al
di sopra della strada. Mentre alcuni di noi lo affrontavano con frasche e
bastoni di legno usati come fruste, una ragazza corse dai militari della Marina
per dare l’allarme, ma passò un bel po’ di tempo prima che lei tornasse con
loro a bordo dell’autobotte predisposta per spegnere gli incendi. Quei marinai
non erano molto pratici e persero altro tempo per stendere la manichetta e
avvicinarla all’incendio e quando aprirono la valvola, la pressione era
insufficiente perché l’autobotte era vuota per metà. Fu uno shock, per noi che
da almeno un’ora ci avvicendavamo con altri bagnanti che erano accorsi a darci
manforte e realizzammo che l’aiuto della Marina era del tutto inutile.
Aumentammo il nostro impegno ed io mi ferii una mano con la corteccia del ramo
che usavo per frustare alla base le fiamme e il volto e le braccia erano
infuocate dal calore, ma, pur sanguinante, proseguii fino a che l’incendio fu
del tutto domato e mi feci medicare dall’infermeria militare, tornato al
Terrizzo. Avevo la mano fasciata, ma rimasi in campeggio quella notte, dove la
stanchezza ci piombò addosso pesantemente, ma io e Lucia ci svegliammo presto,
prima degli altri. Me ne resi conto perché eravamo vicini e percepivo i suoi
piccoli movimenti. Quella stretta vicinanza, ciascuno nel suo sacco a pelo, la
consapevolezza di essere svegli e a così stretto contatto, fece che io non
gliene parlai mai, sino a quest’anno, in cui l’ho rivista dopo molto tempo e
abbiamo avuto una ventina di minuti tutti per noi. È un tenero ricordo, nulla
più. Lei è ora la sorella che avrei sempre voluto.
Quello
fu l’ultimo campeggio libero alla Palmaria, ma ebbi l’opportunità di passare
un’altra notte sull’isola in tenda, in un altro giardinetto privato, una
terrazza, dove il papà del mio amico Massimo aveva piantato insieme a noi una
tenda che aveva costruito interamente da sé, con materiali di scarto come dei
tubi idraulici che nelle giunture non s’incastravano come al solito nelle tende
a casetta, ma si avvitavano con dei raccordi filettati. Il montaggio fu un po’
complicato e lento, ma il risultato era perfetto. Era una tenda molto comoda,
mica come quelle alle quali eravamo abituati noi! C’erano due camere, una per i
genitori e una per me e Massimo. Ricordo, di quella serata, che ci siamo spinti
molto in alto su per la strada che porta al Forte sulla sommità dell’isola e,
il giorno dopo, io e Massimo attraversammo tutta l’isola a piedi sino al
Campeggio dell’Aeronautica al Pozzale. Avevamo con noi dei soldi e pranzammo
con un panino, dopo il bagno e subito prima del ritorno, sempre a piedi,
costeggiando panorami come questo.
Se
quello fu l’ultimo giorno di campeggio, non fu l’ultimo in cui pernottai alla
Palmaria. Moltissimi anni dopo, ma ne sono passati già molti ad oggi, poiché il
Forte in cima alla Palmaria fu riadattato per usi sociali collettivi per
comunità che volevano soggiornarvi, gli scout della Zona di Spezia dell’AGESCI
vi organizzarono un loro raduno al quale però mancai perché non stavo bene. Mi
riferirono che fu un’esperienza magnifica. A seguito di quell’esperienza, il
Movimento Adulti Scout Cattolici (M.A.S.C.I.),
di cui facevo parte, organizzò due giorni alla Palmaria con la base notturna in
quel Forte. Ricordo che la nostra Comunità di Spezia (Mario Di Carpegna)
organizzò molto bene le due giornate, con pochi momenti non programmati. Oltre a
un Grande Gioco che coinvolse molto i partecipanti arrivati da tutta la
Liguria, furono notevoli due altri momenti oltre alla cena cucinata
magistralmente dallo staff di Salvatore: la lezione iniziale di Carla, appena
scesi al Terrizzo dal vaporetto partito da Spezia, e la seduta notturna di training autogeno
sotto le stelle, sul tetto del Forte. Carla si era vestita da esploratrice
indossando un casco coloniale autentico e impersonava il paleontologo Giovanni Capellini
che ebbe il merito delle ricerche alla Palmaria e del ritrovamento di armi e parti
dello scheletro dell’Ursus
spelaeus, dimostrando la presenza
di abitanti umani nella Grotta dei Colombi, in epoca preistorica. Il merito
dell’esperienza, rimasta per me purtroppo unica, di induzione al training
autogeno va alla nostra magister di quel periodo, Eloisa Guerrizio, che
aveva imparato da un suo maestro come farlo su se stessa e, abilmente, con
parole sue, ci portò a un totale rilassamento, favorita da una magnifica notte
stellata, di fronte alla quale fu quasi un peccato obbedire al suggerimento di
chiudere gli occhi per lasciarsi andare alle visualizzazioni che le sue parole
ci portavano a vedere sullo schermo interno della nostra mente, percependo un’onda
di rilassamento che partiva dalle nostre estremità, una per una, sino ad
arrivare ad un benessere totale. La tentazione di passare direttamente al sonno
fu per me forte e qualcuno del gruppo ebbe l’idea di portarsi il sacco a pelo
lì sopra per dormire sotto le stelle, prolungando quelle sensazioni. Anche
quella volta, partire da quell’isola nuovamente magica fu un addio al nostro
paradiso naturale. Ma quell’isola è ancora lì, aspetta che nuove generazioni la
scoprano come un tesoro della natura e della libertà, della socialità, un BENE
COMUNE per tutti.
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